Quantcast
Channel: Rivista Eurasia – Pagina 331 – eurasia-rivista.org
Viewing all 166 articles
Browse latest View live

Le dinamiche latitudinali e longitudinali

$
0
0

Quando i grandi spazi dell’Antichità si formano, seguono un’evoluzione di tipo latitudinale, favoriti dalla posizione del Mediterraneo romanizzato, dalla cintura desertica, dal tracciato dei massicci montuosi. Da allora, il posizionamento dei grandi spazi dell’Antichità segue un asse Est-Ovest, corrispondente al parallelismo della zona temperata settentrionale, della zona sub-tropicale e della zona tropicale. Solo i più antichi imperi fluviali, come l’Impero egizio lungo il Nilo, la Mesopotamia, la cultura pre-ariana dell’Indo costituiscono delle eccezioni. L’orientamento di questi imperi, contrario a quello dell’Impero romano, è loro imposto  dal corso della loro arteria vitale (il fiume). Tale orientamento influenza tutto il corso della loro storia, fino al momento in cui essi vengono assorbiti dal primo grande spazio latitudinale del Medio Oriente, l’Impero achemenide degli Iraniani.

A partire da questo momento, si dispiega la dinamica latitudinale, con i Fenici, gli Elleni, i Romani, gli Arabi, i popoli della steppa, i Franchi, gli Iberi. In effetti, i popoli iberici traspongono dapprima la loro potenza da un mediterraneo ad un altro, dal Mediterraneo romano a quello dei Carabi, in America. Essi proseguono così la logica latitudinale. Quando raggiungono le rive del Pacifico, questa espansione latitudinale prende la forma di un ventaglio. Tra il 1511 e il 1520, i Portoghesi da Ovest e gli Spagnoli da Est raggiungono il primo grande spazio che tenta di svilupparsi longitudinalmente verso Sud, contando sulle proprie forze; all’epoca, questo grande spazio è il portabandiera dell’Asia orientale, vale a dire la Cina, potenza che spesso ha cambiato forma esterna pur mantenendo la sua cultura e il suo patrimonio razziale. Prima dell’arrivo degli Iberici e prima dell’adozione di questa logica di espansione longitudinale, anche la Cina si era estesa latitudinalmente.

Il flusso migratorio asiatico-orientale, cinese e giapponese, avviene su un asse Nord-Sud, nel momento in cui l’espansione coloniale spagnola lo attraversa costituendo nello stesso tempo il primo impero latitudinale “sul quale il Sole non tramonta mai”. La Spagna non conserva il suo monopolio che per 70 anni. Poi, sulle sue tracce, arrivano quelli che vogliono confiscarle la sua potenza e diseredarla. Il più potente di questi nuovi avversari è l’Inghilterra, che si mette rapidamente a costruire il suo primo e il suo secondo impero, la cui configurazione presenta numerose torsioni, ma rimane comunque il risultato di un’espansione latitudinale, determinata dalla posizione del Mediterraneo, il cui controllo garantisce il possesso dell’India. Quanto all’impero degli zar bianchi e poi rossi, esso segue in direzione Est l’estensione latitudinale della zona dei campi di grano. Tra i due imperi si situa una zona-tampone. Negli anni 40 del XX secolo, emergono quasi simultaneamente due costruzioni geopolitiche longitudinali, la costruzione panamericana e la costruzione grande asiatico-orientale, che sfuggono entrambe a questo campo di forze latitudinale, danno impulso ad espansioni lungo assi Nord-Sud e inquadrano le espansioni imperiali britanniche e russe.

Se si paragona questo nuovo stato di cose  alla concezione dinamica di avanguardia di Sir Halford Mackinder, da lui chiamata “the geographical pivot of history” ed enunciata nel 1904,  — essa corrisponde perfettamente alla situazione di quell’epoca —  il nuovo orientamento delle espansioni panamericana ed asiatico-orientale costituisce una formidabile modificazione del campo di forze sulla superficie della Terra; in questo nuovo contesto, il tentativo di realizzare l’idea di Eurafrica o gli sforzi dell’Unione Sovietica di abbandonare la sua dinamica latitudinale per orientare la sua espansione  verso il Sud e i mari caldi e per costituirsi uno spalto indiano, non dispiegano un’energia cinetica altrettanto potente.

Questa constatazione è tanto più preoccupante in quanto, nella vasta area asiatico-orientale, si può constatare una impulso interno che conduce ad una sorta di auto-limitazione centripeta, che intende concentrare tutti gli sforzi sul grande spazio in cui vivono dei popoli affini. Questa volontà centripeta è già operante e visibile. Ora, la potenza imperialista degli Stati Uniti non è centripeta ma, dopo la concretizzazione della dominazione nord-americana sullo spazio panamericano, essa estende i suoi tentacoli in direzione dell’Africa tropicale, dell’Iran, dell’India nonché dell’Australia. L’imperialismo americano parte dalla sua base, cioè da un territorio formato a partire da un’espansione longitudinale, per assicurarsi la dominazione del mondo, avviando a sua volta e a suo vantaggio una dinamica  latitudinale. Questo imperialismo già si prepara a contrastare l’espansionismo dei suoi futuri nemici preparando una terza guerra mondiale.

Dunque, a partire dall’espansione longitudinale panamericana, l’imperialismo di Washington mira senza pudori a diventare l’unica potenza imperialista del globo, se si eccettua tuttavia il pericolo rappresentato dalla rivoluzione mondiale sovietica. A fronte di questa rivoluzione sovietica, la grande area asiatico-orientale ha reso dinamico il proprio spazio culturale e innescato il dispiegamento della propria potenza. Essa pensa così di garantire il proprio futuro costituendo una zona-tampone.  Da una generazione, gli osservatori ritengono che pure l’Europa debba darsi una tale zona-tampone, come del resto già suggerito da uomini come Ito, Goto, etc., per fare opposizione alle mire espansionistiche dello zarismo.

La collisione frontale tra dinamica longitudinale e dinamica latitudinale è molto visibile in Africa, nello spazio islamico e nella zona in cui l’impero britannico sembra sfasciarsi. Constatiamo dunque l’esistenza di due esigue linee di traffico aereo e marittimo, che si lanciano molto lontano verso Sud e al termine delle quali sembra essere agganciata l’Australia, continente vuoto, situato tra i territori compatti dove vivono le popolazioni anglofone e sulla principale via di espansione verso Sud della grande area asiatico-orientale. Mackinder aveva parlato di un “esterno in crescita” che correva il pericolo di essere abbandonato al mare: in questa parte della Terra, tale previsione è quasi divenuta realtà. È anche la ragione per cui in questo momento l’Europa non sembra più solidamente collegata all’Africa. La spinta laterale contro i dominatori delle latitudini è slittata verso Sud-Est.

Oggi ai Sovietici, padroni di quello che Mackinder un tempo chiamava il “pivot of history”, e all’Asse, cioè alle potenze dell’ “interno in crescita”, non resta che registrare il fatto. Certo, i sanguinosi combattimenti che oggi si svolgono sul teatro pontico [del Mar Nero] e caspico sono importanti per il destino della cultura europea, come tutti i combattimenti avvenuti in questa zona nel corso della storia, tuttavia, per la nuova suddivisione della Terra in raggruppamenti di grandi spazi, suddivisione che s’impone, questo teatro di guerra è divenuto secondario.

L’evoluzione geopolitica decisiva futura è la seguente: l’espansione latitudinale anglo-americana diretta contro l’espansione longitudinale asiatica si manterrà o sarà bloccata? Sia che questa lotta abbia una fine positiva che negativa, gli Stati Uniti credono di essersi assicurati nell’ex impero britannico garanzie territoriali sufficienti  per far tornare i propri conti. Nella pratica, questo significa che essi vogliono conservare l’America tropicale e, in più, l’Africa tropicale. Se essi ritengono che l’Insulindia, terza grande regione tropicale fornitrice di materie prime, che l’Iran già fortemente intaccato, che l’India, valgano enormi  sanguinosi sacrifici e colossali investimenti in denaro, essi se ne impadroniranno concentrando altrettante forze di quelle che concentrano per cacciare le potenze della grande area asiatico-orientale dai loro possessi ben fortificati. Per coloro che danno il loro sangue o il loro denaro alla causa degli Alleati, al fine che questi siano beneficiari della grande eredità, questa è la domanda più evidente da porre in questa lotta planetaria.

E’ per essere gli eredi di questo grande patrimonio, e non per dei principi, che gli Stati Uniti mostrano all’Europa i loro denti da gangster; nella grande area asiatico-orientale, essi non fanno sentire che quel rullo di tamburi che sono le declamazioni di McArthur, sospinto a fallire nel Pacifico la sua chance di diventare, un giorno, Presidente, come a suo tempo Cripps in India. Tra la Cina di Nanchino e la Cina di Chungking sono possibili, come in precedenza, i compromessi più pazzeschi, più sorprendenti. Il vasto ambiente chiamato in causa dall’espansione longitudinale della grande area asiatico-orientale è ancora pieno di energie latenti. Sul piano cinetico, queste energie si sono viste all’opera solo a sinistra del Giappone, soprattutto in Cina, ma non abbiamo ancora visto niente a destra. Lì, ci si aspetta una guerra che durerà dai dieci ai quindici anni. La Cina ha tenuto duro per 32 anni di guerre civili, il Giappone ha alle sue spalle dodici anni di guerra sul continente. E ha dimostrato di essere veramente in grado di colpire duro in direzione del Pacifico. Bisognerà avere ampio respiro, essere capaci di affrontare i tempi lunghi, di cogliere le dinamiche di vasti spazi, per comprendere la lotta che oppone la dinamica latitudinale alla dinamica longitudinale, le quali si dispiegano entrambe da una parte e dall’altra del Pacifico.

(Zeitschrift für Geopolitik, Nr. 8, 1943)


Intervista a Juan Domingo Peron

$
0
0

Prima di tutto, potrebbe parlarci del libro che ha appena pubblicato, La hora de los pueblos?

In questo libro ho voluto dare una visione d’insieme dell’influenza e del dominio imperialisti in America Latina. Penso che i paesi latinoamericani si stiano avviando verso la loro liberazione. Beninteso, questa liberazione sarà lunga e difficile, perché interessa la totalità dei paesi sudamericani. Infatti non è pensabile che vi sia un uomo libero in un paese schiavo, né un paese libero in un continente schiavo. In Argentina, in dieci anni di governo giustizialista, siamo vissuti liberi in una nazione sovrana. Nessuno poteva intromettersi nelle nostre faccende interne senza fare i conti non noi. Ma in dieci anni la sinarchia internazionale, ossia l’insieme delle forze imperialiste che dominano attualmente il mondo, ha avuto ragione di noi. Una quinta colonna, i cipayes, come noi li chiamavamo riferendoci all’India, aveva eseguito scientificamente un efficace lavoro di scavo, e l’ordinamento politico da me presieduto venne rovesciato. Ciò dimostra che, se i popoli possono arrivare a liberarsi dal giogo imperialista, in seguito per loro è molto più difficile conservare l’indipendenza, perché le forze internazionali che ho denunciate riprendono il controllo della situazione… In questo senso, la sconfitta subìta dal giustizialismo deve essere una lezione e un’esperienza, ahimé assieme a molte altre, per tutti i paesi che vogliono liberarsi e rimanere liberi.

Bisogna considerare la lotta di liberazione dei paesi del Sudamerica come una lotta globale, a livello continentale. In questa lotta, ogni paese è solidale coi suoi vicini, presso i quali deve trovare appoggio. La prima necessità per questi paesi è unirsi, integrarsi. Il secondo punto consiste nel realizzare l’alleanza effettiva col Terzo Mondo, così come noi, i miei collaboratori ed io, la preconizziamo da vent’anni! È questa la via che bisogna indicare al popolo sudamericano; non solo ai dirigenti, ma anche alla massa popolare, che deve rendersi consapevole della necessità di questa lotta contro l’imperialismo. Unificare il continente e liberarlo dalle influenze straniere, allearsi al Terzo Mondo per partecipare alla lotta antimperialista su scala mondiale: sono questi, dunque, i primi obiettivi. In seguito, potrà svilupparsi il processo di liberazione interna: il popolo otterrà il governo che quotidianamente reclama e che gli viene continuamente rifiutato; di qui la successione di dittature effimere e di governi fantoccio instaurati in seguito a macchinazioni, mai in seguito ad elezioni, per cui il popolo viene tenuto prima sotto un dominio e poi sotto un altro. È questo il processo che il mio libro vuol far capire alle masse popolari.

Esiste nell’America del Sud una classe sociale, una borghesia, che collabora sistematicamente con gli Stati Uniti?

Disgraziatamente sì! Nel nostro paese è assai netta sia la divisione tra il popolo e un’oligarchia fondata sulla ricchezza e sulla nascita, sia quella che separa il popolo e la nuova borghesia “d’affari” che si sviluppa rapidamente. In ogni industriale che si arricchisce, sonnecchia un oligarca potenziale. Questa oligarchia domina il paese, ma non bisogna sottovalutare l’ampiezza della lotta di un’immensa massa popolare che esige la propria libertà. È questo il movimento che noi abbiamo avviato, in una certa misura, nei dieci anni di governo giustizialista. Il giustizialismo è una forma di socialismo, un socialismo nazionale, che corrisponde alle necessità e alle condizioni di vita dell’Argentina. È naturale che questo socialismo abbia trascinato la massa e che in nome di esso siano esplose le rivendicazioni sociali. Esso ha creato un sistema sociale del tutto nuovo, del tutto diverso dal vecchio liberalismo democratico che dominava il paese e si era messo senza vergogna al servizio dell’imperialismo yankee.

In Europa, gli Americani hanno corrotto tutte le tendenze politiche: dall’estrema destra all’estrema sinistra. Vi sono collaborazionisti, venduti agli Stati Uniti, sia tra i socialisti sia tra i cattolici sia tra i liberali. Gli Americani riescono a comprare tutti i partiti. Si verifica il medesimo fenomeno anche in America Latina?

Esattamente. Gli Americani usano la stessa tecnica in ogni parte del mondo. Prima di tutto, cominciano con la penetrazione economica, per il tramite dell’oligarchia di cui parlavo poc’anzi, la quale vi trova un interesse sostanziale… Poi è la volta delle pressioni politiche, più o meno dirette, in tutti i settori politici. Così, se non possono comprare e controllare le forze politiche nazionali, gli Americani tentano di farle esplodere e di dividerle. La CIA è maestra nell’organizzare le provocazioni. Raggiunti questi obiettivi, si rivolgono verso gli ambienti militari, nei quali penetrano in diversi modi, il più efficace dei quali è l’uso generoso della mazzetta. È così che hanno agito in Viet Nam; alcuni loro “consiglieri militari” si occupavano principalmente di assoldare dei generali la cui integrità morale non era certamente a tutta prova e che non hanno rifiutato l’offerta di considerevoli vantaggi economici (assegnazioni massicce di azioni di società straniere, per esempio, oppure nomine alla direzione generale di società). Guadagnati questi uomini alla causa dell’imperialismo americano, resta solo da organizzare il colpo di Stato militare che instaurerà una dittatura: è il caso dell’Argentina, ma è stato così anche in Brasile e in Ecuador e da qualche tempo è così in Perù e a Panama. Il metodo è sempre il medesimo. In una prima fase, una volta che la situazione è nelle loro mani, gli Americani cominciano ad accaparrarsi tutte le ricchezze economiche del paese, imbavagliando sistematicamente tutte le forze politiche e sociali dell’opposizione. Questo è il meccanismo in Sudamerica, in Asia, in Europa e altrove.

C’è di più. In Europa, gli Americani sono riusciti a controllare dei movimenti il cui scopo ufficiale è l’unificazione europea! A Bruxelles, i movimenti europeisti paralleli al Mercato Comune sono stati oggetto di un’infiltrazione tale, che adesso proclamano che “bisogna fare l’Europa con gli Americani”. Questa è evidentemente un’idiozia, perché l’unificazione europea, come abbiamo più volte spiegato su “La Nation Européenne”, comporta la partenza degli Americani. Ma questi ultimi sono talmente abili, che sono riusciti addirittura a prendere in mano la tendenza europeista per meglio soffocarla, per farla fallire meglio! Ma torniamo all’America Latina. Alcuni governi non cercano di resistere alla penetrazione americana?

Praticamente no, perché ci troviamo in una fase di dominio quasi totale. Certo, ci sono alcuni governi che non sono contaminati dalla cancrena americana. Ma nel generale contesto di sottomissione, dato il carattere derisorio ed aleatorio, in quanto isolato, delle misure da loro adottate per fronteggiare questo imperialismo, essi non riescono a mettere insieme una vera opposizione. D’altra parte, tutti i movimenti rivoluzionari antimperialisti sono perseguitati in Sudamerica e in particolare in Argentina. E ciò vale per tutto il mondo, perché in genere tutti paesi sono più o meno dominati, direttamente o indirettamente, dall’influenza imperialista, si tratti dell’imperialismo americano o di quello sovietico. Entrambi, in fin dei conti, sono d’accordo per una spartizione del mondo “in via amichevole”.

Secondo Lei, perché i Russi hanno (apparentemente) abbandonato ogni attività rivoluzionaria in America Latina? Non è che i Russi abbiano stipulato un accordo tacito con gli Americani, promettendo loro di non fare niente in America Latina in cambio dell’impegno americano a non intervenire in un’altra parte del mondo?

Certamente! È lo stesso fenomeno al quale si assiste in Europa. A Jalta i due “supergrandi” hanno diviso il mondo in due zone d’influenza: una ad est della Cortina di Ferro, l’altra ad ovest. È così che l’occupazione della Cecoslovacchia, come quella dell’Ungheria nel 1956, è avvenuta con l’assenso degli Americani. Reciprocamente, lo sfruttamento economico e il controllo politico dell’Europa occidentale da parte degli Americani sono possibili solo con il consenso dei Russi. Jalta ha diviso il mondo in due riserve di caccia ad uso delle due potenze imperialiste; Russi e Americani sono legati dai trattati firmati a Potsdam. Questa divisione venne stabilita per evitare ulteriori motivi di conflitto tra i due imperialismi. A Jalta e a Potsdam, Stalin impose la sua volontà a due uomini di Stato quasi moribondi, Roosevelt e Churchill. Da allora, la conferenza di Jalta e i trattati di Potsdam hanno forza di legge permanente e sono entrati a far parte del diritto pubblico internazionale. L’occupazione della Cecoslovacchia è la conseguenza diretta di Jalt e di Potsdam. Nessuno che sia in buona fede lo può negare.

Chi può opporsi a questo stato di cose? Il Terzo Mondo. Ma il Terzo Mondo è diviso, è ancora soltanto un concetto astratto e una speranza per tutti coloro che aspirano alla libertà. La questione della liberazione dei nostri paesi si risolverà solo a lungo termine. È questione non di una, ma di più generazioni. Il nostro compito consiste nel preparare queste nuove generazioni, che dovranno lottare per la liberazione con tutte le loro forze. In Argentina, il movimento giustizialista, il movimento peronista, comprende il 90% della gioventù. Ciò è fondamentale, perché la gioventù rappresenta l’avvenire e la nostra azione è orientata verso il futuro. Noi vecchi abbiamo fatto il nostro dovere.

Adesso passiamo la bandiera ai giovani.

Lei ritiene che la liberazione della sola Argentina o del solo Cile siano destinate all’insuccesso. Secondo Lei, i diversi movimenti di liberazione devono agire simultaneamente, e su scala continentale. Lei è dunque un fautore risoluto dell’integrazione?

Sì, perché credo a un certo determinismo storico. Il mondo è sempre stato sotto la sferza di un imperialismo. Oggi abbiamo la disgrazia di dover lottare contro due imperialismi complici. Ma la potenza degli imperialismi segue una curva parabolica: una volta raggiunto il punto più alto dell’asse delle ordinate, il culmine della curva, la decadenza comincia. Secondo me gl’imperialismi sono già entrati nella fase della decadenza. Abbiamo visto che non possono essere rovesciati o distrutti dall’esterno, a meno che non avvenga l’integrazione di tutti i mezzi di lotta e di tutte le forze coinvolte. Ma questa union sacrée è lunga e difficile da realizzare e ciò consente agl’imperialismi di vivere giorni felici. Tuttavia c’è un pericolo che li minaccia: essi marciscono dall’interno e questa corruzione è già alquanto avanzata, nel Nordamerica così come in Russia. Bisogna servirsi di ciò per far precipitare il processo di degrado. Per giungere allo scopo, una lotta isolata sarebbe vana, per quanto eroica possa essere.

Io penso che noi stiamo arrivando a una fase della storia dell’umanità che sarà contrassegnata dal declino delle grandi potenze dominatrici. Siamo giunti al termine di un’evoluzione umana che, dall’uomo delle caverne fino ai giorni nostri, è avvenuta mediante l’integrazione. Dall’individuo alla famiglia, alla tribù, alla città, allo Stato feudale, alle nazioni attuali, si arriva all’integrazione continentale. Attualmente, al di fuori di alcuni colossi (USA, Russia, Cina), un paese da solo non rappresenta una grande forza; nel mondo di domani, in cui l’Europa si integrerà, così come si integreranno l’America e l’Asia, le nazioni isolate di piccole dimensioni non saranno più in grado di sopravvivere. Oggi, per vivere coi mezzi della potenza, bisogna aggregarsi ad un blocco già esistente, oppure bisogna crearlo. L’Europa si unirà o soccomberà. L’anno 2000 vedrà un’Europa unita o dominata. Ciò vale anche per l’America Latina.

Un’Europa unita avrebbe una popolazione di 500 milioni di abitanti. Il continente sudamericano ne conta già più di 250. Blocchi come questi sarebbero rispettati e contrasterebbero efficacemente l’asservimento agli imperialismi, che è la sorte dei paesi deboli e divisi.

Lei pensa che l’opera di agitazione intrapresa da Fidel Castro sia utile alla causa latinoamericana?

Assolutamente sì. Castro è un promotore della liberazione, Egli si è dovuto appoggiare a un imperialismo perché la vicinanza dell’altro minacciava di schiacciarlo. Ma l’obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell’America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, fino ad incarnarla. È l’uomo di un ideale. Molti grandi uomini sono passati inosservati perché non avevano una causa nobile da servire. In compenso uomini semplici e normali, che non erano predestinati a un tale ruolo e non erano dei superuomini ma semplicemente degli uomini, sono diventati dei grandi eroi perché hanno potuto servire una causa nobile.

Ha l’impressione che i Sovietici impediscano a Castro di svolgere una funzione importante in America Latina? E che trattengano Castro per impedirgli di oltrepassare un certo livello di agitazione?

Perfetto. Questo ruolo, d’altronde, i Russi non lo svolgono solo a Cuba, ma anche in altri paesi. Guevara, dopo aver compiuto la sua missione a Cuba, era andato in Africa per entrare in contatto col movimento comunista africano. Ma i responsabili di questo movimento avevano ricevuto l’ordine di respingere Guevara. Guevara dovette abbandonare l’Africa, perché lì erano all’opera i Russi: in Congo, un conflitto contrapponeva i due imperialismi concorrenti. Le due opposte tendenze da loro rappresentate possono, in certi momenti, unire le loro forze per difendere la stessa causa: quella dell’ordine vigente. È logico, perché difendono l’imperialismo, non la libertà dei popoli!

Che cosa ne penserebbe di instaurare una rete mondiale di informazioni e di relazioni tra tutte le tendenze che lottano contro gl’imperialismi russo e americano e di mettere in comune un certo numero di sforzi politici?

Bisogna considerare che l’unificazione deve essere l’obiettivo principale di tutti coloro che combattono per una stessa causa. Dico unificazione, e non unione o associazione. La cosa necessaria è integrarsi. Noi avremo presto l’occasione di agire, e per un’azione efficace bisogna essere integrati e non semplicemente associati.

Lei dunque ritiene che si debba andare molto lontano, molto più lontano della semplice connessione, nell’alleanza tattica coi nemici dell’imperialismo americano. Con Castro, con gli Arabi, con Mao Tsetung se è necessario? Lei pensa che il nemico sia tanto potente, tanto invadente, che bisognerà mettersi tutti insieme per venirne a capo, avendo la cura di lasciare in ombra le differenze ideologiche?

Io non sono comunista. Sono giustizialista. Ma non ho il diritto di volere che anche la Cina sia giustizialista. Se i Cinesi vogliono essere comunisti, perché dovremmo volere “renderli felici” ad ogni costo, contro la loro volontà? Essi sono liberi di scegliere il regime che preferiscono, anche se diverso dal nostro. Ciascuno è sovrano per quanto concerne le sue faccende interne. Ma se i Cinesi lottano contro il medesimo dominio imperialista contro il quale lottiamo noi, allora sono nostri compagni di lotta. Mao stesso ha detto: “La prima cosa da distinguere è la vera identità degli amici e dei nemici. Dopo, si può agire”. Io sono un fautore delle alleanze tattiche, secondo la formula “i nemici dei nostri nemici sono nostri amici”.

Secondo Lei, il Mediterraneo orientale potrebbe diventare, nei mesi a venire, teatro di un importante conflitto?

Ritengo che la situazione dell’Europa non sia mai stata così pericolosa come adesso. Tutto quello che l’Europa ha fatto per evitare di essere nuovamente un campo di battaglia in un prossimo conflitto rischia di essere vano. Con le basi sovietiche in Africa, la flotta russa nel Mediterraneo, le 125 divisioni del Patto di Varsavia di fronte a una NATO indebolita che non sarebbe in grado di sostituire un moderno esercito europeo, l’Europa potrebbe essere invasa in poche settimane, se i Russi lo decidessero. È certo che la polveriera del Vicino Oriente potrebbe originare un conflitto che sarebbe quasi impossibile limitare, un conflitto di cui l’Europa potrebbe essere una delle prime vittime, nel suo attuale stato di divisione.

In questa ottica, Le sembra che la Palestina possa diventare un secondo Viet Nam, con una guerra inizialmente localizzata?

Sì, perché il Vicino Oriente ha un’importanza strategica grandissima. È il ponte fra due continenti che si risvegliano: l’Asia e l’Africa. È per questo che, dietro la lotta fra Israele e i paesi arabi, gli Americani e i Russi combattono una lotta accanita che ha come scopo il possesso di questo punto strategico.

La ringrazio. Ho terminato con le mie domande. Desidera fare una dichiarazone su qualche argomento particolare?

Leggo regolarmente “La Nation Européenne” e ne condivido interamente le idee. Non solo per quanto concerne l’Europa, ma il mondo. Un solo rimprovero: al titolo “La Nation Européenne” avrei preferito quello di “Monde Nouveau”. L’Europa da sola, in futuro, non avrà tutte le risorse sufficienti per soddisfare le proprie esigenze. Oggi, interessi particolari si difendono spesso in luoghi molto lontani. L’Europa deve pensare a ciò. Essa deve integrarsi, certo, ma integrandosi deve mantenere degli stretti contatti con gli altri paesi in via d’integrazione. L’America Latina in particolare, che è un elemento essenziale che si deve alleare all’Europa. Noi Latinoamericani siamo Europei, e non di tendenza americana. Personalmente, io mi sento più francese, più spagnolo o più tedesco che americano. Il vecchio ebreo Disraeli aveva ragione quando diceva: “I popoli non hanno né amici né nemici permanenti; hanno interessi permanenti”. Bisogna associare questi interessi, anche se sono geograficamente lontani, affinché l’Europa continui ad essere la prima potenza civilizzatrice del mondo.

* La presente intervista, che il Generale Peròn rilasciò a Jean Thiriart il 7 novembre 1968 a Madrid, apparve originariamente su “La Nation Européenne” (Paris-Bruxelles), n. 30, febbraio 1969, pp. 20-22, accompagnata da un servizio fotografico e da un profilo biografico di Peròn. Una traduzione italiana, non integrale, fu pubblicata su “La nazione europea” (Milano-Parma), luglio 1969, pp. 1-4. I concetti che emergono nelle domande e nelle risposte di questa intervista si trovavano già anticipati sul  n. 22 de “La Nation Européenne” (novembre 1967), dedicato in gran parte alla rivoluzione cubana e all’America Latina. “Da quando Fidel Castro prese il potere, il 1 febbraio 1959, – si legge in una nota redazionale – Cuba è la punta di lancia della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo americano in America Latina e costituisce perciò una minaccia permanente per gli USA, una minaccia tanto più fastidiosa in quanto sono falliti nel modo più ridicolo i tentativi della CIA di rovesciare il castrismo”. Sullo stesso numero, in un articolo che riproponeva fin dal titolo (Plusieurs Viet-Nams) una nota parola d’ordine guevariana, Jean Thiriart aveva scritto: “Se Cuba e l’Algeria rappresentano dei polmoni rivoluzionari per noi nazionalisti europei, è altrettanto evidente che L’Avana ed Algeri un polmone economico possono sperare di trovarlo soltanto in Europa. Non solo l’Unione Sovietica non ha la potenza economica e manca di respiro sufficiente in questo settore, ma essa non si sogna nemmeno di compromettere, in nome dei “princìpi” della rivoluzione, i profitti realizzati a Jalta. A Cuba cominciano ad accorgersene, finalmente! (…) Bisogna che ad Algeri e a Cuba si rendano conto che anche un paese ricco come è l’Europa può essere sfruttato dagli Americani. Algeri e Cuba devono cogliere le contraddizioni interne tra il capitalismo americano e il capitalismo europeo (o una parte consapevole di quest’ultimo) e trarne le conclusioni politiche”. Mentre Thiriart poneva così in risalto l’importanza fondamentale dell’apertura di un fronte europeo che andasse ad aggiungersi alle lotte di liberazione del Terzo Mondo, l’ultima risposta dell’intervista di Peròn prospettava la futura inevitabilità di un’integrazione dell’Europa stessa in una dimensione territoriale più ampia. Qualche anno più tardi, Thiriart svilupperà e definirà questa intuizione disegnando lo scenario geopolitico di un Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin.

C.M.

La Patria bolivariana: una questione di autodeterminazione nazionale

$
0
0

L’analisi – anche se solo abbozzata – dei profili che Bolívar e Rodríguez (1) tracciano per il consolidamento dell’idea di patria, con un’esplicita prospettiva rivoluzionaria, consente di capire come le ragioni che giustificavano la subordinazione al dominio spagnolo e la totale dipendenza dalla Madre Patria erano destinate a soccombere di fronte alla necessità di porre in pratica un concetto politico ancora non ben definito per l’epoca, ossia, quello dell’autodeterminazione nazionale.

L’autodeterminazione è il principio del rispetto della sovranità, del valore della capacità autonomistica dei popoli; ma, affinché possa rendersi applicabile, senza impedimenti da parte del governo né dalla legge, prima si deve concretizzare l’indipendenza mediante la messa in pratica del diritto di secessione.

Tuttavia, non è facile che la mentalità coloniale riconosca questo diritto, poiché significa la perdita dei privilegi incondizionati nella periferia soggiogata, la quale assume, mediante la secessione, non solo la sovranità politica, bensì anche quella economica, sociale e culturale, liberandosi in questa forma dalla zavorra impositiva dei valori della cultura imperiale dominante.

Dunque, come si può dedurre da ciò che è stato appena esposto ne Lo sguardo del patriarca (2), l’emancipazione bolivariana non vuole altro che la libertà naturale dei popoli americani, al fine di avviare un processo d’integrazione continentale che si fondi sulla conoscenza e il rispetto della diversità culturale e – come si è scritto nei paragrafi precedenti – nella conseguente concessione degli strumenti necessari affinché le nazioni, le enclavi culturali e religiose, le loro collettività linguistiche, culturali, religiose ecc. possano disporre di una propria sfera di potere che consenta loro di rendere più efficace ed autentica, e soprattutto più giusta, l’integrazione di questi gruppi nel progetto di una comunità unica.

L’idea dell’autodeterminazione dei popoli ha contorni molto imprecisi

Su quanto è stato detto in precedenza e alla luce della realtà internazionale contemporanea, scaturiscono due domande ovvie: 1) La politica di autodeterminazione nazionale non comporta una minaccia per una probabile integrazione internazionale? 2) Questo progetto di comunità unica non implica una probabile abolizione delle autonomie nazionali?.

La risposta è semplice: l’erronea e abusiva identificazione dell’autodeterminazione con il separatismo e la secessione ha fatto sì che questo diritto venisse percepito come una minaccia per la pace e la stabilità internazionali. Tuttavia l’autodeterminazione, la secessione e il separatismo non sono da considerare processi o realtà identiche. Possiamo osservare che determinati argomenti, siano giuridici o politici, adottati, ad esempio, contro la secessione, non possono né devono essere applicati contro l’autodeterminazione in forma generale, visto che la messa in pratica del diritto di autodeterminazione non include necessariamente la creazione di uno Stato mediante l’esercizio del diritto di secessione. Esistono molte altre formule, quali l’autonomia, il federalismo, il condominio, il protettorato, ecc. Per Bolívar e i suoi seguaci la formula giusta è stata quella del processo emancipatore, che avrebbe dato luogo all’integrazione congiunta delle diverse autonomie americane. Oggi, questa nozione del pensiero bolivariano persiste, focalizzando l’obiettivo nella formula dell’autodeterminazione nazionale, nel rafforzamento della capacità di autonomia e nel riscatto del senso di sovranità dei popoli.

Già la sola nozione di questa formula delinea i contorni imprecisi che sono stati tratteggiati – per via degli interessi coloniali – nel processo di autodeterminazione nazionale. E per contribuire ad offrire un profilo migliore, conviene trascrivere di seguito i concetti d’autodeterminazione nazionale, secessione e separatismo.

  1. Autodeterminazione nazionale: nuova forma d’organizzazione politica dove si possono conciliare l’autonomia di certe collettività umane e l’interesse generale dello Stato che le rappresenta, allo scopo di unire le decisioni politiche sul regime statutario della Nazione.
  1. Secessione: atto di diritto di una comunità o di uno Stato facenti parte della Nazione, per mezzo del quale viene posto un termine ai rapporti di dipendenza politica, sociale, economica e culturale.
  1. Separatismo: dottrina politica che sostiene la separazione di qualche territorio della Nazione, affinché questo raggiunga la sua indipendenza o si annetta ad un altro paese.

Autodeterminazione e salute sociale nel contesto venezuelano

Considerando il tema dell’autodeterminazione nello specifico contesto venezuelano, dobbiamo affermare che una delle caratteristiche principali della nostra società è quella che vede l’insieme della popolazione essere più propensa a costruirsi un futuro, anziché restare in attesa di riceverlo, e ciò lo ha dimostrato mediante il valore e l’impegno con il quale ha partecipato nella lotta emancipatrice, fino alla più recente dimostrazione di coraggio con l’approvazione, tramite voto popolare, dell’attuale Costituzione Nazionale.

Questa esperienza partecipativa, di corresponsabilità nella determinazione del futuro nazionale – si potrebbe dire -, ha dimostrato che il percorso della crescita sociale del Venezuela è cominciato, e in una forma che, finalmente, prende in considerazione elementi più saldi per la configurazione dello spirito patriottico e nazionale democratico, che non quello  di uno sviluppo economico ampiamente diffuso. Vale a dire, il “tanto hai, tanto vali”, così profondamente radicato nella nostra “società petrolifera”, in questo momento viene sostituito con il “tanto vali quanto più e quanto meglio partecipi alle decisioni sociopolitiche del paese”.

E questa “migliore partecipazione”, che equivale ad una adeguata partecipazione alla responsabilità, funzione e natura di chi lo fa, è un sintomo sicuro della salute sociale di qualunque popolo. Una salute che, pensatelo bene, irrobustisce la possibilità dell’autodeterminazione dell’avvenire, eliminando anche l’attuale imprecisione dei suoi contorni.

Una faccenda di buona intenzione

Su questo sentiero marciano tutti i cittadini di buona volontà che formano la società venezuelana, di ciò non resta il minimo dubbio. Senza i distinguo di classe, di razza, di professione o di livello economico – questo modo di misurare la realtà, in questo momento, si rivela francamente obsoleto, se non addirittura irritante -, i venezuelani che comprendono e sentono il paese in una soggettività ben intenzionata, e non da un’oggettività compromessa coi gruppi del potere egemonico, si apprestano a costruire il loro futuro guardando da tutte le parti; vale a dire, osservando con rispetto e dignità la situazione sociale dei loro concittadini e le ristrettezze reali che mandano in rovina la patria, per reagire a queste con proprietà e prontezza.

Ecco perché ciascuna delle istituzioni che costituiscono la struttura e il bastione della patria – la Forza Armata Nazionale, tra queste – devono mantenere saldo uno sguardo vigile sul paese e sulla realizzazione di uno sforzo sempre maggiore, in modo da evitare che i fattori determinati “dall’obiettività compromessa” sommergano l’ambito nazionale con consegne di discordia e di carattere antipatriottico. Lo spazio della dottrina dell’autodeterminazione nazionale, consacrata nella Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela come un diritto inalienabile, è quello della comprensione, della vocazione, dell’obbedienza e del rispetto verso il popolo e la patria; è quello del contributo e della costruzione di un futuro collettivo, libero da vergogne, reclami, tradimenti e lamentele. Non vogliamo aspettare, né chiediamo che il popolo lo faccia, che ci servano “su un vassoio d’argento” il futuro che meritiamo. No. Il futuro lo dobbiamo costruire insieme, in armonia e con assoluto attaccamento ai doveri democratici, morali ed etici impostici dal nostro impegno di cittadini verso la patria sognata da Bolívar e da Simón Rodríguez.

(Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Paglione)

* Nelson González Leal è giornalista e scrittore venezuelano, opinionista del settimanale politico “El Clarín” (Cumaná, Regione Sucre), nonché vicedirettore di Letteratura del Consiglio Nazionale della Cultura del Venezuela e Coordinatore Generale della Fondazione di Studi Politici “Luis Hómez”. Il testo che presentiamo è un estratto (pp. 33-40) dal suo libro Pensar la Patria, Consejo Nacional de la Cultura, Biblioteca básica temática, Caracas, Venezuela, 2004.

1. Simón Rodríguez (1771 – 1854), pedagogo e scrittore venezuelano, fu maestro di Bolívar. (N.d.T.)

2. La mirada del patriarca in Nelson González Leal, Pensar la Patria, cit., pp. 25-31.

Karl Haushofer, Il Giappone costruisce il suo impero

$
0
0

Karl Haushofer
Il Giappone costruisce il suo impero
postfazione di Carlo Terracciano
Metropoli e campagne
pp. 445, 25,00

Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998

Karl Haushofer, il maestro della geopolitica, troverà la propria “scuola geopolitica” proprio in Giappone, dove giunse nel 1908 (…) Japan baut sein Reich uscì anch’esso nel 1941, a Berlino. Indipendentemente dalle circostanze storiche della sua pubblicazione, Il Giappone… rimane “un testo fondamentale sia per lo studio della storia passata e recente di questo paese per molti aspetti unico, risorto nel secondo dopoguerra come potenza economica, sia per la disciplina geopolitica, per la sua analisi comparata tra storia e geografia dell’impero nipponico”, sicché “non c’è dubbio che il presente testo raggiunga lo scopo, incentrando la sua disamina storica sui pilastri fondanti dell’analisi geopolitica dello stato quale espressione organica ed organizzata dei popoli: spazio, posizione, struttura, movimento”. Così scrive, nel lungo saggio su Karl Haushofer e la geopolitica dell’Impero Nipponico pubblicato in appendice a questa nuova edizione, uno studioso di geopolitica, Carlo Terracciano, il quale inoltre nota come Haushofer, tracciando la storia plurimillenaria del Giappone, dalle origini fino alla guerra mondiale, intervenga puntualmente con considerazioni d’ordine geografico, “allargando progressivamente lo sguardo dall’arcipelago all’intero pianeta, via via che il moderno Giappone vi assume un ruolo sempre più rilevante; in particolare tutta l’area del Pacifico, che lo pone in competizione diretta con le potenze marittime anglosassoni“.

Insomma, ci troviamo dinanzi ad un’opera di grande rilievo, sia per il metodo, sia per l’argomento trattato.

Richiedere a:

EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO
Viale Osacca 13
43100 Parma
www.insegnadelveltro.it

indirizzo di posta elettronica:
insegnadelveltro1@tin.it

L’ideologia della crisi

$
0
0

In questi ultimi anni, smaltita una lunga sbornia ideologica keynesiana – sostituita purtroppo da quella neoliberista che è forse peggiore – un certo numero di autori ha cominciato a mettere in dub-bio l’interpretazione tradizionale della crisi del 1929, e della sua risoluzione dopo l’elezione a pre-sidente degli Usa di Roosevelt (l’entrata in carica avvenne il 4 marzo 1933) e la politica da questi attuata (il New Deal) tra il ’33 e il ’37. In realtà, gli Usa uscirono nel 1933 dalla fase più acuta della crisi, ma continuarono in una sostanziale stagnazione, con brevi rialzi e nuove depressioni, fino alla seconda guerra mondiale. Il New Deal fu caratterizzato da una serie di misure, basate su massicci aumenti della spesa pubblica (in specie, ma non solo, in infrastrutture), considerate keynesiane ante litteram, dato che l’opera fondamentale del grande economista inglese, Teoria generale dell’occu-pazione, dell’interesse e della moneta, uscì nel 1936.

Da un bel po’ di tempo sostengo che a far uscire dalla crisi fu lo scontro militare mondiale; noto che altri sono giunti alla medesima conclusione, e ne sono lieto. Tuttavia, anche nella nuova tesi permane la solita ideologia dominante per cui il problema decisivo, nella crisi, è la carenza di do-manda (sia di beni di consumo che di investimento). Un fenomeno che Keynes spiegò poi in modo teoricamente molto raffinato, cui non si può qui nemmeno accennare; basti solo dire che tale caren-za riguardava essenzialmente la domanda dei privati, cui si doveva supplire con quella “pubblica”, meglio se in deficit di bilancio onde evitare che magari lo Stato desse con una mano e togliesse con l’altra (aumento della pressione fiscale).
La guerra era stata particolarmente “felice” nell’incrementare la domanda dal lato della spesa pubblica per le sue enormi necessità di mezzi atti a condurla; per di più con fabbricazione di grandi quantità di strumenti militari (aerei, navi, carri armati, cannoni e quant’altro) che non “ingorgano” il mercato, essendo “fortunatamente” impiegati nel teatro bellico, in buona parte distrutti e quindi rimpiazzati mediante una nuova produzione (che crea reddito aggiuntivo). Qualcuno si accorse che pure l’altra grande crisi del XX secolo – quella del 1907, sempre con epicentro nella finanza statunitense, segno che quel paese stava assumendo già allora una certa preminenza – fu seguita dalla sostanziale stagnazione dell’economia reale, salvo che nei settori investiti dall’accelerazione del riarmo delle varie potenze in vista della prima guerra mondiale.
Insomma, l’evento bellico, con il suo corteggio non solo di milioni e milioni di morti (nella se-conda soprattutto civili) bensì anche di immani distruzioni materiali, sarebbe però stato il reale toc-casana in merito ai problemi posti dal ciclo economico. Questi ragionamenti – comunque più reali-stici di quelli che affidano la soluzione della crisi a misure kenesiane la cui applicazione, nel secon-do dopoguerra, non ebbe poi strepitosi successi, preparando così la “riabilitazione” del neoliberismo – sono affetti dalla solita ideologia economicistica che nasconde, non per subdolo e consapevole inganno perpetrato dagli economisti “ufficiali”, il luogo del vero scontro tra dominanti per la su-premazia.
Se la seconda guerra mondiale risolse l’impasse della crisi del ‘29 – mentre la prima sanò “mo-mentaneamente” quella del 1907, con forte sviluppo (non di tutti i paesi capitalistici, quasi solo dei vincitori) negli anni ’20 fino al botto clamoroso della fine di quel decennio – è perché emerse fi-nalmente, nel campo capitalistico, il paese preminente, quello che assunse in esso la posizione cen-trale. La supremazia statunitense, già in affermazione dalla prima guerra mondiale ma non ancora stabile, divenne incontrastata dal 1945 in poi nell’area del capitalismo che oggi definirei “tradizio-nale” perché – tutto sommato e tramite un più tortuoso percorso storico ancora poco conosciuto in quanto sovraccaricato da ideologismi (contrapposti) – anche il cosiddetto “socialismo” sta svilup-pando oggi forme socio-economiche di tipologia capitalistica, in particolare l’impresa e il mercato, sia pure con notevoli diversità.

La crisi economica, per quanto riguardi in modo spesso assai drammatico (mai drammatico quanto la guerra) le popolazioni di questo sistema sociale, è aspetto di superficie, è il vento impetuoso capace di sollevare alti cavalloni in un mare che però, già a poca profondità, risente di altre correnti e movimenti rispetto a quanto avviene nel “mondo della luce e della visibilità”. Quando il sistema “globale” (mondiale o almeno di un intero campo come quello capitalistico del secondo do-poguerra) si organizza in base al predominio di un paese che coordina l’insieme, la crisi – sempre insita nella struttura mercantile del capitalismo, duplicata necessariamente dalla più labile e instabi-le sfera finanziaria poiché merce e moneta sono l’una il correlato dell’altra, e così pure perciò lo scambio di beni e di denaro – appare più controllabile e non assume carattere di sconvolgimento puro e semplice. Per questi motivi, all’interno del campo capitalistico in cui gli Usa erano domina-tori irraggiungibili nella loro potenza, si pensò che la crisi fosse sconfitta, potesse ormai esistere so-lo la recessione, tutto sommato contrastata e superata con prevalenti manovre monetarie, qualche opera pubblica, qualche sostegno salariale, e poco più.

L’ultima crisi – ignorata a lungo dalla sedicente scienza economica ufficiale – ha scosso, solo parzialmente, la sicumera degli “esperti”. La si è affrontata inondando tutti i canali possibili con fiumi di denaro, in specie per salvataggi di banche e, in subordine, di imprese in altri settori, anche dell’economia detta reale. Difficile essere sicuri che si stia dicendo la verità in merito al fatto che vi è ormai poco da temere. Ammettiamo per un momento che sia così (tanto la questione si chiarirà entro la fine dell’anno, massimo nei primi mesi del prossimo). Ancora una volta, ci si è buttati a corpo morto sull’ideologia secondo cui la crisi è stata vinta con pure misure economiche, anzi quasi solo monetarie e finanziarie; Bernanke è sugli scudi, è lui che ci ha fornito la ciambella di salvatag-gio. Non è proprio così: questa crisi, ammesso che finisca, è solo il primo presentarsi delle gravi dif-ficoltà che nasceranno dal fallimento del disegno pienamente imperiale perseguito dagli Usa, illusi dal crollo del socialismo reale e soprattutto dell’Urss.
Il cambiamento di tattica americano, la “politica del serpente” seguita dalla nuova Amministrazione Obama, è il risultato di quel fallimento. Tuttavia, gli Usa cercano di stoppare lo sgretolamen-to, di metterci una toppa, facilitati anche dai loro particolari rapporti finanziari con la Cina, rapporti che in qualche modo hanno attenuato l’efficacia della politica di potenziale competitore svolta da quest’ultima. Ci saranno molte giravolte nella “guerra di movimento” che si è aperta con la fine del mondo bipolare. Potrà sembrare che ora l’una, ora l’altra, delle aspiranti potenze si trovi in difficol-tà per la politica pur sempre aggressiva degli Stati Uniti, anche se in forme diverse dalle precedenti (dal 1991 al 2008).

Tali potenze – ad esempio, Russia e Cina – avranno fra loro per chissà quanto tempo un contenzioso da regolare (è la sorte di tutti i paesi che hanno acquisito notevole forza). Tut-tavia, alcune di esse sapranno riconoscere le loro esigenze (tattiche) di comporre momentaneamente (cioè per una fase storica) i loro dissidi, rinviandoli a periodi più opportuni, al fine di opporsi al ten-tativo, che sempre si riproporrà, del vecchio paese imperiale smanioso di imporre nuovamente il suo predominio centrale.

Non credo si tornerà però indietro, il multipolarismo si accentuerà, sia pure con onde sinusoidali e persino con qualche “ricciolo” (implicante l’apparente inversione di tendenza). Mancherà quindi il presupposto fondamentale del “coordinamento”, cioè la subordinazione di un sistema complessivo di paesi ad uno di essi divenuto predominante; dove la preminenza consiste nella possibilità di quest’ultimo di imporre i suoi giochi di strategia grazie alla maggiore potenza.

Non un centro, ma più centri saranno in formazione. Si verificheranno periodicamente “uragani” con “ondate” assai alte (le crisi economiche), su cui tutti i vari gruppi dominanti (economici, politici, ecc.) si getteran-no in un’orgia di finzioni cooperative, collaborative (si esce insieme dalla crisi!), mentre i loro nu-clei strategici (quelli nascosti ma realmente efficaci nelle misure che prendono) continueranno a la-vorare “per il re e per la patria”. Le popolazioni soffriranno, saranno mazzolate, e tuttavia convinte dai gruppi sociali di vertice che si sta lavorando per risollevare le sorti di “tutti insieme appassiona-tamente”.
Come sempre in casi del genere, attorno alle potenze in crescita, costituenti i diversi poli, si rag-grupperanno altri paesi di varia forza secondo una gerarchia di gradazioni, che tuttavia non saranno sempre disposti a subire la dominanza dei rispettivi poli; molte insofferenze e insubordinazioni si verificheranno e, indubbiamente, le gerarchie subiranno scossoni prima di arrivare a quell’assestamento che prelude ad uno scontro più ruvido per risolvere il problema storico cruciale: chi ha la forza e l’abilità necessarie a divenire un altro centro supremo? Nel frattempo, nelle aree attorno ai diversi poli, ognuno di questi ultimi cercherà di installare forze politiche (e culturali, ma in subordine) atte a garantirgli la preminenza; forze che potremmo definire subdominanti, poiché asservite al polo di quella data area, ma in grado di tenere sotto controllo e in subalternità gli strati della popolazione nel loro paese, strati che devono nella sostanza obbedire, possibilmente credendo di esprimere “democraticamente” le proprie preferenze per quei subdominanti.

I nuclei decisivi dei vari poli – quelli effettivi, quelli dell’efficacia delle strategie, tra loro in conflitto – sono come già detto nascosti. Sul davanti della scena si muovono i gruppi economici (produttivi e finanziari), invitati alla cooperazione da quelli politico-ideologici. Tale sedicente coo-perazione altro non è se non il “coordinamento” tra i settori della passata fase dell’industrializzazione (tipo auto e metalmeccanico) nei paesi dei subdominanti e i settori dell’ultima ondata innovativa (settori di punta) nel polo dominante (finora soprattutto quello statunitense); un coordinamento che è in realtà dipendenza. I gruppi politico-ideologici dei subdominanti (ad esempio, europei e italiani) devono essere proni ai voleri di quelli del polo dominante.
Ecco perché gli Usa mugugnano contro alcuni aspetti della politica estera del governo italiano (di una parte di questo) che fornisce “eccessivo” aiuto a nostre imprese di punta (metti Eni o Fin-meccanica, ecc.); e certi gruppi politici italiani (la maggior parte di essi, sinistra in testa) si fanno portavoce di questi mugugni. Non importa con quali mezzi diversivi (tipo gossip) riescono a turlu-pinare la popolazione; l’importante è “coordinare” l’economia dei subdominanti con quella domi-nante, cioè rendere la prima subalterna alla seconda. Ed ecco perché allora spunta l’aiuto americano alla Fiat quale testa di ponte per danneggiare i progetti delle nostre industrie di punta e confinare l’Italia, così come gli altri paesi del “proprio polo”, nei settori “arretrati” (nel senso di ormai maturi, di altra fase storica dello sviluppo capitalistico).

Il discorso non finisce qui, perché questa azione economica è ancora una volta l’apparenza visi-bile, che nasconde le finalità reali, poste dalla strategia geopolitica dei diversi poli: quello ancora preminente (Usa) e quelli che si stanno rafforzando. Tanto per fare un esempio, il South e Nor-thstream (frutto dell’attività di Eni e Gazprom) contro l’“americano” Nabucco, oppure la Fiat (con Chrysler e coinvolgimento di Gm-Opel) ridotta a strumento della strategia americana, sono movi-menti nella sfera economica senz’altro importanti; tuttavia, si tratta di azioni in svolgimento sul palcoscenico con occultamento di quanto sta avvenendo dietro le quinte (geopolitiche appunto). Fi-nisco qui, ma il lettore tenga a mente queste succinte premesse, che serviranno a capire le conclu-sioni di altri scritti.

Fonte: “Ripensare Marx”

Le “basi” in Colombia sono strategiche per gli USA

$
0
0

Intervista al professor Luiz Alberto Moniz BandeiraLo storico e geopolitico brasiliano, Luiz Moniz Bandeira – in un’intervista rilasciata all’argentina LA ONDA digital sulle recenti dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, il quale ha negato che il suo governo voglia insediare basi militari in Colombia – dichiara che, in realtà, “quell’affermazione è ingannevole” perché “le basi rimangono nominalmente sotto il controllo delle Forze Armate colombiane, ma i militari americani le amministrano di fatto e possono usarle come e quando lo desiderano”.

Si può pensare che il nuovo spiegamento delle basi statunitensi in Colombia, il golpe in Honduras e altri fatti accaduti in queste ultime settimane, costituiscano una risposta militare integrale, economica e politica degli Stati Uniti verso il Sudamerica di fronte al sorgere di governi progressisti?

Non credo che lo spiegamento delle basi militari degli Stati Uniti in Colombia sia una conseguenza dell’emergere di governi progressisti. Questi non minacciano la sicurezza degli Stati Uniti. Il Venezuela continua a somministrare circa il 15% del petrolio giornaliero consumato negli Stati Uniti. Questo è quello che importa.
L’obiettivo dello spiegamento delle basi in Colombia è strategico e si collega con il ristabilimento della IV Flotta nell’atlantico del Sud. Ciò consente agli Stati Uniti di ampliare la sua presenza nella regione e assicurare il controllo delle risorse naturali, come, ad esempio, l’acqua e il petrolio. L’America meridionale resta, in questo modo, recintata e, di conseguenza, gli americani cercano di circoscrivere la capacità militare dei brasiliani – come ha indicato il professore argentino Juan Manuel Tokatlian -, cercando di proiettare il loro potere nell’Amazzonia.

Si argomenta, da parte di chi vuole promuovere le basi militari in Colombia, che occorre prendere in considerazione il rapporto che il Venezuela intrattiene con la Russia, l’Iran e il rapporto attivo intrattenuto dal governo del presidente Chávez con le FARC. Secondo lei, ciò giustifica l’insediamento di 8 basi da parte degli Stati Uniti in Colombia?

Non è vero. Tutto questo è solo un pretesto affinché gli Stati Uniti demarchino militarmente l’America del Sud come il loro spazio geopolitico, frustrando lo sviluppo dell’Unasur e del Consiglio di Difesa dell’America del Sud e impedendo che il Brasile e gli altri paesi consolidino la propria identità. Queste iniziative non interessano gli americani, non sono vantaggiose, men che meno da quando esiste un progetto per l’integrazione delle industrie belliche del Brasile, l’Argentina e il Venezuela. Ciò colpirà il loro mercato delle armi, settore in cui gli Stati Uniti destinano il 50% delle loro spese alla ricerca e allo sviluppo dell’industria bellica e alla sua catena produttiva, sostentate dalle commissioni del Pentagono, le quali costituiscono una forma di sussidio.

Corrono voci che i nuovi movimenti del governo nordamericano hanno come vero obiettivo il controllo del Pacifico, specialmente gli idrocarburi e il crescente commercio tra Cina e la regione sudamericana, in particolare con il Brasile e il Venezuela. È d’accordo con questo tipo di valutazione?

Può essere. Ci sono molti obiettivi coinvolti. Ma è importante indicare che l’installazione e l’ampliamento delle basi militari in Colombia, il quale avanza verso l’Amazzonia, subentra allo spiegamento della IV Flotta nell’Atlantico del Sud, al margine delle frontiere marittime del Brasile, dove la Petrobras ha scoperto enormi riserve di petrolio in acque profonde, tra gli stati di Espíritu Santo e Santa Catarina.

Se si prende in considerazione il messaggio di Obama nel V Summit delle Americhe di fronte alla maggioranza dei presidenti sudamericani e dell’America centrale su “una nuova era”, il presidente democratico è forse condizionato dall’eredità della guerra preventiva di Bush?

Il presidente Barack Obama non possiede il controllo della macchina governativa e trova molta resistenza, persino all’interno del Dipartimento di Stato. Conserva molti degli uomini che hanno lavorato per il presidente George W. Bush, tra essi, Robert Gates, segretario della Difesa. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Tegucigalpa è un cubano-americano, Higo Llorens, vincolato a Roger Noriega e Otto Reich, i quali sono stati Segretari di Stato e Consulenti nell’amministrazione del presidente George W. Bush. Otto J. Reich è stato colui che ha appoggiato il frustrato golpe militare – imprenditoriale contro il presidente Hugo Chávez nel 2002. E si sa che la Segretaria di Stato, Hillary Clinton, ha come consulente a una figura lugubre, John Negroponte, che lavorò con il governo del presidente Ronald Reagan come ambasciatore a Tegucigalpa (1981-1985), dove diresse la creazione della base di El Acuate, affinché la CIA potesse allenare i Contras del Nicaragua, i quali assassinarono non solo ai presunti simpatizzanti o militanti sandinisti, ma anche i contadini in Honduras. E circolano notizie che, dal Dipartimento di Stato, lui abbia spalleggiato l’ambasciatore Hugo Llorens, affinché orchestrasse con le forze politiche dell’opposizione e dell’esercito onduregno la caduta del governo del presidente Manuel Zelaya.

Lei crede che Obama sia interessato in quest’approccio militare del problema del narcotraffico, oppure ha un’altra alternativa?

Il presidente Barack Obama ha negato il proposito d’insediare basi militari in Colombia. Ma ciò è ingannevole. Le basi rimangono nominalmente sotto il controllo delle Forze Armate colombiane, ma i militari americani le amministrano di fatto e possono usarle come e quando lo desiderano. In questo modo gli USA possono negare che le basi siano le loro. Inoltre, e nonostante la lotta al narcotraffico si presenti come un obiettivo di quelle basi, esiste un accordo cooperativo che stabilisce esplicitamente che il loro uso “non è vietato per altri tipi di organizzazioni” del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti. L’approccio al problema del narcotraffico è solo un pretesto, una giustificazione. Non sembra che sia fondamentale nella strategia degli Stati Uniti. Il suo obiettivo è più ampio, a tal punto che non si restringe alla sola America latina e ai Caraibi, sotto la giurisdizione dell’USSOUTHCOM (Commando Sud), Commando Generale Douglas Fraser. Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la forza militare degli Stati Uniti non ha come missione principale la difesa delle sue frontiere nazionali, bensì l’offensiva, consolidare il suo impero, con una catena di mille basi, persino segrete, estesa nei più svariati paesi, proiettando il suo potere su tutti i continenti nei quali ha insediato dei comandi militari, cinque dei quali con responsabilità geografica. I generali sono, in realtà, proconsoli dell’impero americano. E il presidente Obama non possiede le condizioni per cambiare quella struttura di potere. Sono coinvolti dei potenti interessi economici e politici.

Qualora si concretizzasse l’insediamento di queste basi, si metterebbe a repentaglio la pace continentale e obbligherebbe ai paesi confinanti con la Colombia ad aumentare il loro armamentario?

La Colombia costituisce soltanto il cavallo di Troia degli Stati Uniti. Non penso che per ora la Colombia voglia aggredire nessun paese, tanto meno il Venezuela. La Colombia è isolata e “catturata” dal Venezuela da un vincolo d’interdipendenza. Le sue esportazioni di manufatti e prodotti agricoli hanno il loro principale mercato in Venezuela, da cui dipende tramite la fornitura di gas naturale. Tuttavia, sebbene la minaccia sembri remota, il Brasile è costretto ad armarsi. Da ormai molti anni, la principale ipotesi di guerra studiata dallo Stato Maggiore delle Forze Armate brasiliane è quella di uno scontro nell’Amazzonia con una potenza tecnologicamente superiore. Esercitazioni militari, come l’addestramento, si eseguono tutti gli anni in quella regione.

La recente tournée di Uribe è stata positiva per gli interessi del governo colombiano?

No, la visita del presidente Álvaro Uribe in alcuni paesi dell’America del Sud non ha raggiunto alcun esito. Tutti i presidenti con i quali si è incontrato, hanno manifestato il proprio disappunto nei confronti dell’insediamento delle basi americane, ma comprendono che è una scelta sovrana da parte di Colombia.

Il Venezuela, la Colombia e la Bolivia rappresentano una minaccia reale per la realtà geopolitica del Sudamerica e degli Stati Uniti?

Quei paesi, che minaccia possono rappresentare per il Sudamerica e per gli Stati Uniti? Non sono nessuna potenza, non possiedono un’industria sviluppata, dipendono dalle importazioni di armi e di pezzi di ricambio e sono persino privi di una propria sicurezza alimentare. Pensare o dire che quei paesi possano rappresentare qualsiasi minaccia è una sciocchezza, una ignoranza oppure lo fanno per scopo politico, propagandistico, per spaventare e giustificare l’insediamento di basi e di truppe americane in Colombia e in Perù. L’unico paese che può rappresentare una minaccia sono gli Stati Uniti, perché è una potenza e ha bisogno di risorse naturali.

Militarmente, il Brasile si trova nella condizione do dover affrontare questa nuova sfida geopolitica, prendendo in considerazione che condivide 16 mila chilometri di frontiera con Colombia, Perù ed Ecuador?

Da ormai molti anni le Forze Armate brasiliane hanno preso in considerazione l’ipotesi di guerra in Amazzonia contro una potenza tecnologicamente superiore e per questa ragione addestrano le truppe per la lotta alla guerriglia nella selva. Ma questa minaccia è da considerare ancora remota e anche per una potenza tecnologicamente superiore è difficile combattere e occupare una regione come l’Amazzonia.

Che ruolo può svolgere il Consiglio di Difesa dell’Unione delle Nazioni Sudamericane?

Il Consiglio Sudamericano di Difesa è ancora in fase di costituzione e con l’insediamento e ampliamento delle basi in Colombia, il governo di Washington sta anche cercando d’impedire il suo consolidamento, a tal punto che il presidente Álvaro Uribe non parteciperà alla prima riunione. Uribe sta trasformando Colombia in un protettorato degli Stati Uniti d’America.

In questo contesto, quale apprezzamento merita l’incidenza della crisi economica mondiale nella realtà brasiliana?

Tutti i paesi stanno soffrendo la crisi, perché l’economia mondiale è un tutto. Il sistema capitalista coinvolge tutti i paesi, tanto le potenze industriali quanto i paesi in sviluppo o quelli arretrati, agricoli. Ma la posizione del Brasile è migliore, perché la sua economia è stata amministrata meglio, le sue banche sono solide, la sua produzione non dipende molto dalle esportazioni, solo circa il 13%, giacché possiede un esteso mercato interno e, inoltre, il suo commercio estero non si riversa agli Stati Uniti, dove si trova l’epicentro della crisi. Il Brasile, nonostante la crisi, quest’anno crescerà intorno all’1%, mentre che il Messico, la cui economia è stata strettamente collegata a quella americana con il NAFTA, soffre una caduta del 5%.

Ultimamente si argomenta che i meccanismi d’integrazione come il Mercosur, siano in crisi e non soddisfino le necessità commerciali dei suoi membri. L’esistenza del Mercosur può considerarsi in pericolo?

La costituzione del Mercosur con il Trattato di Asunción, non ha ancora compiuto 20 anni. E non può fare miracoli. Problemi esistono, come in qualsiasi processo d’integrazione, così com’è accaduto e accade in Europa. E gran parte dei problemi è causata dai soci minori, come il Paraguay, che fino ad oggi non ha eliminato il doppio regime tributario. Ma è importante ricordare che sono stati Uruguay e Paraguay che hanno insistito per aderire al processo d’integrazione Brasile-Argentina, il quale era bilaterale. Siccome sono dei paesi fondamentalmente importatori, il dazio esterno comune dovette essere abbassato e la maggior parte dei buchi presenti nell’unione doganale sono rimasti sotto esame. Tuttavia, se i meccanismi del Mercosur non bastano per la soddisfazione delle necessità commerciali di quei paesi, per loro sarà peggiore se dovessero uscirne.
La maggior parte delle esportazioni odierne dell’Uruguay sono destinate al Brasile. In secondo luogo, c’è il Mercosur come un tutto. Isolatamente, con una popolazione di 3,3 milioni di abitanti, Uruguay non possiede le condizioni per competere nel mondo, non possiede un mercato per attirare gli investimenti, un’economia di scala che gli consenta di organizzare la produzione in modo da raggiungere il massimo utilizzo dei fattori produttivi e abbassare i costi dei beni e dei servizi. L’Uruguay e anche il Paraguay possono raggiungere i propri obiettivi solo se s’integrano con il Brasile e l’Argentina, costituendo in questo modo un mercato con più di 250 milioni di abitanti. Senza questa unione con il Brasile e con l’Argentina, Uruguay e Paraguay, i paesi piccoli dell’America meridionale, non possiedono le condizioni per ottenere un migliore inserimento nel mercato mondiale, nel secolo XXI, dove primeggiano i grandi spazi economici come Cina, Stati Uniti, Unione Europea, Russia, India e Brasile. Essi potranno farcela solo se resteranno uniti a Brasile e Argentina, integrando un grande spazio economico e geopolitico, del quale il Mercosur, nonostante tutte le difficoltà, tutte le contraddizioni, è il punto di partenza per l’integrazione di tutta o, per lo meno, una parte dell’America del Sud.

Il candidato del Partito Colorado, Pedro Bordaberry, in un’intervista a LA NACIÓN di Buenos Aires ha affermato che “alle spalle di una “sinistra carnivora” che esiste in Sudamerica, il Brasile traeva i suoi benefici e vantaggi con Washington”. Il dottor Luis Alberto Lacalle ha espresso cose simili. Che giudizio meritano le opinioni di Bordaberry e Lacalle?

Pedro Bordaberry, figlio del dittatore che è stato una marionetta, un prestanome dei militari, è un ignorante. Sono valutazioni notevolmente ingenue, tanto quella di Bordaberry, quanto quella di Luís Alberto Lacalle, il candidato del Partito Blanco, quelle di pretendere di confrontare l’Uruguay con il Brasile e pretendere che possa avere un ruolo internazionale, trovare un proprio inserimento internazionale, al di fuori della sua realtà geopolitica. L’Uruguay è un bel paese, il suo popolo è ammirevole e la forza-lavoro è di buon livello, ben educata. Si deve sviluppare. Ma quello che dicono Bordaberry e Lacalle è ridicolo. Danno prova d’ignoranza. È necessario essere realisti, senza illusioni. L’Uruguay è un piccolo Stato, molto piccolo, con 3,5 milioni di abitanti, nel bacino del Plata. Non possiede una proiezione economica e/o politica. Isolatamente, poco o nulla può offrire agli Stati Uniti. Carne, riso, cereali, soia? Gli Stati Uniti hanno la loro produzione o possono importare da qualsiasi altro paese, come il Brasile e l’Argentina. Mercato? Il suo mercato è piccolo, insignificante per i grandi investimenti di capitale. Ma, il Brasile, isolatamente, senza gli altri soci del Mercosur, è già un mercato comune, che integra 26 Stati federali, all’interno di un territorio di 8,5 milioni chilometri quadrati, con risorse minerarie energetiche e una popolazione di circa 200 milioni di abitanti, con sicurezza alimentare. Inoltre, è una potenza industriale, la maggiore dell’emisfero Sud, e un grande esportatore di commodities. Quali benefici/vantaggi ha ottenuto dai suoi buoni rapporti con Washington? I benefici e i vantaggi che ha ottenuto dai suoi rapporti con Washington sono gli stessi che Washington ha ottenuto dai suoi buoni rapporti con il Brasile.

In realtà, il Brasile è il paese dell’America meridionale che più interessa economicamente e politicamente agli Stati Uniti. Entrambi i paesi costituiscono le due maggiori masse geografiche, demografiche e, nonostante l’asimmetria, economiche dell’emisfero. Necessariamente devono mantenere dei buoni rapporti, i quali sono d’interesse reciproco, in mezzo a molte discrepanze, tanto economiche quanto politiche, che possono essere ignorate soltanto da persone disinformate, come Bordaberrye Lacalle, che nulla sanno di quello che accade sullo scenario internazionale. Fanno solo della demagogia che il livello culturale del popolo uruguaiano non merita.

(trad. dallo spagnolo di V. Paglione)

Fonte: http://www.laondadigital.com/

Esportazione di alte tecnologie. L’Asia al primo posto con il 58% del mercato mondiale

$
0
0

Nel 2006 i paesi dell’Asia detenevano il 58,6% del mercato mondiale delle esportazioni [1] di alte tecnologie [2]. Poi, con il 21% seguiva il Nordamerica (ALENA). Lo spazio europeo (UE-27) risultava al terzo posto con il 15%.
Certo, l’Asia non è strutturata in un’unica organizzazione regionale, contrariamente all’Unione Europea (UE) o all’Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA – ALENA – TLCAN). L’Asia che si presenta come un’area multipolare trova tuttavia una forma d’unità per il suo peso demografico e la sua crescita economica.
La geografia delle esportazioni di alte tecnologie [3] ne costituisce una prova supplementare, in un settore chiave per le dinamiche di potenza.

Seguitando a ragionare con lo spazio UE-27 e suddividendo gli altri aggregati, quali sono i principali paesi esportatori ?
La Cina (senza Hong Kong) è diventato il primo paese esportatore di alte tecnologie, con il 16,9 % dell’intero mercato mondiale. Il predominio cinese sarebbe ancora più schiacciante se ad esso si aggiungesse il 6,8% detenuto da Hong Kong [4].

Il secondo posto è occupato dagli USA con il 16,8%. Mentre lo spazio UE-27 arriva solo al terzo posto con il 15%.
Quali sono i paesi asiatici, oltre la Cina , che giocano un ruolo in questo mercato strategico ? In ordine decrescente si tratta dei seguenti paesi: Giappone (8%), Singapore (7,8), Hong Kong (6,8), Corea del Sud (5,8), Malaysia (3,9), Filippine (1,7) e Tailandia (1,7). Occorre però precisare che questi paesi non operano in settori identici.
Tuttavia, la geografia delle esportazioni di alta tecnologia dimostra che a partire dal Giappone è andata sviluppandosi, negli ultimi decenni in Asia, un’area di crescente potere, ora sconvolta dalla crisi economica reale.

L’Unione Europea sarà capace di difendere, o migliorare il suo posto?

1. Tomas MERI, China passes the EU in High-tech exports, Statistics in focus, Science and technology, 25/2009, Eurostat, 8 p.
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_OFFPUB/KS-SF-09-025/EN/KS-SF-09-025-EN.PDF
2. Corrispondente circa alla percentuale della popolazione asiatica (4,01 miliardi di abitanti)in rapporto a quella mondiale (6,62) mi-2007, cioè il 60,5%. Fonte : Population et sociétés, n°436, juillet-août 2009, Ined.
3. Si tratta del settore aerospaziale, di elaboratori elettronici, macchine per uffici, prodotti elettronici, strumenti, prodotti farmaceutici, macchine elettriche e armamenti.
4. Regione Amministrativa Speciale della Repubblica popolare cinese dal 1997.

Pierre Verluise,  ricercatore presso l’IRIS, è autore di 20 ans après la chute du Mur. L’Europe recomposée (Choiseul, 2009) e coautore di Géopolitique de l’Europe (Sedes, 2009)

Alessandro Lattanzio, Atomo rosso

$
0
0

Atomo Rosso – Storia delle forze strategiche dell’Unione Sovietica (1945-1991)

di Alessandro Lattanzio

Prefazione di Andrea Perrone, giornalista esperto di politica estera di Rinascita.
Postfazione di Emanuele Novazio, corrispondente diplomatico de La Stampa ed autore di Back in URSS. Reportage dal nuovo impero russo, 2009, Guerini e Associati.

Fuoco Edizioni

Il saggio
Il saggio ricostruisce dettagliatamente la nascita e lo sviluppo dell’Unione Sovietica quale potenza mondiale attraverso i suoi programmi nucleari e missilistici per decenni tenuti top secret, descrivendo gli strumenti e la strategia che le hanno permesso di svolgere il ruolo di primo concorrente ed avversario degli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XX° secolo. Il programma per la realizzazione della bomba atomica sovietica, solo recentemente è stato reso pubblico in Italia, con la pubblicazione del lavoro dello storico russo Roy Medvedev. L’URSS, benché devastata dall’aggressione nazista del 22 giugno 1941, nell’arco di quattro anni riescì a colmare il gap tecnologico- nucleare con gli USA. Nell’agosto 1949 venne fatto esplodere il primo ordigno atomico sovietico, mentre nel 1954 venne sperimentata la prima bomba all’idrogeno, superando gli USA nella corsa agli armamenti nucleari. In seguito, Mosca decise, nella scelta del vettore strategico principale, di adottare i missili balistici intercontinentali, al contrario di Washington, che puntò, invece sui bombardieri strategici. L’arsenale strategico-nucleare dell’URSS è la principale eredità dell’era sovietica che viene trasmessa alla Federazione Russa di oggi. Ed è grazie a questa eredità, che la Russia di Putin e Medvedev sta ricostruendo e riacquistando il suo ruolo di potenza mondiale.

L’Autore
Alessandro Lattanzio, laureato in Scienze politiche, indirizzo politico-Storico, presso l’Università di Catania; Redattore della Rivista di Studi Geopolitici – Eurasia; Autore dei libri: Terrorismo Sintetico, Insegna del Veltro, Parma, 2007; Potere Globale, Il ritorno della Russia sulla scena internazionale, Fuoco Edizioni, Roma, 2009. Gestisce i siti web: http://www.aurora03.da.ru e http://sitoaurora.altervista.org).


ordini@fuoco-edizioni.it


Breve nota sui Patti dell’agosto 1939

$
0
0

BREVE NOTA SUI PATTI DELL’AGOSTO 1939
(Il Patto di Mutuo Soccorso tra il Regno Unito e la Polonia e il Patto Molotov-Ribbentrop)

Considerando le alleanze firmate dalla Gran Bretagna insulare nella cornice della sua secolare politica di potenza anti-europea, finalizzate a contenere e scongiurare i propositi di amicizia e / o integrazione tra le nazioni del Continente Europeo, vale la pena ricordare – come esempio illustrativo – il Patto di Mutuo Soccorso fra il Regno Unito e la Polonia, siglato a Londra il 25 agosto 1939.

Come noto, il trattato di amicizia anglo-polacco sottoscritto da Lord Halifax e dal Conte Rczynski, costituì una deliberata violazione (1) del similare trattato che Germania e Polonia firmarono il 26 gennaio 1934, e, soprattutto, un’esplicita interferenza nelle delicate relazioni tra il Reich nazionalsocialista e l’URSS; Berlino e Mosca, infatti, appena due giorni prima, il 23 agosto, avevano stipulato un trattato di non aggressione, passato alla storia come patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei rispettivi ministri degli esteri.

In questo caso, il Regno Unito intendeva utilizzare – come tassello di un dispositivo diplomatico-militare, teoricamente paritario, – la posizione strategica della Polonia quale “cuneo” interposto tra le due potenze continentali, al fine di incidere, contemporaneamente, sia sulla creazione di un potenziale asse Mosca-Berlino, sia sugli accordi tedesco-polacchi, ed eliminare, in tal modo, qualsiasi futura potenziale prospettiva di saldatura / integrazione tra la Penisola Europea e la massa continentale asiatica.

L’azione di disturbo ideata da Londra, attraverso una sottile trama di attività diplomatiche, nella quale erano coinvolti gli Stati Uniti (2), era perfettamente coerente con la dottrina geopolitica britannica, il cui sfruttamento delle tensioni tra le nazioni continentali costituiva un pilastro fondamentale della sua politica di equilibrio.

NOTE:

1. Alcuni mesi prima, il 19 maggio 1939, un accordo di reciproco aiuto tra Francia e Polonia (probabilmente su richiesta degli Stati Uniti e del Regno Unito) fu firmato a Parigi dall’ambasciatore polacco Juliusz Lukasiewicz e dal ministro francese degli Affari Esteri, Georges Bonnet. Per Berlino, e sotto certi aspetti anche per Mosca, i due Patti di Mutuo Soccorso costituivano una sorta di minaccia per la pace continentale.

2. Ci riferiamo alle riunioni tra l’ambasciatore americano William Christian Bullitt Jr. e gli ambasciatori polacchi Potocki e Lukasiewicz, avvenute in Francia nel novembre 1938 e febbraio 1939; si veda Giselher Wirsing, Roosevelt et l’Europe (Der Kontinent Masslose), Grasset, Paris, 1942, p. 266.

Rivelato il « Progetto israeliano »

$
0
0

Rivelato il « Progetto israeliano » (estratti)

Israele e la sua lobby negli Stati Uniti hanno pubblicato, con lo strano titolo di Global Language Dictionnary, un manuale di 116 pagine per definire una strategia di comunicazione filo-israeliana – detta « Israël Project » – destinato a membri del Congresso, a media e ad altri che si trovano in posizioni di potere. Redatta da Frank Luntz, un esperto in sondaggi di opinione, repubblicano, l’iniziativa lascia trasparire un senso di disperazione e di causa perduta. Le argomentazioni avanzate non solo sono prive di ogni verità, ma mancano di rigore o di credibilità. La lettura del documento lascia pensare che la lobby israeliana non sia in realtà che un castello di carte.

Il primo dei 18 capitoli si apre così : « Il primo passo per guadagnare fiducia ed amici per Israele è mostrare che vi preoccupate della pace per le Due parti, gli Israeliani ed i Palestinesi e, in particolare, di un futuro migliore per ogni bambino. In effetti, le fasi della vostra conversazione sono estremamente importanti e voi dovete cominciare con l’empatia per le Due parti. Iniziate la vostra conversazione con messaggi di sicura efficacia come « Israele s’impegna per un futuro migliore per tutti – Israeliani come Palestinesi. Israele vuole vedere la fine della pena e della sofferenza e s’impegna a lavorare con i Palestinesi ad una soluzione pacifica, diplomatica nella quale le due parti potranno avere un futuro migliore. Sia questo per i due popoli il tempo della speranza e dell’opportunità… ».

Nel passaggio successivo, Luntz basa le sue argomentazioni su MEMRI, – agenzia di propaganda israeliana – e su Palestine Media Watch, dell’agente del Mossad, Itamar Marcus. « Per principio, noi crediamo che i bambini abbiamo il diritto essenziale di essere allevati senz’odio. Chiediamo alla direzione palestinese di mettere fine alla cultura dell’odio nelle scuole palestinesi, 300 delle quali hanno ricevuto i nomi di autori di attentati suicidi. I dirigenti palestinesi devono ritirare dalle aule i libri che mostrano il Medio Oriente senza Israele e glorificano il terrorismo. »

Infatti, nessun bambino dovrebbe temere che suo padre o sua madre, suo fratello, sua sorella, etc… siano uccisi perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, ossia quando una recluta di 18 anni, morta di paura, decide di dare degli esempi. Quanto alle carte, mi piacerebbe che Luntz o Itamar Marcus mi mostrassero un libro israeliano sul quale figura una carta della Palestina. Lì, ci troverete la Giudea o la Samaria, ma che ne è dei milioni di Palestinesi che vivono nei Territori ?… Gli attentati suicidi sono cose del passato ed i Palestinesi hanno ampiamente abbandonato questa pratica, a causa della sua impopolarità tra I Palestinesi moderati.

Le parole che « funzionano »

« Se iniziate la vostra risposta con « io capisco e simpatizzo con quelli che … », renderete più credibile quel che seguirà, favorirete che il vostro uditorio simpatizzi e sia d’accordo con voi. »

« Sappiamo che i Palestinesi meritano dirigenti che si preoccupino del benessere del loro popolo, che non concedano a se stessi i milioni di dollari di assistenza dall’America e dall’Europa per metterli in conti bancari in Svizzera, o che non se ne servano per sostenere il terrorismo al posto della pace. I Palestinesi hanno bisogno di libri, non di bombe. Vogliono strade, non razzi ». Le accuse di distrazione di fondi risalgono all’epoca di Arafat, morto da tempo, e Frank Luntz ne dovrebbe essere messo al corrente. In compenso, ai Palestinesi piacerebbe che si costruissero strade diverse da quelle di aggiramento israeliane le quali permettono ai coloni di andare direttamente in Israele attraverso gli ex terreni palestinesi.

O, ancora, « Possiamo essere in disaccordo sulla politica… Ma c’è un principio fondamentale sul quale tutti i popoli concorderanno : un popolo civilizzato non prende di mira donne e bambini innocenti ». Qui, evidentemente, non si tratta delle « donne e dei bambini innocenti » massacrati durante l’offensiva di Gaza ! «… Noi chiediamo ai dirigenti palestinesi di finirla con il linguaggio della violenza… con il linguaggio delle minacce… Se i dirigenti parlano di guerra, non arriveremo alla pace … ». Ma, I dirigenti militari e politici israeliani usano tutti i giorni il linguaggio della violenza, dell’incitamento e della guerra. Ascoltateli.

« Non dite che Israele è senza colpa o senza errore… Nessuno vi crederà… Il vostro interlocutore metterà in dubbio la veridicità di tutto quello che direte dopo. Riconoscete che Israele commette delle azioni colpevoli… Poi cambiate argomento il più rapidamente possibile sperando che lui non abbia notato ciò che avete concesso. Mettete subito l’accento sul fatto che in questo conflitto i Palestinesi sono ben più colpevoli degli Israeliani ». « Soprattutto, portate l’attenzione sull’argomento che il « linguaggio di Israele è il linguaggio dell’America : democrazia, libertà, sicurezza e pace, bambini, cooperazione, collaborazione, compromesso, esempi di sforzi di pace (quelli di Israele, naturalmente), prosperità economica (per i Palestinesi) ».

Siate umili. Dite : « So che nel tentativo di difendere i propri bambini e I propri cittadini dai terroristi, Israele ha ucciso accidentalmente degli innocenti. Lo so e ne sono desolato… Se l’America avesse dato la terra in cambio della pace e questa terra fosse utilizzata per lanciare razzi contro i suoi, che cosa farebbe l’America ?

« La vostra non sia vera umiltà. Sostenete fermamente che Israele è l’America e che non c’è nessuna occupazione, nessuna ingiustizia perpetrata contro i Palestinesi. Sostenete che le loro terre non sono state loro rubate, che essi non sono diventati dei profughi a centinaia di migliaia, che Israele ha il diritto di aspettarsi dai Palestinesi che si comportino come i Canadesi o i Messicani » (che da 150 anni non hanno problemi di frontiera).

Qui va osservata l’interessante confusione di identità tra Israeliani ed Ebrei americani… come se noi fossimo loro.

« Siamo pronti a permettere loro di costruire.. ». Se i Palestinesi si rivelano un partner affidabile, come possono essere in teoria ed in pratica subordinati agli Israeliani ? Che cos’è l’Occupazione se non una « subordinazione » personificata ?

Ricordate – ancora e sempre – che Israele vuole la pace. La prima ragione è : se gli Americani non vedono alcuna speranza di pace, se non vedono che la continuazione di una « disputa di famiglia » vecchia di 2000 anni, rifiuteranno che il loro governo spenda i dollari del contribuente o l’influenza del loro Presidente per aiutare Israele ».

Bingo. Qui Luntz dice la verità : Israele vuole la pace allo stesso modo in cui una ragazzina di 13 anni vuol essere l’idolo del momento. Israele non ha nessun piano, nessun modo di arrivare alla pace. E la paura annidata nel cuore della lobby israeliana è che, un giorno, venga svelato il vero volto di Israele, che gli Americani l’abbandonino, avendo capito che la pace ricercata da Israele è una pace ottenuta alle condizioni di Israele. Dunque, che non ci sarà mai pace. La lobby filo-israeliana vuole evitare ad ogni costo che arrivi quel giorno, perché oggi « gli Ebrei in generale – e gli Israeliani in particolare – non sono più percepiti come un popolo perseguitato. Infatti, tra il pubblico americano od europeo – sofisticati, istruiti, non ebrei, con le proprie opinioni – gli Israeliani sono spesso visti come gli aggressori e gli occupanti… ».

Fonte: http://seminal.firedoglake.com/diary/6256 – Texte intégral: http://www.newsweek.com/id/206021

Fonte : AFI Flash n°95
2 settembre 2009

Traduzione dal francese eseguita da Belgicus

La produzione petrolifera della Russia sorpassa quella dell’Arabia Saudita

$
0
0

La Russia estrae più petrolio dell’Arabia Saudita, rendendola il più grande produttore di “oro nero” nel mondo, come le cifre dimostrano. Le statistiche, dell’Opec, indicativi di una tendenza che ha visto i russi superare periodicamente i sauditi come maggiori produttori di petrolio al mondo dal 2002. Questi ultimi dati sono stati chiamati direttamente dalla Russia come prova del fatto che tali picchi di produzione sono periodici, e non sono una tantum e che Mosca ha veramente il diritto di pretendere di essere il numero 1.

Secondo l’Opec, la Russia ha estratto 9,236 milioni di barili di petrolio al giorno nel mese di giugno, più di 46.000 rispetto all’Arabia Saudita. Le statistiche inoltre indicano che la produzione russa nel primo semestre di quest’anno ha avuto un aumento di 235,8 milioni di tonnellate, un miglioramento annuale del 2,3 per cento.

Tradizionalmente, l’Arabia Saudita è stata ritenuta la fonte primaria di petrolio nel mondo e la Russia ha dovuto accontentarsi del secondo posto. Ma negli ultimi anni la Russia ha rinazionalizzata e modernizzato gran parte della sua industria e tale politica sembra essere dare i suoi frutti. Anche gli analisti russi ammettono che la causa di Mosca è aiutata dal fatto che l’Arabia Saudita è soggetta a restrizioni alla produzione dall’Opec. I sauditi sono famosi per la loro capacità di accedere alle riserva e di aumentare la produzione in tempi brevi, e se davvero volevano riaffermare il loro ruolo di leadership la sensazione è che potrebbero farlo facilmente.

Incurante di questi “dettagli”, in Russia la “caduta” dei sauditi è stato salutata ieri a livello nazionale. Il quotidiano populista Komsomolskaya Pravda ha pubblicato un articolo intitolato “La Russia è al primo posto in classifica nella produzione di petrolio”.

Con i prezzi del petrolio al di sopra dei 70 dollari al barile per il Brent di Londra, a causa delle incertezze sulla fornitura del gasdotto della BP in Alaska e della crisi iraniana, la Russia si gode una miniera d’oro senza precedenti. Ma gli analisti dicono che la sua industria del petrolio è già al lavoro al massimo della capacità e che sarà in grado di gestire una produzione aumenta fino a solo il 2 per cento l’anno per il 2009.

Ci sono anche i timori che la Russia stia diventando troppo dipendente da ciò che i politici chiamano “l’ago del petrolio” e stia facendo troppo poco per sviluppare flussi di entrate future.

Il prezzo del petrolio e del gas pesano per 52,2 per cento di tutte le entrate del Tesoro dello Stato, e per oltre il 35 per cento delle esportazioni della Russia. Tali ricchezze possono rendere un paese compiacente, secondo Aleksej Kudrin, il ministro delle Finanze russo. “Allo stato attuale, ci troviamo in una zona di una pericolosa spensieratezza”, ha detto.

Fonte: nzherald.co.nz – 23/08/2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

Igor Panarin, Il crollo degli Usa potrebbe iniziare tra due mesi

$
0
0

Il professore russo Igor Panarin dice che gli eventi continuano a confermare la sua predizione apocalittica, fatta per la prima volta più di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sarebbero crollati completamente come l’Unione Sovietica prima della fine del 2010 e avvisa che potrebbe iniziare a verificarsi il caos già tra due mesi.

Panarin, dottore in scienze politiche nonché docente dell’Accademia Diplomatica presso il Ministero degli Affari Esteri della Russia ha detto ieri ai giornalisti, durante la presentazione del suo nuovo libro che il presidente Obama non ha fatto niente per prevenire la crisi, che si sta rapidamente avvicinando e che potrebbe iniziare a verificarsi propriamente a novembre.

Obama è il ‘presidente della speranza’, ma tra un anno la speranza non ci sarà più”, ha detto Panarin. “Praticamente è un altro Gorbaciovgli piace parlare, ma non è riuscito a fare realmente nulla. Gorbaciov almeno è stato segretario dell’amministrazione di un partito comunista regionale, mentre Obama era solo un assistente sociale. La sua è una mentalità totalmente diversa. È una persona gentile che parla con altrettanta gentilezza – ma non è un leader e porterà l’America al crollo. Quando gli Americani lo capiranno – sarà come l’esplosione di una bomba”.

Dal 1998 Panarin ha preannunciato la futura disintegrazione degli Stati Uniti e il crollo del dollaro. La recente vittoria elettorale del Partito Democratico Giapponese è un altro segno che il crollo economico degli USA è imminente, secondo Panarin.

Oggi ho ricevuto un’altra conferma che il crollo del dollaro e degli USA è inevitabile. Il Partito Democratico Giapponese ha vinto le elezioni, e vorrei ricordarvi che il suo leader [Yuko Hatoyama] ha nei suoi piani economici di snobbare il dollaro. In parole povere, ha in programma di trasferire le riserve monetarie del Giappone dal dollaro americano ad un’altra valuta. Questa mossa accelererà seriamente il crollo del cambio del dollaro già a novembre. E la disintegrazione seguirà poco dopo”, ha detto, aggiungendo che anche la Cina il prossimo anno inizierà ad abbandonare il dollaro in modo massiccio e che la Russia inizierà a vendere il petrolio e il gas in rubli.

Panarin ha dichiarato in precedenza [3] che il dollaro sarebbe stato infine sostituito con “una valuta comune, l’Amero, come nuova unità monetaria”, in riferimento all’accordo di alleanza per la sicurezza e la prosperità tra gli USA, il Canada e il Messico.

Prevede la suddivisione degli USA in sei parti diverse, pressappoco su linee simili a quelle del 1865 [4] durante la Guerra Civile, “la costa del Pacifico, con la sua crescente popolazione cinese; il sud, con gli Ispanici; il Texas, dove sono in aumento i movimenti per l’indipendenza; la costa dell’Atlantico, con la sua mentalità separata e distinta; cinque degli stati centrali più poveri con le loro grandi popolazioni di nativi americani; e gli stati settentrionali, dove l’influenza del Canada è forte”, secondo Panarin.

Nel lungo termine Panarin prevede che gli stati separatisti finiranno in ultima istanza sotto il controllo dell’Unione Europea, del Canada, della Cina, del Messico, del Giappone e della Russia, e l’America cesserà di esistere del tutto, come illustrato nella figura sopra.

Panarin attribuisce il crollo ad una “elite politica che attua una politica assurda e aggressiva mirata a creare conflitti in tutto il pianeta” e avvisa che l’aumento della vendita delle armi da fuoco negli USA è un segnale che le persone si stanno preparando al “caos” del periodo seguente al crollo finanziario totale.

Secondo la mia opinione, le probabilità che gli USA cessino di esistere entro il giugno del 2010 sono superiori al 50%. A questo punto la missione di tutti i maggiori poteri internazionali è di prevenire il caos negli USA” ha concluso Panarin.

*NOTE

[1] Prison Planet.com: http://prisonplanet.com
[2] Image: http://prisonplanet.tv/signup.html
[3] previously stated: http://www.prisonplanet.com/russian-infowar-analyst-says-us-will-break-apart.html
[4] similar to those of 1865: http://en.wikipedia.org/wiki/Image:US_Secession_map_1865.svg

Titolo originale: “Russian Professor: Collapse Of America Could Begin In Two Months

Fonte: http://www.prisonplanet.com

01.09.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI

Demografia francese: cifre reali e idee false

$
0
0

In Francia, che conta una popolazione di 64 milioni di abitanti, sono state registrate, nel 2008, 834000 nascite [1]. In riferimento alla cifra rilevata dieci anni fa, l’effettivo annuale è superiore del 9%. Dal 1993 al 2008, il tasso sintetico di fecondità è passato dall’1,65 a 2 figli per donna.

Le coppie di oggi fanno più figli di quelle di ieri ?

Secondo una pubblicazione dell’Istituto nazionale degli studi demografici [2], questi aumenti non deriverebbero da un aumento della fertilità delle coppie da una generazione all’altra, giacché le coppie di oggi prolificano quanto quelle di trenta anni fa. Ma le coppie odierne generano i loro figli più tardi (contraccezione, conciliazione con la vita professionale). Il rinvio della maternità avrebbe causato prima una temporanea riduzione nel tasso di fertilità poi un aumento. Nel 2008, il 21% dei bambini sono nati da madri di età compresa tra 35 e più anni, invece del 16% di dieci anni prima. L’aumento dei tassi di fertilità e delle nascite non dipenderebbero dunque da una propensione delle coppie ad avere più figli, ma piuttosto da un nuovo calendario di maternità, dopo diversi decenni di transizione durante i quali esso era diventato progressivamente più lento da causare il temporaneo calo delle nascite.

Qual è la percentuale dei nati da genitori stranieri ?

A livello nazionale, la cittadinanza dei genitori è ripartita secondo le dichiarazioni dello stato civile. L’80,4% dei nati vivi nel 2008 hanno due genitori francesi: questo è un dato leggermente inferiore rispetto a quello del 1994 che era pari all’81,2%. Il 12,7% dei bambini risultano essere nati invece da una coppia mista; tale percentuale è in costante aumento, a partire dal 1994 quando si attestava al 5,7% . Qui l’immigrazione ha svolto un ruolo determinante rispetto al totale delle nascite. La percentuale dei nati da due genitori stranieri è del 6,9%, lievemente inferiore a quella del 1994 che era pari al 7,6%.
Si registra, quindi, che la percentuale di bambini nati da coppie miste è in aumento, il che riflette l’evoluzione della società francese. Si tratta di un meticciato nel senso della nazionalità, non necessariamente nel senso dell’origine geografica. Giacché, ad esempio, il matrimonio tra una persona proveniente dall’immigrazione algerina, naturalizzata francese, con un algerino viene considerato un “matrimonio misto”.

L’aumento delle nascite annulla il processo d’invecchiamento della popolazione ?

Il processo di invecchiamento della popolazione francese è in continuo aumento, nonostante l’incremento delle nascite registrato a partire dal 1994.
Al 1 gennaio 2007, sono 10,3 milioni le persone con età superiore ai 65 anni, ovvero il 16,2% della popolazione. Nel 1994, essi erano meno del 15%. Al contrario, 15,8 milioni di abitanti hanno meno di 20 anni, cioè il 25% dell’intera popolazione. Nonostante parecchi anni consecutivi di nascite più numerose, la percentuale dei giovani continua a diminuire. Nel 1994, il 26,7% della popolazione aveva meno di 20 anni. A partire dal 2012, la percentuale di persone con età superiore ai 65 anni potrebbe aumentare in maniera significativa [3].
Certo, il limite di 65 anni diventa discutibile per giudicare la “vecchiaia”, poiché lo stato di salute e la speranza di vita progrediscono : 77 anni per gli uomini e 84 per le donne.
Come corollario, occorre ammettere che ciò spinge a ritardare l’età di pensionamento, forse in modo differenziato in rapporto alla speranza di vita per settore di attività.

Tuttavia, la Francia costituisce una eccezione in rapporto all’Unione europea. Infatti, la crescita demografica francese nel 2008 proviene per i quattro quinti dall’incremento naturale, vale a dire dalla differenza tra le nascite e i decessi. La situazione è esattamente inversa nell’Unione europea, dove l’aumento dovuto alle migrazioni costituisce i quattro quinti dell’aumento totale.

1. Sommando i dati della Francia metropolitana con quelli dei dipartimenti d’oltremare. Cfr. Catherine Beaumel, Anne Pla e Mauricette Vatan, Statistiques d’état civil sur les naissances en 2008, Société, n° 97, 21 agosto 2009, INSEE.
2. Cfr. Gilles Pison, France 2008: pourquoi le nombre de naissances continue-t-il d’augmenter ? , Population et sociétés, n° 454, marzo 2009, INED, 4 p.
3. Gérard-François Dumont (dir.), Populations et territoires de France en 2030, le scénario d’un futur choisi, Paris, L’Harmattan, 2008.

*Pierre Verluise, ricercatore all’IRIS di pargi, è autore di 20 ans après la chute du Mur. L’Europe recomposée (Choiseul, 2009) e co-autore di Géopolitique de l’Europe (Sedes, 2009)

Perché il multipolarismo e la guerra di movimento

$
0
0

1. Per circa mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, si era stabilizzato un sistema globale bipolare, con paesi “non allineati” (anche importanti come l’India), ma tutto sommato non troppo influenti rispetto alla divisione del globo tra le due cosiddette superpotenze. Un campo era quello del capitalismo, l’altro quello del socialismo. Alcuni lo dicevano comunista (così come oggi qualcuno parla con improntitudine di Cina comunista o Cuba comunista, ecc.). In realtà, in quei paesi erano “al potere” (altra espressione troppo comune che sarebbe da ridiscutere) partiti denominati comunisti, ma nessuno di essi sosteneva di aver condotto la società al comunismo; ci si limitava a pretendere che si stava costruendo il socialismo (l’ormai ignoto ai più gradino inferiore del comunismo).
Ci fu semmai assai presto – congresso degli 81 partiti comunisti a Mosca nel 1960 – un allontanamento tra i due colossi del campo socialista, Urss e Cina, che divenne rottura dopo la crisi di Cuba (ottobre 1962) e lo scambio di lettere tra i CC dei due partiti (Pcus e Pcc) nella prima metà del 1963. Poi venne la rivoluzione culturale cinese (1966-69) che accentuò il distacco, rendendo i due partiti e i due paesi autentici nemici. Su questo contrasto si inserirono gli Usa, soprattutto per “merito” di Nixon – un presidente negletto e su cui bisognerebbe rivedere il giudizio storico perché, almeno oggettivamente, è stato più importante dell’osannato Kennedy e ha preparato il terreno a Reagan, considerato a torto l’affossatore del campo socialista (assieme a Papa Wojtyla, altro luogo comune per pigri mentali) – e la situazione, già con Mao e ancor più dopo con Teng, divenne tale che l’Urss (il cosiddetto socialimperialismo) fu considerata dalla Cina (e dai maoisti) il “nemico principale” rispetto all’imperialismo statunitense, con cui spesso si “intrallazzò” (non è ovviamente il termine adatto) a spese dell’Urss.
Generalmente, si sottovaluta quest’aspetto decisivo dell’indebolimento del campo socialista (sempre guidato dai sovietici), mettendo in luce erroneamente solo la corsa al riarmo nella quale l’Orso russo avrebbe perso. Altra questione che dovrebbe essere sottoposta a revisione storica è la vittoria della guerriglia vietnamita. Molto fu dovuto all’azione di Nixon, in grado di capire che le strategie vincenti (alla lunga e contro il nemico principale) richiedono anche l’accettazione di certe sconfitte, soprattutto in una situazione irrisolvibile per gli Usa. In effetti, credo che la fine della guerra (1975) abbia permesso alla fazione filosovietica del partito vietnamita, sempre maggioritaria, di prevalere definitivamente su quella filocinese; il che solo apparentemente avvantaggiava l’Urss, mentre invece allargava il solco tra le due potenze “socialiste”. Ci fu poi, nel 1978, la breve guerra cino-vietnamita in seguito all’invasione della Cambogia da parte del Vietnam con deposizione di un governo alleato dei cinesi. L’anno successivo l’Urss invase l’Afghanistan, dando nuovo impulso all’avvicinamento della Cina a Usa (e Pakistan) con ulteriore indebolimento della potenza sovietica.
Quanto appena accennato (sarebbe di grande importanza rifare la storia di quel periodo cruciale) serve solo a ricordare che, malgrado il dissidio russo-cinese foriero della successiva dissoluzione del campo socialista, si ritenne per mezzo secolo il mondo diviso ormai permanentemente in due, tra Usa e Urss. Fu un periodo di sostanziale pace nel mondo capitalistico avanzato (pur parlando, e l’ho sempre ritenuto uno straparlare, di “equilibrio del terrore”, ovviamente atomico). Le guerre, continue in varie parti del mondo, avvenivano sostanzialmente nelle aree di confine (e frizione) tra i due campi. In realtà, non esisteva alcun socialismo (figuriamoci il comunismo), bensì forme sociali spurie ancor oggi conosciute inadeguatamente (se ne sono fornite innumerevoli analisi contrastanti). L’interpretazione, che fu anche del mio Mastro francese Bettelheim, di un capitalismo di Stato (e di partito), non mi sembra più convincente. Più perspicua mi sembra comunque la tesi bettelheimiana secondo cui le forme (capitalistiche) della merce e dell’impresa vennero durante quel periodo, per motivi fondamentalmente politici e ideologici, soffocate, represse, ma non superate.
In effetti, forte era la credenza che il partito, pur dominato da un’oligarchia da lungo tempo cristallizzatasi, dovesse mantenere – in quanto avanguardia della classe operaia, quella che si sarebbe emancipata dallo sfruttamento, emancipando così l’intera società mondiale dallo stesso e dalla divisione in classi – il potere assoluto, pianificando l’intera economia. Non posso qui elencare i motivi (teorici ma con risvolti pratici) per cui la pianificazione, attuata dal blocco sociale che si era andato solidificando, riusciva solo a porre ostacoli allo sviluppo, dopo il primo periodo staliniano di impetuosa accumulazione e di creazione di una potenza industriale (e militare) con però basso livello di consumi e di tenore di vita per quanto riguarda la netta maggioranza della popolazione. Il periodo brezneviano fu di stagnazione, con degrado delle strutture sociali: si pensi all’istruzione e sanità, orgoglio dei paesi socialisti, alla diminuzione notevolissima della media della vita, nettamente innalzatasi in un primo tempo. E via dicendo.
Il periodo gorbacioviano fu un “vorrei ma non posso”, il tentativo di affermare una contraddizione in termini: il socialismo di mercato. La Cina pure usò questa dizione, ma solo come mascheramento ideologico; in realtà, diede pieno sfogo a forme economiche di tipologia capitalistica, mantenendo solo una direzione centralizzata (con ampie autonomie in sede locale, anche se per le decisioni “minori”, non per quelle nazionali). In definitiva, si tratta di quella centralizzazione che – sia pure tenendo conto delle differenze culturali e di lunga tradizione storica – sta attuando la Russia e, mi sembra, con risultati tutto sommato soddisfacenti, pur non ancora stabili e definitivi.

2. Quello che ho cercato di delineare in modo molto succinto serve alla conclusione che più mi interessa: malgrado non esistesse il campo socialista, o meglio non esistesse il socialismo in tale campo, esso fu realmente antagonista di quello capitalistico tout court, si visse e fu vissuto come alternativa che le classi dominanti “occidentali” – ancor oggi tanto spaventate da trattare spesso la Cina, e talvolta perfino la Russia di Putin, come socialiste (anzi comuniste) – intendevano stroncare; e alla fine ci riuscirono. Da quel contrasto semisecolare risultò però intanto l’imponente decolonizzazione che, pur non avendo portato (nemmeno essa) ai risultati perseguiti, ha cambiato la faccia del globo e permesso la crescita di due delle maggiori potenze…. “potenziali”: Cina e India. L’Urss, in nome della mera politica (di potenza) e dell’ideologia (della costruzione del socialismo come esempio da seguire per le masse dei paesi capitalistici), fu comunque prodiga di aiuti, in specie ma non solo militari (a Cuba, Egitto, ecc.); aiuti non corrispondenti al classico concetto di imperialismo, che implica non solo la forza politica e militare, bensì anche un ritorno economico: non solo per lo Stato ma pure per le imprese investitrici di capitali.
Se si guarda alla conquista (o mantenimento) di sfere di influenza, forse si può allora parlare di imperialismo sovietico. Pure qui, tuttavia, si è trattato di un’azione di prevalente contenimento dell’aggressività altrui, poiché a partire dal 1945 gli Stati Uniti – dopo aver accettato, per eliminare definitivamente dal novero dei competitori Inghilterra e Francia oltre alle sconfitte Germania e Giappone, gli accordi di Yalta con la loro divisione del mondo in due (accordi che non a caso Churchill, avendo capito come sarebbe andata a finire, avrebbe voluto far saltare: e qui sarebbero da rivedere molte “bucce” riguardo ai “segreti contatti” in piena guerra tra Inghilterra e Germania) – hanno tentato, con varia fortuna (prima scarsa e infine vincente), di affermare globalmente quel monocentrismo che era ormai pienamente in atto nel capitalismo “occidentale” (Giappone compreso).
Per 50 anni circa il mondo apparve appunto cristallizzato, e tutto il nostro orizzonte politico fu orientato alla permanenza indefinita di tale situazione. Forse però qualcuno, nei luoghi nascosti dove si preparano le vere strategie politiche di potenza (altro che quelle economiche sempre poste in primo piano per ingannarci), ne sapeva un po’ più di noi, vedeva cambiamenti possibili. E pure qui, sarebbero da spiegare molte mosse durante la breve parentesi di Gorbaciov, liquidatore del cosiddetto Impero sovietico, cospiratore con l’allora segretario del Pc cinese per combinare guai anche in quel paese (stroncati nella Tiananmen), oggi consulente degli americani per contatti (a mio avviso improduttivi) con deboli oppositori russi di Putin.
Quello che mi preme rilevare, quello a cui volevo arrivare, è che il confronto politico tra Usa e Urss, pur viziato da nette distorsioni ideologiche, condusse ad un reale antagonismo tra i due campi, che prese il posto della – ma venne ampiamente confuso e identificato con la – altrettanto ideologica credenza nella lotta “a morte” tra borghesia e proletariato, tra classe capitalistica e classe operaia. Si fu anche convinti che l’azione dell’Urss corrispondesse al concetto di “internazionalismo proletario”; quell’internazionalismo molto carente, ad es., nell’azione del Pc francese in merito al colonialismo francese e alla lotta del Fln algerino, del tutto assente negli operai americani nei confronti del Vietnam, e si potrebbe continuare. Una lunga serie di distorsioni ideologiche, che coprivano comunque conflitti reali e risultati concreti, certo svisati nel loro effettivo significato.
Ci fu un’apparentemente insuperabile guerra di posizione, durante la quale i partiti comunisti dei paesi capitalistici occidentali (quelli in cui ancora essi avevano seguito e forza, quelli di meno avanzata industrializzazione) si trasformarono progressivamente in sinistra integrata e riformista (salvo frange sempre meno consistenti e più agitatorie che fattive); mentre nella parte orientale si veniva preparando il crollo della “facciata socialista”, da cui sarebbero nate, dopo un tumultuoso ma breve periodo di solo apparente totale sconfitta, nuove formazioni sociali (di ancora impossibile definizione a meno di non erigersi a profeti) che sembra proprio si assestino e crescano come alternativa al capitalismo di tipologia “occidentale”.

3. Oggi la situazione, nel giro di una quindicina d’anni (periodo storico brevissimo), è completamente mutata, tanto da essere irriconoscibile; solo dei “cervelli cristallizzati” continuano a rimuginare il passato come se tutto fosse rimasto eguale o con piccoli ritocchi. Non esiste più una guerra di posizione ma di pieno movimento. C’è stata all’inizio l’illusione ottica dell’ormai realizzato monocentrismo (“imperiale”) statunitense, con questo paese in piena “arroganza di (pre)potere” e quindi direttamente (militarmente) aggressivo. Gli Usa non hanno affatto ancora accettato in pieno la nuova realtà; Obama è solo un po’ meno “diretto”, un po’ più viscido e avvolgente dei Bush e di Clinton, non ha per nulla tratto le debite conclusioni.
Vi era stata quella illusoria e “avveniristica” visione di Wesley Clark (generale dell’aggressione alla Jugoslavia) per cui ormai la guerra si vinceva con l’aviazione, senza bisogno di truppe di terra. Alcuni, anche oggi, suggeriscono di ritirarsi dall’Afghanistan, affidandosi a truppe “ascare” (ma già perfino un Karzai non è più ritenuto affidabile) e usando addirittura i “droni”, aerei senza piloti. Se gli Usa, con i loro succubi della Nato, si ritirassero, si tratterebbe di una sconfitta vera, non più quella del Vietnam; poiché non si potrebbe questa volta sperare nel crollo dell’avversario (allora l’Urss e il campo socialista), bensì essere invece sicuri dell’occupazione degli spazi lasciati vuoti dalle potenze in crescita: Russia, Cina, India, probabilmente anche Pakistan che si renderebbe indipendente dagli Usa.
Certo, questi ultimi potrebbero giocare sulle contraddizioni esistenti (e latenti oggi, ma non del tutto) tra i paesi “a est”. Tuttavia, sarebbe un gioco indiretto, tramite alleanze temporanee e “area per area”, destinate a continui disfacimenti e rifacimenti. Le manovre nel Caucaso – e i veri o presunti successi conseguiti dagli Stati Uniti in Turkmenistan ed Uzbekistan – sarebbero resi rapidamente evanescenti. Diverrebbe pure difficile controllare Georgia e Ucraina; e non parliamo di Iran e perfino Turchia, paesi ancora sotto trama più o meno sovversiva da parte degli Usa. Insomma, si produrrebbe il ben noto “effetto domino”, che non si sa dove si arresterebbe; e metterebbe difficoltà gravi anche il sicario pur sempre preferito della prepotenza americana, Israele, di cui un sempre minore numero di paesi difenderebbe allora l’esistenza in nome dell’astratta formula dei “due Stati”. Proprio per tali motivi, gli Usa di Obama non hanno alcuna intenzione di ritirarsi e programmano invece il potenziamento delle truppe sul fronte afgano.
Quanto appena esposto è appunto effetto della fine della guerra di posizione, in cui uno dei due campi non era però in grado di tenere la posizione; mentre nell’odierna guerra di movimento, con più attori in gioco, e in rafforzamento, tutto è diverso, tutto muta con rapidità (certo sempre tenendo conto che stiamo parlando di processi storici). Viene nel contempo messa in mora definitivamente la credenza ormai vetusta nella “lotta di classe”, nell’antagonismo delle masse lavoratrici contro il capitale e l’imperialismo dei paesi avanzati. Tale credenza sopravviveva (a malapena in ogni caso) per la confusione, fatta da “ritardati” (che si credevano marxisti quando erano scolastici e religiosi), tra questa lotta e lo scontro tra i due campi in quella guerra di posizione, in cui uno dei due era ormai in surplace e incapace di uscire dal giogo dell’ideologia della lotta tra socialismo (inesistente) e capitalismo, dell’ideologia del soltanto presunto “internazionalismo proletario”.
Non siamo noi del blog ad esserci inventati la preminenza dello scontro di tipo internazionale (tra quegli Stati che non esistevano più per i fumosi chiacchieroni altermondialisti e moltitudinari); e di quello interno in pieno svolgimento tra dominanti, legati alle vecchie strutture economiche e sociali “preinnovative”, e dominanti di quelle fortemente “innovative” (della distruzione creatrice, intesa in senso ampio e non solo relativa alla sfera economica), dove i primi si legano servilmente agli Usa, mentre i secondi allargano i loro orizzonti ai nuovi poli e dunque alla guerra di movimento. A noi non piacciono affatto i dominanti, siamo ancora attratti dall’idea che si riaffermeranno nuovi scontri in verticale. Non siamo per nulla convinti che tutto si giochi solo negli spazi (orizzontali) della “geopolitica”. Siamo però consci che la fase attuale è questa, non quella ancora pensata con schemi obsoleti da “vecchi ossi” (ormai rosi dal tempo) che si definiscono, per di più, di sinistra (magari “estrema”; estrema solo nella sua idiozia). Bisogna passare per una fase di guerra di movimento tra poli, che definiamo momentaneamente (e senza alcuna intenzione di cristallizzare il pensiero in tale schema) capitalistici; ma non un capitalismo, bensì alcuni capitalismi.
Attraverso tale tipo di guerra si riconfigureranno anche le “strutture” sociali nei vari capitalismi, e sarà allora possibile avvicinarsi, con nuovi orientamenti di pensiero, alla teoria e prassi di altre lotte combattute in verticale. Oggi, è proprio per colpa dei “vecchi ossi” sopra citati che è impossibile prevedere adeguatamente tali nuove lotte, non meramente interne alla riproduzione capitalistica, come sono tutte quelle odierne. Il primo compito è l’eliminazione di questi ritardati, la loro sparizione perfino nel retropensiero dei più giovani. Per il momento, è più utile la discussione con i geopolitici; non perché siamo convinti in assoluto che hanno ragione ma perché, per un’intera fase storica (non per pochi anni), sarà più energica e produttiva di effetti eclatanti la guerra di movimento tra poli, con i suoi effetti su quella interna tra dominanti nei diversi paesi facenti parte dell’area di influenza di ognuno dei poli in questione. Nessun dialogo quindi, e mai più, con i “vecchi ossi”; che crepino presto, questo il migliore augurio per le nuove generazioni!

Fonte: “Ripensare Marx”

Brasile e Francia siglano partnership militare

$
0
0

L ‘accordo sul Rafale è stato annunciato come parte di un più ampio piano di cooperazione militare, raggiunto dopo due giorni di colloqui tra il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il presidente francese Nicolas Sarkozy. Funzionari hanno detto che i dettagli della transazione sugli aerei saranno resi pubblici in seguito, ma Lula ha indicato ai giornalisti che l’offerta francese consente il trasferimento di tecnologia, rendendo l’affare Rafale più attraente rispetto alle proposte concorrenti dell’F/A-18 Super Hornet statunitense e dello svedese Saab GripenNG. Sarkozy ha anche accettato di collaborare con il Brasile sullo sviluppo dell’aereo da trasporto KC-390, su cui l’impresa aeronautica brasiliana Embraer sta lavorando, per sostituire il trasporto a turboelica degli USA, il C-130 Hercules, impiegato nella forza aerea brasiliana. La Francia ha accettato di acquistarne 10.

Dei quattro sottomarini diesel-elettrici Scorpene, nella lista della spesa del Brasile, uno sarà convertito in sottomarino a propulsione nucleare attacco. L’accordo comprende 50 elicotteri da trasporto francesi Eurocopter CE-725, che saranno costruiti su licenza presso gli impianti del Brasile, Helibras.

Alcuni funzionari hanno detto che il costo totale della transazione, incluse le infrastrutture connesse e i mezzi navali della Marina che accompagnano l’affare dei sottomarini, potrebbe superare i 17,1 miliardi dollari. I dettagli del finanziamento non sono stati rivelati, ma dei funzionari hanno detto che la maggior parte dei costi dovrebbe essere coperto da un consorzio europeo di banche.

E’ il consolidamento di una partnership strategica tra due popoli che hanno molto in comune“, ha detto il presidente Lula, secondo cui la collaborazione non è solo commerciale. “Vogliamo pensare insieme, creare insieme, costruire insieme e, se possibile, vendere insieme“, ha detto. Sarkozy ha detto: “Vogliamo sviluppare una grande industria aerospaziale, per costruire e vendere aerei insieme” aggiungendo, “questo accordo è per il Rafale A…, ma ora siamo in grado di parlare del prossimo Rafale“. Un comunicato congiunto ha detto che Lula e Sarkozy hanno deciso che “il Brasile e la Francia saranno anche partner strategici nel settore del trasporto aereo, in cui entrambi i paesi hanno vantaggi importanti e complementari“.

L’acquisto di armi del Brasile è parte di una strategia di difesa nazionale, annunciata da Lula, che prevede il rinnovo delle infrastrutture ed equipaggiamenti militari. Nonostante un rallentamento economico derivante dalla recessione mondiale, il Brasile, quest’anno, ha alzato il suo bilancio della difesa da 5,6 miliardi dollari dai 3,6 miliardi dollari dello scorso anno.

Il ministro della Difesa, Nelson Jobim, ha indicato che la revisione militare riguarda la spesa sulle principali voci, tra cui aerei da combattimento, elicotteri, carri armati e autoblindo. Lula ha detto che il Brasile starebbe cercando di spendere almeno il 50 per cento in più tra il 2009 e il 2010.

L’annuncio di Lula ha portato ad una lotta tra i fornitori, ansiosi di assicurarsi una quota del mercato. Dalle statistiche della Defense and Security Organization export del governo britannico, emerge che tre dei primi cinque fornitori militari del Brasile, tra il 1998 e il 2007, sono i più importanti operatori europei nel settore difesa e sicurezza. La Spagna finora è in cima alla lista, con 977 milioni dollari di forniture, la Francia si colloca al terzo con 505 milioni dollari e la Gran Bretagna è al quinto posto con 300 milioni. Israele è il secondo della lista, con 540 milioni dollari, e gli Stati Uniti, sorprendentemente per alcuni analisti, sono quarti con 425 milioni. La nuova offerta di Parigi farà della Francia la capolista.

Fonti del settore, a luglio, hanno riferito che il Brasile era nel processo di acquisizione di 250 carri armati Leopard tedeschi, per dispiegarli lungo i suoi confini. Il Brasile condivide quasi 10.000 chilometri di frontiere terrestri e d’acqua con 10 paesi. Il graduale declino della sua industria nazionale della difesa ha inferto un duro colpo alle capacità dei militari. Il Brasile, durante le dittature militari negli anni 1970 e 1980, ha costruito una formidabile industria della difesa che è caduta in disgrazia quando la democrazia è tornata nel paese. Ora Lula vuole rilanciare la capacità produttiva della difesa del Brasile.

Il riarmo militare e l’affermazione della capacità nucleare del Brasile, sono visti dagli analisti come parte dell’iniziativa di Lula per stabilire una valida superiorità del paese sull’ America Latina. Una campagna diplomatica è in corso per far ottenere al Brasile un seggio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fonte: http://www.upi.com/ – 8 settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com


“US uses Europe as a bridge-head to attack Eurasia”– Interview with Tiberio Graziani

$
0
0

(Russia Today). The world financial crisis is not just about money though it started on Wall Street, says Tiberio Graziani, editor of Eurasia magazine on geopolitical studies and author of many books on geopolitics. RT spoke to Graziani in Rome.

RT: Governments worldwide are adopting protectionist measures. It affects all levels of society. In Italy we are seeing more support towards right wing anti-immigration policies. How can Italy and how can we all outlive the world financial crisis?

Tiberio Graziani: First of all, we should reflect on the motives of this financial crunch, which also affected production at an industrial level, first, in the United States and then in the entire Western system, constituted by a famous triumvirate: the US, Western Europe and Japan. This crisis has affected the whole world market. As for Italy, the effects have begun to show slightly later and, in my view, will become more pronounced during 2009 and in 2010.

Because the Italian economy is mainly based on small and medium enterprises, there’s no high concentration of industry, and therefore Italy tends to have more flexibility necessary to face and contain the crisis. Anyway, the crisis will be very deep.

We’ll be able to overcome a financial crisis if we operate in a continental geo-economic context. It means that we should look for recipes in which the economies of the emergent countries such as Russia, China and India are going to have their part. The crisis cannot be resolved only through national recipes or recipes created in Brussels by the European Union only.

RT: Lets talk about the recent gas crisis, Italy has been affected perhaps not as much as the Balkans and Eastern Europe, but still, it was among those taken hostage by it. The truth has been concealed. What is the real origin of the dispute?

T.G.: The origin of the gas dispute between Kiev and Moscow is actually a reflection of NATO enlargement in Eastern Europe as well as EU expansion into Eastern European countries. These two coinciding enlargements were seen in Moscow as a kind of aggression in its close neighbourhood.

This kind of enlargement began in 1989 after the fall of the Berlin Wall. From that moment the United States had decided to manage the whole planet. They chose Western Europe as a starting point to move in the direction of Russia and Central Asia, as it’s known that Central Asia has huge resources of gas and oil.

If we analyze the so-called ‘Orange Revolution’, we’ll realize that behind these achievements of the so-called civil society of Ukraine were interests coming from across the Atlantic, from Washington. We mustn’t also forget about the influence of so called philanthropists such as George Soros not just in the destabilization of Ukraine, but also in the former Yugoslavian republics.

When Ukraine abandoned or tried to abandon its natural geo-political context, that of a privileged partner of Moscow, it’s evident that when it came to gas, Moscow tried to set market prices for it as Ukraine was no longer a privileged client but a customer like any other. Obviously gas prices went up affecting Europe because Ukraine’s leaders lack sovereignty and are driven by other Western interests. Instead of looking for an economic agreement, as is usually done between sovereign countries, Ukraine aggravated the situation by siphoning off gas designated for European nations.

This true reason was neglected by the Eastern European press, including the Italian press. In the gas dispute, the majority of Italian journalists focused their attention not on its real causes, but on the deionization of the Russian government, saying that it had used geo-policy as a weapon in the gas issue, but President Medvedev and Prime Minister Putin were only applying market prices to normal economic transactions concerning gas.

RT: Ukraine is on the verge of default. Russia cannot possibly count on Ukraine paying market prices next year.

T.G.: I believe it’s possible to find an economic agreement. Moscow and Kiev can also negotiate possible discounts. I’d like to stress again that it’s not only a problem of economic transaction, export and import. It’s a geopolitical issue. It’s evident, if Ukraine chooses to set up a Western camp with Washington’s leadership, that’ll affect not only gas, but also other economic issues as well. Hence, I believe, it’ll be possible to find an economic solution, but resistance comes from Kiev, because it depends on Washington’s interests.

RT: While we’re focusing on Washington let’s talk about US military bases on Italian soil, what is public opinion here?

T.G.: Most people are aware of the presence of military bases but they aren’t politically conscious. Thus, in the case of the enlargement of a military base in Vicenza, in the north of the country, the main argument was environmental. And the main motive was hidden as, in reality; this enlargement serves the US armed forces, as they’d have the opportunity of contacting a nearby military base, located in Serbia, which also depends on Washington. In future it’ll be possible to operate in border countries and in the Middle East, such states as Syria and Iran and to some extent Russia. The Yugoslavian nation, Serbia in this case, wasn’t chosen by chance, but because it has some cultural and ethnic similarities to Moscow.

RT: The gas crisis has strained Russia-EU relations, many EU states are already looking for alternative suppliers. Does Russia need to worry?

T.G.: No, I don’t think Russia should worry about it. I think every country should look for the best opportunities in the market concerning energy supplies and be self-sufficient. In a wider geo-political context of Eurasia I believe relations between Russia and Europe, between Russia and Italy should be based also on economic interests: exchanging new high technology, military technology, energy resources and, obviously, cultural relations.

I believe cultural relations between the European Union and Italy and, naturally, the Russian Federation should be strengthened.

After WWII, more than sixty years ago, these relations declined because they were undermined by the intellectual class of Europe which supported the Westernization or Americanization of European culture. If we compare European and Italian literature of recent years with the 1930s we’ll notice that many Italian writers use more incorrect language with many borrowed English words. It is a result of cultural colonization which Washington has been carrying out since WWII until today. It’s interesting to note that this tendency is also present in the countries of the former Soviet block.

RT: What is the general line of Italy towards Russia? Can Russians count on Italy to play a part in improving Russia-EU relations?

T.G.: Sure, naturally Italy along with other countries of the European Union is a potential partner of Russia. But to be a real, not just potential, partner Italy should have more liberty and total political sovereignty, which it doesn’t have at present.

I’d like to reiterate that in Italy there are more than 100 military sites depending on the US, which are part of the project of American influence and occupation of the entire European peninsula. Under such conditions there are certain limits for Italy and other countries to express their own interests in their politics and their economy. But it should also be acknowledged that in recent years the economic policy of President Putin before President Medvedev today has laid the ground for Italy to become a true partner of Moscow not only economically but also in politics and, in my view, in a military field as well. Italy is located in the Mediterranean area, and occupies an important strategic position. Besides, Italy’s central position is also vital at a geopolitical level. And it would be correct if it uses it for Eurasian integration.

I believe relations between Italy and Russia are improving, as Italian entrepreneurs are moving in the right direction, because they overcome limitations established by a political power which comes directly from Washington and London.

RT: You’re very critical of Washington, you portray the US almost as an imperial nation almost, but we hardly live in a unilateral world anymore.

T.G.: I’m very critical of Washington because it has included Europe in its own geopolitical space and looks on Europe only as a bridge-head to attack the whole Eurasian ground. It makes me critical, but, of course, the significance of the US should always be taken into account. And the US should also realize that its era as a superpower is over. At present, in the 21st century, on a geo-political level we have a multipolar system with Russia, China, India, the United States and some states in South America, which are also creating their own geo-political entity, I refer to Brazil, Argentina, Chile and Venezuela, and, obviously, Bolivia too. In particular, major liberties which these South-American countries enjoy can allow the European Union to leave the Western camp ruled by the US and Great Britain.

RT: You travel all over Europe’s hotspots and breakaway regions. You were monitoring the election in Transdniester. There is an island off the coast of Sardinia in Italy that’s just declared independence, they say inspired by Abkhazia and South Ossetia. Is there one universal formula on how to deal with separatism?

T.G.: These issues are absolutely different. In Sardinia there is a political movement of separatism, but this is a movement which a few years ago to those people who are in the government of Italy now. As for Transdniester, it’s necessary to view its situation from the geo-strategic point of view. The countries of Moldavia and Romania feel the weight of the United States and NATO. Transdniester is one of the so called frozen conflicts. I think Transdniester’s independence would be interesting, because in this case it’ll become an area the United States won’t be able to enter. It’ll be a territory of liberty from the Eurasian point of view, because Transdniester will have its sovereignty. I don’t analyze this republic judging it by its actual government. I only analyze its geo-strategic and geo-political situation. Thus, Transdniester is a republic, and it means that on its small territory there are no NATO bases.

Il Trentino abbraccia Beslan

$
0
0

Il legame che unisce la comunità di Beslan con il Trentino è diventato assai profondo. Sin dal giorno successivo alle drammatiche vicende della scuola n. 1 della cittadina osseta l’Associazione trentina “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus” [www.aiutateciasalvareibambini.org], operante dal 2001 nella Federazione Russa in favore dell’infanzia ammalata ed abbandonata, in accordo con la Provincia Autonoma di Trento, invitava un gruppo di sessantatre cittadini ex ostaggio della scuola di Beslan per un periodo di riabilitazione e svago a Trento. Ciò grazie al fatto che “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus” dal 2001 è presente a Mosca, presso la Clinica pediatrica RDKB dove molti bambini feriti a Beslan erano stati ricoverati successivamente ai tragici eventi.

Dalla metà di novembre 2004 alla metà di gennaio 2005 viene gestito, grazie al finanziamento della Provincia di Trento, il primo progetto italiano ed uno dei primi al mondo di “Accoglienza dei bambini di Beslan” volta ad offrire ospitalità, cure riabilitative e svago.

In questo progetto un ruolo vitale è stato svolto dall’equipe di Psicologhe dell’Emergenza dell’Università di Padova, coordinata dalla compianta prof.ssa Vanna Axia, che hanno aiutato l’Associazione a capire e gestire le drammatiche dinamiche psicologiche degli ospiti di Beslan che a poche settimane dalla liberazione portavano ancora i segni del profondo trauma e del malessere psicologico unito ai complessi dovuti alla diversità culturale e del trasferimento in un paese sin a quel momento a loro sconosciuto.

Alla fine del periodo, grazie soprattutto al grande lavoro delle Psicologhe, la nostra Associazione decise di proseguire l’opera in Ossezia Settentrionale – Alania. Nacque il secondo progetto “Bambini di Beslan”: proseguire l’aiuto psicologico” che ci ha visto presenti dal 2005 al 2009 a Beslan operare con le istituzioni locali, le insegnanti della scuola e le psicologhe locali sia nel comprendere lo stato dei bambini sia per aiutare le insegnanti e le psicologhe locali nel proprio lavoro di aiuto.

In questi quattro anni la nostra Associazione ha intessuto relazioni positive e durature con la popolazione locale e le Istituzioni della Repubblica, del Rajon e della città, ed ha aiutato ad uscire dalla solitudine, dalla rabbia, dal dolore senza speranza fornendo le psicologhe locali, le insegnanti, le famiglie ed i bambini di Beslan di strumenti in grado di comprendere e gestire con fiducia le pesanti dinamiche psicofisiche derivate dal devastante evento.

Lo abbiamo fatto con un assoluto rispetto per l’antichissima cultura osseta, così distante dalla nostra, riuscendo a farci ascoltare, capire e rispettare valorizzando il lavoro di tutti quelli che hanno contribuito alla buona riuscita del progetto.

Ma per il forte legame che ci lega con il popolo osseto la nostra Associazione non poteva non organizzare una commemorazione nel quinto anniversario della tragedia di Beslan, non dimenticando altresì quella degli osseti del sud colpiti dal tentativo di genocidio dell’agosto del 2008.

Per questo due sono stati i momenti del ricordo il 3 settembre 2009. Il primo, ufficiale, nella città di Trento dove presso la Sala di rappresentanza della Provincia Autonoma si è tenuta una breve ma commossa commemorazione alla presenza dell’Assessore alla Solidarietà internazionale Lia Giovanazzi Beltrami ed il Presidente dell’Associazione. Due le evidenze sottolineate: in primo luogo che anche una tragedia come questa soggiace alla legge spietata dei media e rischia quindi di venire dimenticata, se non ne coltiviamo assiduamente la memoria; la seconda, che la solidarietà trentina oggi è l’unica realtà esterna alla Federazione russa a continuare a cooperare con Beslan, stando al fianco dei bambini sopravvissuti al massacro e alle loro famiglie.

La sera dello stesso giorno una seconda cerimonia suggestiva, alla presenza del Sindaco della Città della Pace di Rovereto, prof. Guglielmo Valduga, del Presidente dell’Associazione, del Reggente della Fondazione Campana dei Caduti e del Primo Console del Consolato della Federazione Russa in Milano Aleksandr Ju. Grachev si è svolta presso la Campana dei caduti di Rovereto, da sempre luogo della memoria e della solidarietà. Particolarmente importanti sono state le parole del Sindaco Valduga che, ringraziando l’Associazione per il ruolo e l’importante attività svolta in favore dei bambini di Beslan ha dichiarato la volontà di instaurare con la cittadina osseta un rapporto ancora più stretto ed istituzionale fra le due cittadine. La manifestazione si è conclusa con una breve cerimonia funebre celebrata da Padre Ioan, in rappresentanza del Patriarcato di Mosca e con un breve ricordo di Don Sebastiani, delegato del vescovo di Trento per l’Ecumenismo.

La Campana dei Caduti ha suggellato la cerimonia con cento rintocchi al mondo a ricordo perenne dei bambini di Beslan e delle sofferenze del popolo osseto tutto, vittime innocenti della follia umana.

La mano che per primi porgemmo loro ci pone al centro della loro memoria. Beslan si ricorda di noi ogni giorno. Noi non lasceremo solo il popolo osseto e la comunità di Beslan.

Eterna Memoria, Вечная память, æнустæм рох нæ уызыстут!

* Ennio Bordato, cittadino onorario della Città di Beslan è presidente di “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus”

www.aiutateciasalvareibambini.org

Recensione a Martino Conserva/Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv

$
0
0

Martino Conserva / Vadim Levant
Lev Nikolaevic Gumilëv
Quaderni di geopolitica
diretti da Tiberio Graziani
Edizioni all’insegna del Veltro

Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia. Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici.

Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica.

A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa.

Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia – o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland).

Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici – ce ne sono tanti! – quanto amici, questo è il supremo valore nella vita».

Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti.

Daniele Scalea (“Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, 1/2006)

Sullo stesso argomento, si veda anche Claudio Mutti, nota introduttiva a Etnogenesi ed etnosfera di Lev GumilÎv, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, 2, 2005, pp. 47-48.

“Spazi metropolitani”: una strategia verso una “governanza mondiale”

$
0
0

Le città e le comunità locali sono una sfida inevitabile per la strategia dei mondialisti. Essendo il loro obiettivo arrivare ad una gestione mondiale, progettano di scomporre a tutti i livelli gli stati nazione pretendendo di rafforzare i comuni (istituzioni locali). Così, costruire una vera maglia sul campo permette l’instaurazione di nuove strutture al livello più basso (il locale) che si inseriranno in organismi politici regionali, quindi continentali, infine per arrivare ad un “saltatore” unico, un governo mondiale (il globale). Quest’architettura si prefigge di raggirare l’autorità politica degli stati. È questa la sfida dell’istituto “città e governi locali collegati” – CGLU- (in inglese: United Cities and local Governments – UCLG)

In realtà, la CGLU deriva dalla fusione di tre istituti mondialisti che trattano di problemi locali: l’Unione internazionale degli enti locali (iniziale inglese IULA), la Federazione mondiale delle città unite (FMCU) e Métropolis. La IULA è la più vecchia organizzazione mondiale di enti locali poiché la sua fondazione risale al 1913. La missione della IULA consiste nel favorire il rafforzamento delle istituzioni locali e la rappresentazione dei governi locali nei settori dell’urbanizzazione. La FMCU, creata nel 1957, riunisce più di 1400 città in più di 80 paesi per sviluppare reti tematiche e programmi di cooperazione su argomenti come l’ambiente, la gestione urbana o anche il sostegno portato ad azioni internazionali. Infine, Métropolis, creato nel 1985, raccoglie più di cento città con più di uno milione di abitanti. Quest’istituto è incaricato di rispondere ai problemi specifici delle grandi zone metropolitane.

“L’autonomia” locale controllata da Bruxelles

Pur durando, questi tre organismi hanno generato CGLU nel 2004 a Parigi e la cui sede è a Barcellona. Quest’istituto planetario diretto dal sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, corona una moltitudine di suddivisioni. Nel caso europeo, una vera organizzazione piramidale che si basa sulla carta europea dell’autonomia locale elaborata nel 1981 dal relatore tedesco Galette disciplina tutto il vecchio continente. Questa carta si ispira al modello politico tedesco. Così, ogni paese europeo è dotato di un istituto incaricato degli affari locali che trattano sempre più con le istanze sovrannazionali di Bruxelles a spese dell’autorità nazionale. Possiamo citare il caso francese (AFCCRE: Associazione francese del consiglio dei comuni e regioni d’Europa) o il caso svizzero (ASCCRE: Associazione svizzera per il consiglio dei comuni e regioni d’Europa). Questi vari istituti sono riuniti nell’ambito di un’istanza europea il Consiglio dei comuni e regioni dell’Europa (CCRRE creato nel 1951) e diretto nel 2009 dal sindaco di Vienna, Michael Häupl. Durante gli anni novanta, il suo presidente si chiamava Valéry Giscard di Estaing, il padre del Trattato che stabilisce una costituzione per l’Europa che è stata rifiutata nel 2005 dai cittadini francesi ed olandesi e che è stato, in seguito a ciò, sostituito dal Trattato di Lisbona.

Dictat “di un istituto planetario”

Il CCRRE costituisce soltanto una sezione di CGLU. Troviamo l’equivalente europeo su tutti i continenti. In realtà, quest’istituto planetario è costituito da sette sezioni regionali: CCRRE (sede a Bruxelles), Africa (senza sede ufficiale), Asia-Pacifico (sede a Giacarta), Euro-Asia (sede a Kazan), America latina (sede a Quito), Medio Oriente e Asia dell’Ovest (sede a Istanbul) e America settentrionale (sede a Washington). Affinché tutta questa meccanica funzioni allo stesso ritmo, una carta mondiale dell’autonomia locale è stata elaborata. Ispirandosi alla carta europea, questo documento, incaricato di coordinare tutte le Comunità locali mondiali, hanno assunto forma grazie all’azione di Heinrich Hoffschulte, presidente di un gruppo di lavoro nel quadro dell’ONU. In realtà, la collusione tra le istanze dell’Onu ed europee è stata totale poiché Heinrich Hoffschulte è stato anche il vicepresidente del CCRRE negli anni novanta sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing.

Abbiamo cercato di presentare “lo scheletro” della gestione locale dal più basso al più alto livello. Una vera linea di condotta comune deve disciplinare tutta questa struttura immensa a spese degli Stati la cui esistenza non è più necessaria. Tutta quest’organizzazione accompagna le confusioni politico-finanziarie in corso in attesa di instaurare una gestione mondiale dotata di un sistema monetario, bancario, giuridico ecc. in via d’unificazione. Il lavoro di Aldous Huxley, Il migliore dei mondi, è sul punto di concretizzarsi.

Articolo Tradotto da Daniele C. (Risorsetiche)

Fonte: Voltairenet.org/

Pierre Hillard, autore francese, ha pubblicato, tra l’altro:
- La Décomposition des nations européennes, sous-titre : De l’union euro-Atlantique à l’État mondial. Géopolitique cachée de la constitution européenne, préface d’ Edouard Husson, Éditions François-Xavier de Guibert, 2005 ;
- La Marche irrésistible du nouvel ordre mondial, sous-titre : Destination Babel, Éditions François-Xavier de Guibert, 2007 ;
- La Fondation Bertelsmann et la gouvernance mondiale, Éditions François-Xavier de Guibert, 9 avril 2009.

Il nazionalismo paneurasiatico

$
0
0

Prima della Rivoluzione, la Russia era un paese in cui il padrone ufficiale di tutto il territorio dello Stato era il popolo russo. Inoltre, non si faceva alcuna distinzione di principio tra le regioni a popolazione propriamente russa e quella con popolazione “allogena”: il popolo russo era proprietario e signore delle une e delle altre, e gli “allogeni” erano semplicemente membri della famiglia.

La situazione è cambiata con la Rivoluzione. Nel processo di decomposizione anarchica proprio del periodo rivoluzionario, la Russia avrebbe rischiato di disintegrarsi, se il popolo russo non avesse salvato l’unità dello Stato sacrificando la sua posizione di padrone unico. Così, la spietata logica della storia ha modificato la relazione tra il popolo russo e gli allogeni. I popoli non russi dell’ex Impero russo hanno acquisito una posizione che prima non avevano. Il popolo russo ora è soltanto uno dei popoli, con pari diritti, che occupano il territorio. Certo, poiché supera per numero tutte le altre popolazioni e possiede una lunga tradizione del sistema statale, esso svolge naturalmente il primo ruolo tra i popoli dello Stato. Tuttavia, non è più il padrone di casa, ma soltanto il primo tra i pari. Tale cambiamento sopraggiunto nella situazione del popolo russo deve essere tenuto in conto da tutti coloro che riflettono sull’avvenire della nostra patria. Non si deve supporre che la nuova posizione del popolo russo tra gli altri popoli dell’ex Impero e dell’odierna URSS, posizione che si è creata con la Rivoluzione, sia transitoria e provvisoria. I diritti di cui dispongono ormai i popoli non russi dell’URSS non possono essere ritirati. Il tempo consolida tale situazione. Ogni tentativo di riprendere o di ridurre questi diritti provocherebbe una resistenza accanita. Se un giorno il popolo russo si azzardasse a riprendersi o ridurre questi diritti con la forza, esso condannerebbe se stesso a una lunga e dolorosa lotta con tutti questi popoli, e a uno stato di guerra aperta o larvata con loro. Non c’è alcun dubbio che tale guerra sarebbe molto opportuna per i nemici della Russia, e che, nella loro lotta contro le pretese del popolo russo, i popoli dell’ex Impero e della URSS attuale, divenuti autonomi, troverebbero sostegno e alleati tra le potenze straniere. Inoltre, dal punto di vista morale, la posizione del popolo russo sarebbe molto svantaggiosa, quasi indifendibile. Questa lotta per riprendere i diritti degli altri popoli sarebbe impopolare in seno anche allo stesso popolo russo, poiché esso si priverebbe di ogni fondamento morale. Quale che sia l’esito di questa lotta, esso significherebbe per il popolo russo la perdita del suo senso statale a profitto di un’autoaffermazione sciovinistica, che comunque sarebbe solo il segno premonitore della disintegrazione dello Stato.

È fuori di questione, dunque, riprendere o ridurre i diritti acquisiti dai differenti popoli dell’ex Impero russo con la Rivoluzione. La Russia in cui il solo padrone di tutta l’estensione del territorio statale era il popolo russo appartiene ora al passato. Ormai, il popolo russo è e sarà soltanto uno dei popoli di pari diritti che occupano il territorio dello Stato e che prendono parte alla sua direzione.

Il cambiamento del ruolo del popolo russo nello Stato pone una serie di problemi alla coscienza nazionale russa. Prima il nazionalista russo più estremista era, malgrado tutto, un patriota. Ora, lo Stato nel quale vive il popolo russo non è più di esclusiva proprietà di quest’ultimo, e il nazionalismo russo esclusivo è un fattore di squilibrio per le componenti dello Stato, sicché finisce per distruggere la sua unità. Un eccessivo orgoglio nazionale russo può sollevare contro il popolo russo tutti gli altri popoli dello Stato, e isolarlo. Se, prima, anche un estremo orgoglio nazionale russo era un fattore sul quale lo Stato poteva appoggiarsi, ora questo orgoglio, se raggiunge un certo limite, può rivelarsi un fattore antistatale, che, lungi dall’edificare l’unità dello Stato, la fa esplodere. Visto il ruolo che ormai il popolo russo svolge nello Stato, il nazionalismo russo estremista può portare al separatismo russo, ciò che prima era impensabile. Un nazionalista estremista, che desideri ad ogni costo che il popolo russo sia il solo padrone del suo Stato e che questo Stato sia di proprietà del solo popolo russo, deve accettare, nelle attuali circostanze, che tutte le “marche” si distacchino dalla sua Russia, cioè che le frontiere di questa “Russia” coincidano approssimativamente con quelle della compatta popolazione grande-russa della Russia al di qua degli Urali: questo sogno nazionalista radicale è ristabilito soltanto nei ristretti limiti geografici. Il nazionalista russo estremista è così, nel momento attuale, un separatista, esattamente come gli altri separatisti: ucraini, georgiani, azerbaigiani, ecc.

*

Se, precedentemente, il fattore fondamentale che saldava l‘Impero russo in una totalità era l’appartenenza di tutto il territorio ad un solo padrone, il popolo russo diretto dal suo zar russo, adesso questo fattore è stato annullato. Si pone quindi la questione di sapere quale altro fattore possa ormai saldare tutte le parti di questo Stato in una totalità.

La Rivoluzione ha voluto fare della realizzazione di un certo ideale sociale il fattore unificante. L’URSS non è soltanto un raggruppamento di repubbliche, è un raggruppamento di repubbliche socialiste, che cercano di realizzare lo stesso sistema sociale, ed è precisamente questa comunanza di ideali che riunisce queste repubbliche in una totalità.

La comunanza dell’ideale sociale e, per conseguenza, della direzione verso cui tende la volontà statale di tutte le parti dell’URSS è, certo, un potente fattore di unificazione. Ed anche se, col tempo, il carattere di questo ideale cambierà, il principio stesso della necessaria presenza di un ideale comune di giustizia sociale e di orientamento comune verso questo ideale deve restare alla base del sistema statale dei popoli e delle regioni che si trovano ora riuniti nell’URSS. Ci si può tuttavia chiedere se questo fattore sia sufficiente a riunire popoli così differenti in uno stesso Stato. In realtà, il fatto che la Repubblica dell’Uzbekistan o quella della Bielorussia siano tutte e due guidate nella loro politica interna dall’aspirazione a raggiungere lo stesso ideale sociale non implica affatto che esse debbano essere riunite all’ombra dello stesso Stato. Né impedisce anche che queste repubbliche siano ostili tra loro o che si facciano la guerra. È chiaro che il comune ideale sociale non basta, e che qualcos’altro deve controbilanciare le tendenze separatiste nazionaliste delle differenti parti dell’URSS.

Nell’URSS contemporanea, l’antidoto contro il nazionalismo e il separatismo è l’odio di classe e la coscienza di solidarietà che ha il proletariato di fronte al pericolo che lo minaccia permanentemente. In ogni popolo che costituisce l’URSS soltanto i proletari sono riconosciuti come cittadini a pieno diritto, e, infatti, l’URSS è composta non da popoli, bensì dai proletari di questi popoli. Avendo conquistato il potere ed esercitando la sua dittatura, il proletariato dei diversi popoli dell’URSS si sente costantemente minacciato dai suoi nemici, tanto da quelli interni (il socialismo non è ancora instaurato e, durante l’attuale periodo di “transizione”, bisogna ammettere l’esistenza dei capitalisti e dei borghesi all’interno della stessa URSS) quanto da quelli esterni (cioè il resto del mondo che si trova completamente nelle mani del capitalismo mondiale e dell’imperialismo). E, per mantenere il loro potere contro le macchinazioni dei loro nemici, i proletari di tutti i popoli dell’URSS non hanno altra scelta che di unirsi in un solo Stato. Tale maniera di dare un senso all’esistenza dell’URSS permette al governo sovietico di combattere il separatismo: i separatisti cercano di distruggere l’unità statale dell’URSS, ma questa unità è indispensabile al proletariato per difendere il proprio potere; ne consegue che i separatisti sono i nemici del proletariato. Per la stessa ragione è possibile e necessario opporsi al nazionalismo, poiché quest’ultimo può essere facilmente interpretato come separatismo latente. Inoltre, secondo la dottrina marxista, il proletariato è sprovvisto di istinti nazionalisti, che sono soltanto attributi della borghesia ed il prodotto dell’ordine borghese. La lotta contro il nazionalismo si realizza già nel fatto stesso di spostare l’attenzione del popolo dalle preoccupazioni nazionali a quelle sociali. La coscienza dell’unità nazionale, premessa di ogni nazionalismo, è distrutta dall’intensificazione dell’odio di classe, mentre la maggioranza delle tradizioni nazionali è denigrata per i suoi legami con l’ordine borghese, con la cultura aristocratica o i “pregiudizi religiosi”. D’altra parte, l’orgoglio di ogni popolo è solleticato in una certa misura dal fatto che, entro i confini del territorio da esso occupato, la sua lingua è dichiarata lingua ufficiale, le funzioni amministrative ed altre sono svolte da persone del suo ambito, e che, molto spesso, la stessa regione riceve il nome del popolo che l’abita.

Si può così dire che il fattore che riunisce tutte le parti dell’URSS in una totalità statale è, una volta ancora, la presenza di un solo padrone ufficialmente riconosciuto per tutto il territorio dello Stato; ma precedentemente questo padrone era il popolo russo governato dal suo zar, mentre ora è il proletariato di tutti i popoli dell’URSS, governato dal partito comunista.

*

I difetti della presente soluzione del problema sono evidenti. Senza parlare del fatto che la divisione in proletariato e borghesia è intollerabile per numerosi popoli dell’URSS, o priva di senso e artificiale, questa soluzione è essenzialmente provvisoria. Infatti, l’unione statale del popolo e del paese dove il potere è stato preso dal proletariato è opportuna unicamente allo stadio attuale, quello della lotta del proletariato contro i suoi nemici. E il proletariato stesso, in quanto classe oppressa, è, secondo Marx, un fenomeno transitorio, destinato a sparire. Si può dire altrettanto della lotta di classe. In queste condizioni, l’unità dello Stato riposa su una base non permanente, ma transitoria. Ciò produce una situazione assurda, e genera fenomeni anormali. Per giustificare la propria esistenza, il governo centrale deve gonfiare artificialmente i pericoli che minacciano il proletariato, esso stesso deve creare degli obiettivi di odio di classe, prendendo per bersaglio la nuova borghesia, per eccitare il proletariato contro essa, ecc. In breve, esso deve costantemente mantenere nel proletariato l’idea che la sua posizione di unico padrone è estremamente fragile.

Lo scopo di questo articolo non è di fare la critica del partito comunista in quanto tale. Si esamina qui l’idea della dittatura del proletariato sotto uno solo dei suoi aspetti, quello di fattore unificante tutte le popolazioni dell’URSS in una totalità statale e contrastante i movimenti nazionali e separatisti. Ora, sotto questo aspetto, l’idea della dittatura del proletariato, quale che sia l’efficacia avuta finora, non può rappresentare una soluzione stabile e permanente. Il nazionalismo dei differenti popoli dell’URSS si sviluppa man mano che questi popoli si abituano al loro nuovo statuto. Lo sviluppo dell’istruzione e dell’alfabetizzazione nei differenti linguaggi e il fatto che le funzioni amministrative ed altre siano svolte da autoctoni intensificano le distinzioni nazionali tra le regioni, e fanno nascere presso gli intellettuali locali un timore geloso degli “elementi venuti dall’esterno” e il desiderio di rinforzare la propria posizione. Ora, nello stesso tempo, le barriere di classe all’interno di ogni popolo dell’URSS tendono a cancellarsi e le contraddizioni di classe a offuscarsi, il che crea le condizioni più favorevoli per l’emergere del nazionalismo a tendenza separatista per ogni popolo dell’URSS. Contro ciò, l’idea della dittatura del proletariato è impotente. Il proletariato giunto al potere si trova a possedere, talvolta a un livello estremo, questi istinti nazionalisti che, secondo la dottrina comunista, dovrebbero essergli completamente estranei. E questo proletario al potere sente gli interessi del proletariato mondiale in minima parte, rispetto a quanto era stato previsto dalla dottrina comunista…

*

La soluzione odierna per l’unificazione statale delle parti dell’ex Impero russo deriva logicamente dal dogma marxista della natura di classe dello Stato e dal disprezzo, tipicamente marxista, del sostrato nazionale della nozione stessa di Stato. I partigiani di questo dogma non hanno altra scelta che rimpiazzare il predominio di un popolo con la dittatura di una classe, cioè di rimpiazzare il sostrato nazionale dello Stato con un sostrato di classe. Da questa sostituzione deriva tutto il resto. I comunisti sono così molto più coerenti dei democratici, che negano ogni sostrato nazionale unico dello stato russo, pretendendo una larga autonomia regionale o una federazione, senza dittatura di classe, senza comprendere che, in queste condizioni, l’esistenza dello Stato unico è impensabile.

Affinché le differenti parti dell’ex Impero russo seguitino a esistere come parti di uno stesso Stato, deve esistere un sostrato unico del sistema statale. Questo sostrato può essere nazionale (cioè etnico) o di classe. Il sostrato di classe può unificare soltanto temporaneamente le parti dell’ex Impero russo. Una unificazione stabile e permanente è dunque realizzabile soltanto sulla base di un sostrato nazionale (etnico). Prima della Rivoluzione, questo sostrato era il popolo russo. Ma non si può tornare ad una soluzione dove il popolo russo era il solo padrone di tutto il territorio dello Stato. Ed è anche chiaro che nessun altro popolo può svolgere questo ruolo. Ne consegue che il sostrato nazionale dello Stato che si chiamava precedentemente Impero russo e che ora si chiama URSS, può essere soltanto l’insieme dei popoli che abitano questo Stato, considerati come una nazione particolare, fatta di più popoli, e che, in quanto tale, possiede il suo nazionalismo.

Noi chiamiamo questa nazione eurasiatica, il suo territorio Eurasia, e il suo nazionalismo l’eurasiatismo.

*

Ogni nazionalismo deriva da una coscienza precisa della natura personale, individuale, di una unità etnica data, che gli fa affermare prima di tutto l’unità organica e l’unicità di questa entità etnica (popolo, gruppo di popoli o parti di un popolo). Ma in realtà non ci sono popoli perfettamente monolitici od omogenei; in ogni popolo, anche in quello più piccolo, ci sono molteplici suddivisioni etniche, che si differenziano spesso in maniera netta per la lingua, il tipo fisico, il carattere, i costumi, ecc. Parimenti, non ci sono in realtà popoli interamente specifici o isolati: ogni popolo fa sempre parte di un gruppo di popoli al quale è legato da alcuni tratti generali. Inoltre, uno stesso popolo fa parte di un gruppo di popoli per una serie di caratteristiche, e di un altro gruppo per un’altra serie. Si può dire che l’unità di un’entità etnica è inversamente proporzionale alla sua importanza numerica, mentre la sua specificità è ad essa direttamente proporzionale. Soltanto le più piccole entità etniche (per esempio una piccola sottodivisione tribale di un popolo) si avvicinano alla piena omogeneità e all’unità totale. E solo le grandi entità etniche (per esempio un gruppo di popoli) si avvicinano all’unità totale. Il nazionalismo si astrae così sempre in una certa misura dall’eterogeneità e dall’indistinzione della sua entità etnica, e, secondo il grado di questa astrazione, si potranno distinguere differenti tipi di nazionalismo.

In ogni nazionalismo, si trovano a volte degli elementi centralizzatori (affermazione dell’unità dell’entità etnica) e degli elementi separatisti (affermazione dell’unicità e della distintività). Poiché un’entità etnica è inclusa in un’altra (un popolo fa parte di un gruppo di popoli che comporta delle sottodivisioni tribali o regionali), possono esistere dei nazionalismi di ampiezza variabile, di scala variabile. Questi nazionalismi sono anche “inclusi” l’uno nell’altro come dei cerchi concentrici, in conformità con le entità etniche verso le quali essi sono orientati. È chiaro che gli elementi centralizzatori e separatisti di uno stesso nazionalismo non sono contraddittori, allorché questi due nazionalismi concentrici si escludono a vicenda: se una entità etnica A è “inclusa” nell’entità etnica B, l’elemento separatista del nazionalismo A e l’elemento centralizzatore del nazionalismo B si escludono reciprocamente

Affinché il nazionalismo di una entità etnica non degeneri in un puro separatismo, è necessario che esso si combini con quello di un’entità etnica più grande, inclusiva di questa entità. Per quanto concerne l’Eurasia, ciò vuol dire che il nazionalismo di ciascun popolo dell’Eurasia (l’odierna URSS) deve combinarsi con il nazionalismo pan-eurasiatico, cioè con l’eurasiatismo. Ogni cittadino dello stato eurasiatico deve aver coscienza non solo di appartenere a un dato popolo, o a un sottogruppo di un popolo, ma anche a un popolo che appartiene alla nazione eurasiatica. E la fierezza nazionale di questo cittadino deve trovare soddisfazione nell’uno e nell’altro dei suoi aspetti. È in funzione di questo che deve essere costruito il nazionalismo di ciascuno di questi popoli: il nazionalismo pan-eurasiatico deve nascere dall’allargamento del nazionalismo di ogni popolo dell’Eurasia, dalla fusione di tutti questi nazionalismi in un tutto.

*

Tra i popoli dell’Eurasia sono sempre esistite (e stabilite facilmente) relazioni fraterne, che suppongono l’esistenza di attrazioni e simpatie incoscienti (il caso inverso, cioè il caso della repulsione e dell’antipatia incoscienti tra due popoli dell’Eurasia sono molto rari). Certo, questi sentimenti incoscienti nono sono sufficienti. Occorre che la fraternità dei popoli dell’Eurasia divenga un fatto cosciente essenziale. Occorre che ogni popolo dell’Eurasia sia cosciente di se stesso innanzitutto come membro di questa fraternità, occupando un posto determinato in questa fraternità. E occorre che questa coscienza della sua appartenenza alla fraternità eurasiatica dei popoli divenga per ciascun popolo più forte e più chiara della coscienza della sua appartenenza a qualche altro gruppo di popoli. È certo che, per alcuni aspetti, ogni popolo dell’Eurasia può essere incluso in un altro gruppo di popoli non esclusivamente eurasiatico. Così, se si prende il criterio della lingua, i Russi fanno parte del gruppo dei popoli slavi, i Tatari, i Ciuvasci, i Ceremissi ed altri fanno parte del gruppo dei popoli chiamati “turanici”; se si prende quello della religione, i Tatari, i Baschiri, i Sarti, ecc. fanno parte del gruppo dei popoli musulmani[1]. Ma questi legami devono essere per loro meno forti di quelli che li uniscono alla famiglia eurasiatica: né il panslavismo per i Russi, né il panturanismo per i Turanici d’Eurasia, né il panislamismo per i musulmani d’Eurasia devono trovarsi in primo piano, bensì l’eurasiatismo. Tutti questi “panismi”, che intensificano le forze centrifughe dei nazionalismi etnici particolari, mettono al primo posto il legame unilaterale tra un popolo e altri popoli mediante un solo insieme di criteri; è per questo che sono incapaci di fare di questi popoli una vera nazione multietnica vivente: una individualità personale. Ma nella fraternità eurasiatica i popoli sono legati tra loro non da un insieme unilaterale di criteri, bensì dalla loro comunità di destino storico[2]. L’Eurasia è una totalità geografica, economica e storica. I destini dei popoli eurasiatici sono intrecciati, essi formano un immenso groviglio che non si può più disfare, al punto che il distacco di un popolo da questa unità non può avvenire se non con un atto di violenza contro la natura, che può apportare solo sofferenza. Non si può dire nulla di simile riguardo ai gruppi di popoli che formano la base del panslavismo, del panturanismo o del panislamismo. Nessuno di questi gruppi è unito a un tale grado dall’unità del destino storico dei popoli che ne fanno parte. Nessuno di questi “panismi” ha un valore pragmatico comparabile a quello del nazionalismo paneurasiatico. Questo nazionalismo non ha soltanto un valore pragmatico, esso è semplicemente una necessità vitale: soltanto il risveglio della coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica può dare alla Russia-Eurasia il sostrato etnico del sistema statale, senza il quale essa comincerà prima o poi a esplodere in pezzi, causando sofferenze e dolori infiniti a tutte le sue parti.

Affinché il nazionalismo paneurasiatico possa svolgere efficacemente il suo ruolo di fattore di unificazione dello Stato eurasiatico, bisogna rieducare la coscienza dei popoli dell’Eurasia. Certamente, si può dire che la vita stessa si incarica di questa rieducazione. Il solo fatto che tutti i popoli eurasiatici (e nessun altro popolo al mondo) da tanti anni sopportino insieme il regime comunista e tentino di sbarazzarsene crea tra loro migliaia di legami psicologici e storico-culturali nuovi e li costringe a vedere più chiaramente la comunità del loro destino storico. Ma questo non è tutto. È indispensabile che gli individui che hanno già pienamente e chiaramente coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica diffondano le loro convinzioni, ognuno nella nazione eurasiatica nella quale lavora. Ecco un terreno vergine da esplorare per i filosofi, i saggisti, i poeti, gli scrittori, i pittori, i musicisti e gli scienziati nei più diversi campi. Bisogna rivedere un certo numero di discipline scientifiche dal punto di vista dell’unità della nazione eurasiatica multietnica, e costruire nuovi sistemi scientifici per rimpiazzare quelli antichi, divenuti obsoleti. In particolare bisogna considerare in modo assolutamente nuovo la storia dei popoli dell’Eurasia, compresa quella del popolo russo…

In questo lavoro di rieducazione della coscienza nazionale, mirante a stabilire l’unità sinfonica (corale) della nazione multietnica d’Eurasia, è indubbio che il popolo russo deve fare lo sforzo maggiore. In primo luogo, esso dovrà più degli altri lottare contro gli antichi punti di vista, che hanno formato la coscienza nazionale russa al di fuori del contesto reale del mondo eurasiatico e che hanno isolato il passato del popolo russo dalla prospettiva generale della storia dell’Eurasia. In seguito, il popolo russo, che era prima della Rivoluzione il solo signore della Russia-Eurasia e che è ora il primo (per numero e per importanza) tra i popoli eurasiatici, deve naturalmente essere d’esempio per gli altri.

Il lavoro di rieducazione della coscienza nazionale che fanno gli eurasiatisti si svolge attualmente in condizioni eccezionalmente difficili. È sicuramente impossibile condurre apertamente questo lavoro sul territorio dell’URSS, e nell’emigrazione la maggior parte delle persone sono incapaci di prendere coscienza dei cambiamenti dovuti alla rivoluzione e delle loro conseguenze oggettive. Per costoro, la Russia è ancora un insieme di unità territoriali conquistate dal popolo russo e ad esso appartenenti in modo chiaro e netto. Essi non possono comprendere né lo scopo della costruzione di un nazionalismo paneurasiatico, né l’idea dell’unità della nazione eurasiatica multietnica. Per costoro, gli eurasiatisti sono dei traditori, che hanno rimpiazzato la nozione della “Russia” con quella dell’”Eurasia”. Essi non si rendono conto che non l’eurasiatismo, ma la vita stessa è responsabile di questa sostituzione; essi non comprendono che il loro nazionalismo russo nelle condizioni attuali è soltanto un separatismo grande-russo, che la Russia puramente russa ch’essi vorrebbero far “rinascere” è possibile solo a condizione che si separino tutte le province esterne, il che significa che essa può esistere solo nei limiti della Grande-Russia etnica. Altri movimenti di emigrati attaccano l’eurasiatismo dal punto di vista opposto, essi esigono l’abbandono di ogni specificità nazionale e pensano che si possa riorganizzare la Russia sui principi della democrazia europea, senza alcun sostrato etnico o di classe. In quanto rappresentati delle posizioni occidentalizzanti astratte delle vecchie generazioni dell’intellighenzia russa, essi non vogliono comprendere che, affinché uno Stato esista, bisogna prima di tutto che i cittadini di questo Stato abbiano coscienza della loro appartenenza organica a una totalità unica, a una unità organica che non può essere soltanto etnica o di classe, e che nel momento attuale ci sono solo due soluzioni: o la dittatura del proletariato, o la coscienza dell’unità e dell’unicità della nazione eurasiatica multietnica e il nazionalismo paneurasiatico.

(*) Articolo apparso in “Evrazijskaja Khronika”, 9, 1927, pp. 24-31, con il titolo originale Obščevrazijskij nacionalizm.

(estratto da Eurasia. Rivista di studi geopolitci, a. I, n. 1, 2004)


[1] I Tatari sono il più numeroso tra i popoli della Volga (oltre 2.500.000); rappresentano la parte fondamentale della Repubblica Autonoma Tatara, sebbene gruppi consistenti di Tatari vivano anche in altre regioni della Russia. I Tatari parlano una lingua turca e sono di religione islamica (sunnita).

I Ciuvasci, che costituiscono il grosso della popolazione della Repubblica Autonoma Ciuvascia, sono un popolo di un milione e mezzo di anime, che parla una lingua turco-tatara. Si ritiene che discendano dai Bulgari medioevali, fusi con una popolazione finnica della Volga, i Mari. In parte sono ortodossi, in parte musulmani (sunniti).

I Ceremissi (o Mari) sono un popolo di mezzo milione di anime, che vive per lo più nella Repubblica Autonoma Mari. Assieme ai Mordvini, formano il ramo dei Finni della Volga; parlano quindi una lingua ugrofinnica. Benché ufficialmente ortodossi, i Ceremissi da una parte hanno conservato molti elementi dell’antica cultura sciamanica, dall’altra hanno subìto l’influsso dell’Islam.

I Baschiri, circa un milione di persone, vivono dentro e fuori i confini della Repubblica Autonoma Baschira, al di là degli Urali. Secondo alcuni, i Baschiri sarebbero gli antenati dei Magiari, o comunque una popolazione ugrofinnica assimilata dai Turchi; altri li considerano una popolazione originariamente turca, che avrebbe integrato alcuni gruppi ugrici o finnici. La lingua che parlano è turca e la religione è islamica (sunnita).

I Sarti sono la componente sedentaria (e maggioritaria) degli Usbechi, popolo di lingua turca e religione islamica (sunnita) stanziato principalmente nell’Uzbekistan. (nota di C.M.)

[2] Confronta l’articolo del Principe K.A. Ckheidze in “Evrazijska Khronika”, 4.

Viewing all 166 articles
Browse latest View live




Latest Images