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Afghanistan, 17 settembre 2009

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La trappola afghana

Il dolore per i nostri caduti rimane. Ma bisogna smetterla con l’elaborazione del lutto: anche per evitare  che la politica strumentalizzi la tragedia. Facciamo dunque chiarezza, tanto per cominciare.

Troppi italiani ignorano o dimenticano i fatti, per disinformazione o per scarsa memoria;   e altri, in malafede, ci marciano. Ecco qua, allora.

L’invasione dell’Afghanistan fu voluta nell’ottobre del 2001 dal governo Bush come risposta alla tragedia dell’11 settembre, gli effettivi responsabili della quale non sono stati individuati con sicurezza né allora, né dopo. Si disse però ch’era necessario catturare il mandante, lo sceicco Usama bin Laden (le tracce del quale sono praticamente perdute), e smantellare i “santuari” terroristici dei talibani e di al-Qaeda.

Si tacque però il fatto che il controllo del territorio afghano era necessario perché da lì dovevano obbligatoriamente passare gli oleodotti che avrebbero dovuto convogliare il greggio dei grandi giacimenti centroasiatici di recente scoperti verso i porti pakistani sull’Oceano Atlantico: un colossale business nel quale, tramite la compagnia californiana Unocal, erano coinvolti molti membri dell’establishment statunitense. Affari e geopolitica, in corsa con Russia e Cina: una riedizione dell’ottocentesco   Great Game.

Il movimento talibano, alimentato e sostenuto dai fondamentalisti wahhabiti arabo-yemeniti (un Islam fino ad allora estraneo alle tradizioni afghane) si era radicato in Afghanistan durante il jihad contro i sovietici, ed  era sostenuto dagli Stati Uniti. L’alleanza non aveva però retto, anche perché i talibani rimproveravano agli americani di aver occupato il sacro suolo arabo, la terra del Profeta e del pellegrinaggio, con l’alibi della prima guerra del Golfo. Secondo i consiglieri neoconservatori di Bush, ormai la diplomazia non bastava più: bisognava passare alla modificazione anche violenta degli equilibri geopolitici in tutto il Vicino e il Medio Oriente.

Questa la ragione effettiva dell’invasione dell’Afghanistan, che le Nazioni Unite bollarono come illegittima. Il governo Bush agì allora al di fuori dell’autorizzazione ONU, prima con una piccola coalizione di stati e di staterelli fedelissimi e quindi chiamando in campo la NATO, cioè un organo concepito per il controllo dell’Atlantico e quindi del tutto estranea al teatro territoriale afghano. Era intanto cominciata anche l’avventura irakena, e alla fine l’ONU fu costretta a legittimare la duplice aggressione, illudendo che per tale via si giungesse in qualche modo a ristabilire un qualche equilibrio politico.

I risultati, otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan e sei dopo quella dell’Iraq, sono sotto gli occhi di tutti. Due paesi distrutti, insicuri, martoriati (le vittime si contano ormai a decine di migliaia), dove si stenta a far decollare  una qualche forma di “democrazia” del tutto formale, cartacea e forzosa; recrudescenza delle lotte etniche e di quelle religiose; avanzata del caos e  del fondamentalismo, che stanno sommergendo lo stesso vicino Pakistan un tempo sicuro baluardo filoccidentale. Il piano strategico di Bush è fallito e il suo successore Obama lo sta smontando pezzo per pezzo. Dietro il fallimento in Vietnam gli americani si lasciarono un regime comunista; qui lasceranno il caos e il potere nelle mani dei signori della guerra e della droga. Il dilemma, oggi, è comunque fallimentare: o prolungare una guerra feroce e senza uscita, o andarsene ammettendo il pieno fallimento.

Da questa trappola, bisogna uscire; è inutile giocarsi altre vite umane. Berlusconi, il quale fino a ieri sosteneva che bisognava tener duro, ha fiutato l’impopolarità di questa guerra inutile e incomprensibile ai più e ora si nasconde dietro il legalismo internazionale: ci ritireremo, dice, ma solo con il pieno accordo degli “alleati”. Fuor di metafora, dopo averci trascinato in due guerre per far piacere a Bush, ora sta mendicando da Obama l’autorizzazione a uscirne senza troppo irritarlo. Politica da pollaio. L’importante è che faccia presto.


Trattato di Lisbona. Il secondo referendum irlandese in prospettiva

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Dalla fine del ventesimo secolo, l’Europa, in luogo di dedicarsi alle questioni più geopolitiche, si ingegna a migliorare le sue istituzioni fondamentali.

Ciò occorreva farlo per far posto ai nuovi paesi che entravano a far parte dell’Unione. È stato l’obbiettivo del vertice di Nizza (dicembre 2000) e di quello successivo (febbraio 2001). Giacché non si potrà mai distribuire oltre il 100% dei diritti di voto, il trattato di Nizza organizza una nuova divisione dei poteri.

Nel Consiglio dei Ministri della UE, la soglia della maggioranza qualificata è aumentata ed il numero di voti di ciascun paese riesaminato. Dal 1 ° gennaio 2007, Germania, Italia, Francia e Regno Unito abbandonano più di un quarto del loro peso politico relativo, passando dal 11,49% nella UE-15 dei voti al 8,41% nella UE -27, dal 1 ° gennaio 2007. Ad eccezione della Spagna, le perdite degli altri membri più anziani sono ancora più elevate. I paesi più popolosi [1], perdono anche il loro secondo commissario alla Commissione europea. La Commissione, eletta per cinque anni, a partire dal primo novembre 2004, ha la caratteristica di contare un solo commissario per ogni Stato membro, quale che sia la sua popolazione. I seggi dei deputati sono parimenti ridistribuiti.

Il trattato di Nizza appena siglato, il bisogno di istituzioni più adatte per una Unione allargata si impone immediatamente. Tutti ricordano che il progetto del Tratta che stabiliva una Costituzione per l’Europa è stato bloccato a maggio e a giugno  del 2005, quando la Francia e i Paesi bassi la rifiutarono con un referendum. Appena eletto alla presidenza della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy spalleggia il cancelliere tedesco Angela Merkel, per trovare una soluzione, nell’ambito del Trattato di Lisbona (Consiglio d’Europa informale del 18 e 19 ottobre 2007). Anche questo viene bloccato a sua volta da un referendum negativo, dal referendum irlandese del giugno 2008.

Il prossimo 2 ottobre, gli Irlandesi si pronunceranno una seconda volta, dopo aver ottenuto alcune concessioni e garanzie.

La Commissione europea ha fatto quindi il punto dei compromessi raggiunti.   « Molti cittadini irlandesi temono che il trattato possa influire sulle politiche fiscali del loro paese, sulla sua neutralità militare e su questioni etiche come l’aborto. Il Consiglio ha offerto garanzie giuridiche all’Irlanda che il trattato non violerà la sovranità del paese in questi settori. L’elettorato irlandese aveva inoltre obiettato al piano di riduzione del numero dei commissari europei, che aboliva il diritto degli Stati membri (Irlanda inclusa) a disporre automaticamente di un proprio commissario. Il Consiglio ha accettato di adottare le misure legali necessarie per garantire tale diritto a tutti e 27 i paesi dell’UE al momento dell’entrata in vigore del trattato. » [2].

Qualunque sia l’esito del secondo referendum irlandese, si spera che l’UE possa dedicare il secondo decennio del 21 ° secolo per fronteggiare  altre sfide. Senza essere esaustivi, pensiamo allo stato di avanzamento del progresso di un’analisi geopolitica dell’Unione europea, allo sviluppo della difesa europea, all’invecchiamento della sua popolazione, alla sua eterogeneità economica, al deficit del bilancio commerciale extra-comunitario, ai deboli sforzi nella Ricerca e Sviluppo, alla diminuzione dei partecipanti alle elezioni per il Parlamento europeo, alla lotta contro la corruzione, al progresso della interconnessione tra i paesi membri, all’integrazione dei futuri membri, all’attuazione di partenariati con altri paesi ed alla ridefinizione dei rapporti con le Potenze di oggi e di domani …

1. I quattro precedenti più la Spagna.

2. Commissione europea, 12 – 12 2008 : http://ec.europa.eu/news/economy/081212_1_fr.htm

L’autore di questo articolo, Pierre Verluise, ricercatore presso l’IRIS, dirige il sito www.diploweb.com ; autore di  20 ans après la chute du Mur. L’Europe recomposée (Choiseul, 2009) ha recentemente pubblicato  Géopolitique de l’Europe (Sedes, 2009).

Il Museo Virtuale dell’Iraq

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Grande successo di pubblico internazionale nel Museo Virtuale dell’Iraq. Frutto di un’intesa tra Ministero degli Affari Esteri e Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo virtuale  è tra le più importanti iniziative di carattere culturale e diplomatico volte alla valorizzazione del patrimonio storico-archeologico di quel Paese. L’allestimento non si sovrappone a quello reale, ma si presenta come la sua proiezione comunicativa attraverso una selezione delle opere più significative dell’antica civiltà mesopotamica, incluse quelle custodite nei principali musei del mondo. Realizzato in italiano, inglese e arabo, consente l’accesso ad un ampio pubblico.

I dati del successo internazionale del Virtual Museum of Iraq saranno commentati nell’ambito del convegno: “Il Museo Virtuale dell’Iraq. Il Cnr e le nuove tecnologie per la cultura e la comunicazione”, che si terrà a Roma, domani 22 settembre alle ore 9.30, presso la sede dell’Ente (piazzale Aldo Moro 7).

Quello che colpisce è soprattutto la dimensione internazionale del successo. “Sono state oltre 400.000 le pagine cliccate e oltre 120 mila i visitatori. Le pagine in inglese sono più visitate di quelle in italiano, con un rapporto di circa 2/3, 1/3”, spiega Roberto de Mattei, vice Presidente del Cnr. “Nella classifica dei ‘navigatori’ gli Stati Uniti si piazzano primi con oltre 35 mila accessi, battendo l’Italia con 24 mila circa, seguono Brasile, Canada, Regno Unito, Porto Rico”.

Spiccano al settimo posto, gli Emirati Arabi che precedono quanto a visite, la Turchia, la Germania e la Svezia”.

Delle otto sale di cui si compone il Museo – ognuna dedicata ad una fase storica- le più frequentate sono la Preistorica, la Sumerica e la Babilonese.

Collegandosi al sito internet www.virtualmuseumiraq.cnr.it i visitatori hanno potuto passare in rassegna opere di capitale importanza, come una statuetta femminile in alabastro da Tell Es Sawwan (6200-5700 a.C.), l’Elmo in lamina d’oro di Meskalamdug (2450 a.C.), re della città di Ur, il Pannello invetriato di Nimrud (IX secolo a.C.), la Lastra raffigurante i sudditi assiri (VIII sec. a. C).

Un bagaglio di competenze (archeologi, architetti, informatici, storici dell’arte) che il Cnr ha portato in Giappone in occasione della mostra “L’eredità dell’Impero Romano” inaugurata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Museo Nazionale d’Arte Occidentale di Tokyo (fino al 13 dicembre 2009), dove è allestito un video 3D Life and Power in Imperial Rome”, realizzato dal Dipartimento Patrimonio Culturale ( Istituti Ibam, Isti e Itabc) e con il sostegno dell’Ufficio Pubblicazioni ed Informazioni Scientifiche del Cnr.

Il filmato creato come contributo all’evento “Italia in Giappone 2009” racconta la Roma imperiale come una sequenza di momenti ufficiali di vita pubblica, fatta di esteriorità, simboli, grandiosità (in particolare, la ritrattistica pubblica e l’Ara Pacis prescelti come simboli del potere e della politica romana nel periodo Augusteo), e di vita privata della stessa famiglia imperiale, scandita dall’otium, dalle abitudini quotidiane e dagli affetti privati. “Il lavoro”, spiega Roberto Scopigno dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione (Isti) del Cnr, “è stato eseguito con tecnologie di scansione laser tridimensionale ad alta risoluzione, tecnologie per la ricostruzione di modelli digitali tridimensionali da foto ed infine  con sofisticate tecniche di computer animation”.

Intervista a Enrico Galoppini su “L’Eco di Bergamo”

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«Il Mediterraneo deve tornare ad essere un luogo di incontro fra i continenti»
■ L’eurasia è un’idea che ha attraversato culture, tradizioni e pensatori di diversa formazione.
Torna oggi alla ribalta grazie a un nucleo di intellettuali che hanno deciso di riprenderne i tratti essenziali. Ne parliamo con Enrico Galoppini, saggista e traduttore dall’arabo. Ha insegnato per anni Storia dei Paesi islamici presso le Università di Torino e di Enna. È redattore della rivista di studi geopolitici «Eurasia» (www.eurasia-rivista.org). Collabora e ha collaborato a riviste e quotidiani tra cui Limes, Imperi, Eurasia, Levante, La Porta d’Oriente, Kervàn, Africana. Ha pubblicato «Il Fascismo e l’Islàm» (Edizioni «All’Insegna del Veltro», Parma
2001) e «Islamofobia. Attori, tattiche, finalità» (Idem, 2008).

Che cosa si deve intendere per Eurasia e quali sono i vostri principali autori di riferimento?
«Con Eurasia non s’intende un ipernazionalismo, né un ambito territoriale di cui andrebbero definiti i confini. Eurasia non è la somma di Europa ed Asia. Eurasia è un’idea- forza evocante la sostanziale unità delle
civiltà del cosiddetto “Vecchio mondo”. Privilegiando ciò che unisce anziché ciò che divide, tale concetto è antitetico a quello dello scontro di civiltà: Eurasia è in un certo senso sinonimo di dialogo di civiltà. Quanto agli autori di riferimento, non abbiamo dei guru da seguire deterministicamente. Il nostro approccio è infatti geopolitico, quindi improntato a realismo e pragmatismo, non ideologico, dunque utopico-emozionale.
Ma se vogliamo indicare alcuni autori per noi importanti, posso citare Lev N. Gumilëv e Franz Altheim (etnogenesi di vari popoli europei ed asiatici), Mircea Eliade (comparazione delle religioni e dei miti), Georges Dumézil ed Emile Benveniste (studi indoeuropei), Nicolaj S. Trubeckoj (eurasiatismo russo), Giuseppe Tucci e vari “tradizionalisti” come Guénon, Cooramswamy, Burckhardt e Nasr».

Quali scenari prevede nei rapporti tra il mondo islamico vicino e mediorientale e quello cristiano-occidentale?
«È essenziale il recupero del ruolo del Mediterraneo quale “mare interno” con una naturale vocazione all’incontro tra culture e al consolidamento di duraturi rapporti economici e politici tra i popoli che ne abitano le sponde e non solo, poiché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Europa propriamente detta sia con l’Asia che con l’Africa, per cui si configura come un crocevia del “Vecchio mondo”. Questo spazio, però, per svolgere questa funzione, deve essere libero dai condizionamenti di potenze esterne che con la dottrina (operativa) dello scontro di civiltà evidenziano l’interesse a fomentare discordie per privilegiare i loro disegni. Ma se gli europei continueranno a concepire se stessi come “occidentali”, considerando la maggioranza dei popoli dell’Eurasia come “orientali”, non vi sono motivi d’ottimismo. Una puntuale conoscenza della civiltà islamica è un buon antidoto contro derive occidentaliste, così come il superamento di un’idea di un’entità
politico-amministrativa (ma non geopolitica) circoscritta alla “penisola” estremo-occidentale dell’Eurasia con caratteri esclusivi rispetto ai suoi immediati vicini (Turchia e Russia sono fondamentali per una pax eurasiatica)».

Secondo lei le guerre che si stanno combattendo in Afghanistan e Iraq sono anche guerre di religione?
«Queste guerre sono state scatenate dagli occidentali per motivi strategici e di dominio. Ma a livello di opinioni pubbliche viene data l’impressione che la posta in gioco sia identitaria. L’Iraq è stato invaso nel
2003 (dopo 12 anni d’embargo) solo grazie alla debolezza della Federazione russa negli anni 90. Esso doveva essere annientato perché il suo governo non era disposto a compromessi sulla “questione palestinese”, nient’affatto limitata al campo palestinese, interessando, grazie alla sua portata strategica e simbolica, l’intera Eurasia. Per quanto riguarda l’Afghanistan, trovandosi al crocevia tra Russia, Cina, India e Iran, la sua occupazione – al di là degli interessi energetici – rappresenta per gli occidentali una mossa per procrastinare un’integrazione eurasiatica per essi esiziale».

«Eurasia» è anche una rivista di geopolitica. Quali scopi persegue?
«Eurasia è una rivista di studi geopolitici che differisce da altre riviste di geopolitica italiane per il suo taglio accademico e non semplicemente divulgativo e giornalistico. Non è tuttavia espressione di una particolare
scuola o metodologia interpretativa. Certo, esiste un orientamento redazionale che si risolve nell’analisi del presente e nella descrizione di ipotesi di scenari realistici e alternativi alla tendenza unipolare. Eurasia,
uno strumento per l’analisi e lo studio del presente attraverso un approccio geopolitico, nasce dalla constatazione del fatto che le analisi economiche e politiche, condizionate da ideologie e visioni del mondo, non offrono una rappresentazione globale e realistica dei nostri tempi; in particolare, non riescono a fornire riposte ai problemi del XXI secolo».

Intrigo internazionale e funghi atomici su Teheran. Alta tensione

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Fonte: Megachip (vedi originale)

E’ possibile che qualche cosa di molto importante sia accaduto e stia accadendo, “sotto il tappeto”, in preparazione e in connessione (forse per anticiparla e impedirla) con la clamorosa decisione di Obama di rinunciare al sistema missilistico in Europa (con radar nella Repubblica Ceca). Non solo decisione cruciale, ma soprattutto devastante per i piani israeliani.

La motivazione usata da Obama, infatti, si basa sulla valutazione congiunta delle agenzie americane, dei servizi segreti, che l’Iran non possiede, né potrà possedere in un futuro prevedibile, né l’arma atomica, né la capacità di costruire vettori capaci di portarla a destinazione negli Stati Uniti.

E’ noto che, al contrario, Israele considera questa eventualità non solo possibile ma ravvicinata e che è intenzionata a stroncarla, a qualunque costo, e in qualunque modo.

La scelta di Obama è dunque, al tempo stesso, una dura presa di distanza dalla leadership di Israele. Una svolta senza precedenti per gli Stati Uniti d’America. Questa è la premessa per inquadrare quanto qui racconterò sulla base delle informazioni disponibili e cercando di ripulirle dagl’inquinamenti di cui sono striate.

E non c’è da stupirsene perché la materia scotta, in tutti i sensi.

Forse c’entra anche, in tutto questo, la misteriosa storia della Arctic Sea, la nave battente bandiera maltese ma con equipaggio russo di 13 persone, sparita il 28 luglio scorso, assaltata da strani “pirati” al largo delle coste portoghesi, nell’Atlantico.

Ma partiamo dagli ultimi avvenimenti e cerchiamo di mettere a posto un difficile mosaico.

Il 14 settembre scorso tutti i media russi e il New York Times danno notizia di un gravissimo incidente nella base militare di Tambov, circa 400 chilometri a sud-est di Mosca. Citando la Reuters, che a sua volta citava l’agenzia Ria-Novosti, che a sua volta citava una fonte di alto livello dei servizi segreti russi, il New York Times informa che “cruciali documenti segreti possono essere stati distrutti dal fuoco” in un incidente in cui hanno perso la vita ben cinque ufficiali di guardia. L’edificio appartiene “ai servizi segreti” e ospitava “documenti segreti di speciale importanza” per la sicurezza nazionale della Russia. “L’incendio – proseguiva il dispaccio della Reuters – ha seriamente colpito la zona segreta dell’edificio”, investendo “circa 400 metri quadri”. Il vice ministro della difesa, colonnello-generale Aleksander Kolmakov,  accorre sul posto insieme ad alti ufficiali dei servizi segreti. Il tutto sarebbe accaduto alle 10 del mattino del giorno precedente, domenica  13 settembre.

Qui finiscono le notizie ufficiali e cominciano quelle ufficiose. Ma interessanti anche dopo essere state  depurate. C’è un sito sul web , abbastanza noto, che dispone di discreti e provati contatti con fonti russe che vogliono far sapere “altro”. Si chiama

http://www.whatdoesitmean.com/index1275.htm e ospita spesso analisi firmate con nome femminile, Sorcha Faal. Non so chi sia, ma dal contesto e dal contenuto si possono dire due cose: c’è del vero in quello che dice, anche se l’insieme va preso con cautela.

Da questa analisi emergono cose sconcertanti. L’incendio non sarebbe stato un incidente. Si sarebbe trattato di un attacco di commandos contro “i bunker che ospitano la Direzione Generale dell’Intelligence russa”. Quali commandos?  Non viene detto, ma si capisce che si tratta di un lavoro di alta specializzazione. Uno o più gruppi armati che , “in meno di 15 minuti” sarebbero stati in grado di “ penetrare nel perimetro di sicurezza, disattivare i sistemi antincendio e attaccare il bunker dei documenti con armi incendiarie”.

Sorgono molte domande. Chi ha inviato i commandos? Erano russi? E, se non erano russi, come potevano essere arrivati nel cuore della Russia, percorrendo – si presume in volo – diverse centinaia di chilometri senza essere rilevati e contrastati? In Russia tutto è possibile, ma neanche in Russia si fanno miracoli.

Esiste un nesso tra questo episodio e altri eventi occorsi nelle ultime settimane? Forse si può tentare di collegarne alcuni. Facciamo un salto indietro di qualche giorno. L’8 settembre il Jerusalem Post scrive che il premier Netanyahu è sparito verso destinazione ignota. Il 9 un altro giornale israeliano precisa una notizia sensazionale: Netanyahu è volato segretamente a Mosca a bordo di un aereo privato. Perché? Come? Il sito sopra citato fornisce importanti dettagli che sembrano derivare da una fonte dei servizi segreti russi. Seguiamo il racconto di Sorcha Faal.

Netanyahu si sarebbe precipitato a Mosca, senza neppure preavvertire il governo russo, per chiedere “l’immediata restituzione” di “tutti i documenti, dell’equipaggiamento e degli agenti del Mossad catturati dai commando russi e americani” che avevano ripreso il controllo della Arctic Sea dopo che un commando composto da israeliani e agenti fuori controllo (“rogue agents”, dice Sorcha Faal) della CIA aveva assaltato la nave, impadronendosene per diverse ore, forse giorni. Qui le domande si affollano. E anche i dubbi.

Ma non è, assai probabilmente, un’invenzione peregrina. La fonte dell’FSB che racconta la vicenda aggiunge particolari straordinariamente interessanti e anche molto precisi. Nella Direzione Generale dell’FSB di Tambov  vi sarebbero stati “tutti i files operativi” compilati dall’FSB, il servizio segreto russo, concernenti la famosa Blackwater, la corporation privata cui Bush e Cheney affidarono importanti incarichi di sicurezza in Irak e non soltanto, e cui la Cia (come risulta ora dall’inchiesta aperta negli Stati Uniti), commissionò l’incarico degli assassini mirati per liquidare i leader  e i militanti di rilievo di Al Qaeda.  Che i servizi segreti russi tenessero e tengano sotto osservazione questa attività è del tutto logico. Sarebbe illogico pensare il contrario. Resta da capire cosa e come possano avere scoperto. Ma cosa c’entra Netanyahu?

Torniamo dunque al suo viaggio segreto  a Mosca. Il 10 settembre, nel pomeriggio, insieme agli altri membri del club di discussione Valdai, di cui faccio parte, incontro il ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov. Mosca è piena di voci su quel viaggio e la domanda è inevitabile. Lavrov non conferma ma nemmeno smentisce. E ovviamente non dice chi ha incontrato Netanyahu e perché. Ma dichiara che Mosca non ha violato nessuna delle regole internazionali del commercio di armi e che ha fornito all’Iran, in passato, solo “armi rigorosamente difensive”. Nel frattempo fonti israeliane, subito riprese da diversi giornali occidentali e anche russi, diffondono l’informazione secondo cui, a bordo della Arctic Sea ci sarebbe stato non un carico di legnami preziosi, ma un carico di missili S-300 destinati all’Iran. Gli S-300 sono missili anti-missile, cioè arma difensiva.

Notizia strana. La Russia avrebbe mandato in giro, lungo una rotta lunghissima (dall’Oceano Artico, nell’Atlantico, via la Manica, fino alle Canarie, ma per andare dove?), un carico delicatissimo, esponendo la sua merce a ogni rischio (come poi sarebbe avvenuto), senza poterla tenere sotto controllo. Basta guardare le carte geografiche per capire che Mosca può inviare in Iran ciò che vuole attraverso il Mar Caspio, su cui si affacciano i suoi porti e quelli iraniani. Dunque notizia improbabile. Sicuramente il carico della Arctic Sea era molto importante, ma non era quello che dicono gli israeliani. E non era diretto all’Iran ma – ecco la novità di Sorcha Faal  -“agli Stati Uniti”.

Ecco perché all’operazione di ricupero della Arctic Sea avrebbero preso parte anche gli Stati Uniti, con uomini e, soprattutto, informazioni sulla localizzazione della nave.

Secondo la ricostruzione citata la Marina Militare russa, con il concorso di unità della marina finlandese e dei servizi americani, avrebbe prelevato tre missili, dotati di testata nucleare, dopo averli recuperati dal relitto del Kursk, il sommergibile nucleare affondato nel 2001 in circostanze misteriose nell’Artico. Tragedia nella quale persero la vita 118 marinai e ufficiali russi.  All’epoca i russi avevano incaricato del recupero dei cadaveri del Kursk due compagnie danesi, la Mammoet e la Smit International, ma senza il permesso di toccare i missili. Si trattava di missili nucleari tattici P-700 Granit, in grado di affondare navi di grandi dimensioni, per esempio portaerei.

Secondo fonti della intelligence militare russa, il GRU, i missili sarebbero stati caricati sulla Arctic Sea, e diretti verso gli Stati Uniti per essere affidati alla US Nuclear Security Administration che ne doveva curare lo smantellamento nell’impianto Pantex, in Texas. Il tutto in base agli accordi di disarmo dello START 2.

La Arctic Sea, con un carico ben più importante del legname, viene attaccata da “commandos non identificati” . Ovvio che non si tratta di comuni pirati. Qui ci sono in campo servizi segreti potenti, in grado di mettersi di traverso niente meno che a un’operazione congiunta russo-americana. Mosca reagisce con veemenza  inusitata. Il comandante in capo della Marina, Vladimirr Visotskij dichiara pubblicamente che “tutte le navi e i natanti della marina russa nell’Atlantico sono stati inviati alla ricerca della nave sparita”. Il 18 agosto il ministro della difesa russo, Anatolij Serdiukov annuncia che le forze navali russe, “in cooperazione con il Comando Spaziale della Marina USA” hanno “ripreso possesso” della Arctic Sea. Fonti anonime dei servizi russi parlano di “terroristi della CIA con falsi passaporti estoni, lettoni, e russi. C’è un’altra fonte, non anonima, russa, che racconta altre cose. Si tratta di Mikhail Voitenko, direttore di una rivista specializzata in incidenti marittimi, la Sovfracht, il quale fa sapere che la Arctic Sea non era una qualunque nave da trasporto, ma era dotata dei più moderni mezzi di localizzazione e di comunicazione. Per giunta, al momento dell’assalto dei “pirati”, la nave si sarebbe trovata in acque dove “perfino i cellulari funzionavano”. Perché non ci fu allarme subito? Il mistero s’infittisce. Mikhail Voitenko, dopo avere troppo parlato, scappa in Turchia e dichiara di essere sotto grave minaccia di vita.

Qui dobbiamo tornare a Netanyahu perché il sito sopra citato mette direttamente in relazione i servizi segreti israeliani con la vicenda della Arctic Sea. Vediamo come. Fonti questa volta del ministero degli esteri russo rivelano che l’aereo privato su cui viaggiava Netanyahu aveva un piano di volo che prevedeva l’atterraggio a Tbilisi, Georgia ma che (l’episodio deve essere avvenuto tra l’8 e il 9 settembre) all’improvviso, in vicinanza dello spazio aereo russo, il pilota chiede “urgentemente” di poter atterrare a Mosca, specificando che ha a bordo il primo ministro israeliano Netanyahu. Il permesso è accordato e l’aereo atterra nella base militare di Kubinka, non lontano dalla capitale.

Sempre stando al racconto di Sorcha Faal, all’aeroporto di Kubinka arriva in tutta fretta il presidente russo Dmitrij Medvedev, che incontra non solo un Netanyahu furibondo ma un’intera delegazione israeliana, composta dal generale Meir Kalifi, ministro per gli Affari Militari e Uzi Arad, consigliere per la Sicurezza Nazionale d’Israele. La richiesta, perentoria, a Medvedev è “un’immediata restituzione di tutti i documenti, dell’equipaggiamento e degli agenti del Mossad” catturati dai russi e dagli americani a bordo della Arctic Sea. A quanto pare Medvedev, già irritato per il mancato preavviso, per la insolita procedura, e per i toni degli ospiti, replica che “l’investigazione è in corso” e che “la Russia non è pronta a dare alcuna prova a nessuno”. Con ogni probabilità si è parlato anche d’altro e qui il racconto diventa del tutto inverificabile. Uno degli argomenti in questione, per altro probabilmente, sarebbe stata una richiesta di chiarimento circa le armi che la Russia starebbe fornendo all’Iran. Il tutto in connessione con un possibile attacco israeliano sulle installazioni nucleari iraniane. Sorcha Faal mette tra virgolette frasi di Netanyahu di  incredibile gravità, del tipo che “la Russia dovrebbe pararsi il sedere” e non essere sorpresa quando “nubi a forma di fungo cominceranno ad apparire sopra Teheran”.

La reazione di Medvedev non viene riferita. Ma sia Medvedev che Putin in quei giorni, anche negl’incontri con i membri del Club Valdai, hanno ripetutamente ribadito l’inaccettabilità di ogni azione di forza contro l’Iran e la necessità di uno sviluppo della via negoziale.

Non sarà inutile qui ricordare chi era uno dei due accompagnatori di Netanyahu a Mosca, Uri Arad. L’attuale Segretario alla Sicurezza Nazionale di Israele è persona non grata negli Stati Uniti. Lo è da quando risultò, nel 2006, che era direttamente implicato nel cosiddetto AIPAC Espionage Scandal (AIPAC sta per American Israeli Public Affair Committee). In quel processo, largamente coperto dalla stampa americana, emerse che importanti documenti della politica americana verso l’Iran venivano passati a Israele, attraverso l’AIPAC e personalmente Uri Arad,  da un funzionario del  Dipartimento della Difesa, Lawrence Franklin. Questi fu condannato a 13 anni per spionaggio a favore di uno stato straniero; condanna poi tramutata in 10 mesi di arresti domiciliari. Ebbene, viene riferito che Uri Arad fu protagonista di uno scandalo aggiuntivo quando Hillary Clinton incontrò Netanyahu a Gerusalemme. Hillary e i suoi consiglieri furono sconcertati di vedere Arad al fianco di Netanyahu e, per evitare un incidente diplomatico, proposero che all’incontro assistessero solo tre persone per parte. Netanyahu non fece una piega e chiese all’ambasciatore israeliano a Washington, Sallai Meridor, di allontanarsi, e tenne con sé Uri Arad. Meridor si dimise qualche giorno dopo e un portavoce di Netanyahu spiegò in seguito che la presenza di Arad era “indispensabile per la questione iraniana”. Quanto fosse indispensabile lo dimostra la posizione di Arad in materia: “massima deterrenza”, nel senso che Israele “deve minacciare e colpire ogni e qualsiasi cosa abbia importanza in merito”, a cominciare “dai leader” per finire “ai luoghi sacri”.

(Editoriale di Paul Woodward, 18 marzo 2009. http://warincontext.org/2009/03/18/editorial-we-want-the-land-not-the-people).

Cosa ci sia di vero nelle rivelazioni (guidate dai servizi segreti militari russi) secondo cui tra i files distrutti a Tambov c’erano anche quelli che “confermavano” le accuse contro i servizi segreti USA e israeliani, formulate dal generale Mirza Aslam Beg, ex capo di stato maggiore  dell’esercito pakistano, secondo cui “mercenari privati” della Blackwater (ora rinominata Xe) sarebbero stati “gli organizzatori degli attentati contro l’ex primo ministro libanese Rafik Hariri e contro Benazir Bhutto”.

In ogni caso, concludendo,  si può dire con certezza che il viaggio di Netanyahu a Mosca c’è stato. E che una cosa del genere si fa soltanto se sono in gioco eventi drammatici.

Si capisce che Netanyhau aveva una gran fretta, una settimana prima che Obama annunciasse che l’Iran non costituisce, al momento, una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Resta da capire qual’era lo scopo dell’assalto alla Arctic Sea e come mai i servizi segreti israeliani si sono esposti così apertamente in una operazione ostile nei confronti di Stati Uniti e Russia. E resta, ovviamente, da investigare l’assalto (se di assalto si è trattato) alla base segreta russa di Tambov, solo cinque giorni dopo il burrascoso incontro di Kubinka.

Nascosto in piena vista

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Il 17 agosto il pattugliatore russo Ladny fermava e abbordava la nave battente bandiera maltese Arctic Sea, di proprietà finlandese che, apparentemente, era stata dirottata nelle acque svedesi tre settimane prima. L’operazione di salvataggio – compiuta “senza colpo ferire“, secondo la marina russa – ha segnato la fine delle tre settimane di mistero della nave scomparsa. Ma la successiva indagine penale potrebbe durare più a lungo, e rivelarsi ancora più enigmatica della originaria “scomparsa” della nave.

I russi, insieme con svedesi, finlandesi e maltesi, oggi sostengono che l’Arctic Sea non è mai stata “persa“, e gli esperti ritengono che la velocità con cui la marina russa ha catturato la nave dirottata (la marina è stata dispiegata il 12 agosto e il Ladny ha catturato l’Arctic Sea cinque giorni dopo) sostiene tale affermazione. Anche se una nave può disattivare il suo Automated Identification System (AIS), “se si sa che nave stai cercando, e si dispone della localizzazione via satellite e così via, in realtà la scoperta è piuttosto facile“, ha detto un esperto marittimo che ha chiesto l’anonimato.

Quindi questo è un mistero risolto. Se si accetta che i dettagli rilasciati dell’inchiesta avrebbero messo a repentaglio la vita dell’equipaggio (e nessuno lo vuole), poi il silenzio delle autorità ‘diventa comprensibile.

Uno dei motivi del caso che ha provocato tanti grattacapi, è che sono state ignorato tutte le convenzioni sulla pirateria di cui il mondo marittimo è abituato negli ultimi anni. “I pirati somali hanno successo perché possono rifugiarsi in uno stato senza legge“, ha detto Stephen Askins, avvocato marittimo londinese con esperienza nella gestione dei casi di pirateria. “Viaggiando al largo di Capo Verde, con una vaga voce di richiesta di riscatto, suggerisce la mancanza di una chiara strategia di uscita“. E le differenze non finiscono qui. La forza internazionale anti-pirateria ha trovato difficoltà nel liberare le navi catturate al largo della Somalia, perché i pirati tendono a mettere pronti alla lotta e ad utilizzare i prigionieri come ostaggi. Ma i dirottatori dell’Arctic Sea hanno ceduto, apparentemente senza combattere. E ora i russi hanno compiuto l’importante passo di inviarli direttamente a Mosca, cosa che non è quasi mai capitato nel catturare i pirati somali.

La normale procedura, dopo un dirottamento somalo, sarebbe fare rotta verso un porto sicuro, la riparazione della nave, forse rimpatriare l’equipaggio e permettere alla nave di proseguire fino al porto di destinazione, a consegnare il suo carico. Invece i russi sembrano aver trattato la Arctic Sea come una nave pirata, piuttosto che come una nave catturata dai pirati. Il Tribunale distrettuale di Basmanny ha emesso un atto di sequestro della nave, e la marina russa ha rimorchiato la nave a Novorossijsk, apparentemente senza fermarsi per scaricare il legname in Algeria. E invece di essere liberato, l’equipaggio è stato apparentemente arrestato a Mosca per quello che Aleksandr Bastrykin, il capo della commissione d’inchiesta, denomina “interrogatorio urgente“.

Le dispute legali iniziano

Ai sospettati sono già stati assegnati gli avvocati, che a loro volta non hanno perso tempo nel fare appello per il loro arresto da parte del tribunale distrettuale di Basmanny, citando violazioni procedurali. Gli avvocati degli uomini hanno anche messo in dubbio la competenza della Russia. “La nave cargo è stata sequestrata il 24 luglio nelle acque territoriali svedesi, la nave stava trasportando merci dalla Finlandia verso l’Algeria, e ha navigato sotto la bandiera maltese“, ha dichiarato al quotidiano Kommersant, Omar Akhmedov, che rappresenta due dei sospettati.

In realtà, in questo caso i russi hanno probabilmente fatto bene a proclamare la giurisdizione. Nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ogni Stato ha competenza a giudicare chiunque sia arrestato per pirateria in acque internazionali – a prescindere dalla nazionalità degli aggressori. E in quanto firmataria della Convenzione sulla repressione di atti illeciti in mare (SUA), la Russia può intervenire se i suoi cittadini sono vittime di pirateria o di terrorismo.

Tuttavia, il processo promette di diventare interessante. Anche se si terrà a Mosca, in base al diritto russo, l’indagine comprende non meno di altri quattro paesi, Malta, dove l’Arctic Sea è stata registrata, la Finlandia, dove ha sede la società che possiede la nave e da dove l’Arctic Sea è salpata, la Svezia, nelle cui acque ha avuto luogo il presunto dirottamento e l’Estonia, dove sei degli otto indagati sono residenti permanenti (gli altri due sono lettoni).

Per complicare ulteriormente le cose, solo uno di questi sei è in realtà un cittadino estone. Degli altri cinque, due sono titolari di passaporto russo, e tre sono apolidi, dal passaporto “grigio“. Tutti hanno segnalato che fossero di lingua russa. L’ufficio del procuratore estone dice che non ha ancora deciso se chiedere alla Russia l’estradizione, ma una causa penale è stata aperta in Estonia. La pirateria porta a una ventina di anni di reclusione in entrambe le giurisdizioni, così è probabile che le due parti saranno in grado di giungere a un accordo su dove i detenuti debbano scontare la pena.

Ma come ogni pezzo di un romanzo poliziesco ben congegnato, il cuore del mistero è il movente. Su questo punto le autorità sono state abbottonate nelle loro dichiarazioni pubbliche, mentre la stampa è stata dalla creatività esuberante. Bastrykin ha detto al quotidiano Rossiskaya Gazeta di mercoledì, in un’intervista, che non poteva “escludere che la nave stava trasportando non solo del legname.” Data l’audacia dell’attacco e l’urgenza della risposta russa, i media russi hanno già escluso tutto tranne ciò.

Il “carico segreto” è stato variamente descritto come materiale nucleare (negato dai finlandesi, che hanno effettuato test radiazioni nel molo di carico), droga o armi. Una prima teoria emessa dal settimanale liberale Novaya Gazeta, dice che le armi in questione erano missili anti-aerei e da crociera destinati all’Iran, e che i “pirati” erano al soldo del servizio segreto israeliano, il Mossad. Il Moskovsky Komsomolets, a sua volta, ha affermato che il sequestro era opera dei “servizi speciali di un paese dell’Unione europea“, con l’intenzione di “ricattare la Russia sulla scena internazionale“, o semplicemente cercava un avere un rapido profitto nella consapevolezza che i proprietari dei contrabbando “sarebbero stati dispiaciuti nell’essere al centro dell’attenzione.”

Bastrykin dice l’Arctic Sea è stata rimorchiata a Novorossiysk per andare al fondo di queste affermazioni. I cinici rispondono che il piano è quello di rimuovere il carico imbarazzante, non di scoprirlo. Nel frattempo, l’Arctic Sea non è più riapparsa sui servizi di monitoraggio dell’AIS, da quando è scomparsa nel golfo di Biscaglia. occhi del mondo, è come se fosse ancora dispersa, come lo è stata tre settimane fa.

Fonte:

Russia Profile

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27 agosto 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Il giorno che spezzò il monopolio della bomba

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Fonte: Russia Today 29 Agosto 2009

L’arma più devastante mai creata dall’umanità è diventata probabilmente il più grande strumento politico per mantenere la pace. Entrata in vigore alla fine della guerra più sanguinosa che abbiamo mai provato, ha contribuito a impedire che una ancor più micidiale scoppiasse, garantendo uno scenario senza vincitore.

Per l’Unione Sovietica, creare la propria arma nucleare è stato una delle più grandi prodezze tecnologiche e scientifiche, anche rispetto ad altri sbalorditivi progetti di industrializzazione. In meno di sette anni, tre dei quali il paese è stato impegnato nella Seconda Guerra Mondiale, l’intero nuovo settore atomico è stato creato praticamente da zero. Il progetto consumò una quantità senza precedenti di risorse ricavate con metodo da ‘non-fare-domande’ dalla leadership governativa, e la maggior parte delle persone coinvolte avevano poca conoscenza di quello su cui stavano lavorando.

Origini Atomiche

È interessante notare che, nel 1930, periodo di molte scoperte nel campo della fisica nucleare, i progressi sovietici in campo erano circa allo stesso livello di quella di scienziati europei e americani. Ciò era dovuto in parte alla mancanza di segretezza nel campo della ricerca nucleare, che non era stata considerato come qualcosa in grado di portare risultati concreti nel prossimo futuro.

Diversi istituti che studiavano i fenomeni atomici in Unione Sovietica, compreso il dell’Istituto Fisico Tecnico di Kharkov, l’Istituto del radio a Leningrado ed il laboratorio di fisica nucleare dell’Istituto Fisico Tecnico di Leningrado (LFTI). Quest’ultimo raccoglieva un certo numero di giovani fisici, tra cui il futuro capo del progetto atomico Ivan Kurchatov.

Prima che la guerra interrompesse la ricerca, circa 700 documenti sulla struttura atomica, le forze forti, la fissione nucleare, i neutroni e la possibilità di una reazione nucleare a catena in uranio erano stati pubblicati nel paese. Ciò è avvenuto nonostante sia funzionari del governo che presso l’Accademia delle Scienze, fossero dubbiosi verso la ricerca nucleare, che prometteva poca applicazione pratica, nei primi anni ‘30.

Tuttavia al momento in cui la Germania nazista attaccò l’Unione Sovietica nel 1941, c’erano un bel po’ di brillanti scienziati nucleari nel paese, tra cui il futuro premio Nobel Igor Tamm, Julij Khariton – futuro capo costruttore della bomba stessa, Jakov Zel’dovic, Georgij Flerov, Konstantin Peterzhak, Anatolij Aleksandrov per citarne alcuni. Tuttavia, con l’inizio della guerra e dell’occupazione di gran parte della parte europea del paese il lavoro fu arrestato. Il Labortorio nucleare dell’LFTI fu evacuato, con la maggior parte del suo equipaggiamento essenziale abbandonato, e gli scienziati furono coinvolti nei progetti della difesa. Kurchatov, per esempio, stava lavorando su un sistema che proteggeva le navi da guerra dalle mine magnetiche.

Il detonatore dell’Intelligence

Il lavoro sul “problema uranio” fu ripreso, con il sostegno governativo nel settembre del 1942, dopo che molti frammenti d’informazioni spinsero nuovamente la leadership sovietica a considerare le implicazioni pratiche della ricerca nucleare.

Uno era l’evidente mancanza di nuovi documenti sulla fisica nucleare e di qualsiasi altro documento, da autori occidentali in precedenza interessati a questo settore. Georgij Flerov scrisse una lettera a Sergej Kaftanov, l’uomo del governo che supervisionava le possibili applicazioni militari, per richiamare la sua attenzione sul fatto, sostenendo che ciò voleva dire che la ricerca era stata classificata.

Allo stesso tempo, le relazioni raccolte da entrambe le intelligence dell’esercito e degli agenti della NKVD, la polizia segreta sovietica, indicavano che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti intendevano unire le loro ricerche sull’utilizzo dell’uranio come un potente esplosivo. Ad esempio Mosca aveva informazioni dettagliate sul lavoro svolto da parte della commissione inglese MAUD (Applicazione Militare dell’Uranio da Detonazione), che alla fine ha portato all’avvio del Progetto Manhattan.

E documenti catturati ad un ufficiale tedesco nel febbraio 1942, dimostrò che anche i nazisti avevano un progetto simile. Dopo aver consultato i principali fisici come Joffe, Semenov, Khlopin e Kapica sulla fattibilità di una bomba nucleare, Joseph Stalin avrebbe tratto la sua conclusione: “Dovremmo farlo anche noi“.

A capo dell’LFTI vi era Abram Ioffe, che è spesso definito il padre della fisica della scuola sovietica, fu offerta la direzione della ricerca, ma rifiutò, dicendo che era troppo vecchio per questo lavoro e propose invece il suo allievo Kurchatov.

I dati dell’intelligence svolsero un ruolo importante nel progetto nucleare, riducendo i tempi e dando agli scienziati idee su cui la loro ricerca avrebbe portato. Kurchatov verificava sistematicamente le relazioni degli agenti sul “Progetto Enorme“, nome in codice del programma americano di ricerca delle armi nucleari, e dava le sua analisi al capo della NKVD, Lavrentij Berija, che supervisionò lo sforzo atomico sovietico. Alcuni degli informatori più utili restano classificati, altri come il tedesco Klaus Fuchs, poi cittadino britannico, sono stati indicati in quanto tali. Fuchs ha trascorso nove anni di carcere per spionaggio prima della sua liberazione nel 1953, e successivamente emigrò in Germania orientale.

Il contributo che lo spionaggio sovietico ha giocato nel promuovere la ricerca nucleare è discusso, alcuni studiosi sono giunti a dire che i russi “hanno rubato la bomba agli americani“. Tuttavia la maggior parte concorda sul fatto che si è risparmiato tempo, piuttosto che aprire la via principale alla possibilità del successo. Il programma atomico era troppo complesso e senza il talento e gli sforzi enormi dei ricercatori, ingegneri e operai, tutto lo spionaggio non sarebbe stato sufficiente.

Uranio e cervelli Tedeschi

Un altro fattore che ha aperto le scorciatoie all’Unione Sovietica nel programma nucleare è stata la sconfitta della Germania nazista.

Per una volta, gli impianti tedeschi avevano grandi quantità di uranio, che mancava russi. Con il tempo la necessità di grandi quantità dell’elemento raro fu aumentata dagli scienziati nucleari, c’era una manciata di miniere di uranio in Unione Sovietica, e l’esplorazione di nuove ha richiesto fortuna e molto tempo.

La maggior parte dell’uranio immagazzinato in Germania è stata recuperata da un gruppo americano, ma il resto cadde nelle mani dei sovietici. Secondo Kurchatov, senza l’uranio catturato in Germania, il primo reattore nucleare sperimentale costruito a Mosca, sarebbe stato portato alla criticità, non nel febbraio del 1946, ma un anno dopo.

Non meno importante è che molti importanti scienziati tedeschi e circa 300 specialisti, che avevano lavorato sul Terzo Reich proprio sul progetto nucleare, sono stati assunti dall’Unione Sovietica. Nikolaus Riehl, un fisico tedesco di origini russe, fu a capo di un impianto di uranio nei pressi di Mosca, mentre il famoso inventore Manfred von Ardenne e il vincitore del Premio Nobel, Gustav Hertz, hanno lavorato sulla separazione isotopica in Abkhazia. Per il loro contributo, molti scienziati tedeschi hanno ottenuto onorificenze dal governo.

L’obiettivo fondamentale

Dopo che gli Stati Uniti hanno utilizzato le bombe nucleari contro il Giappone nel 1945, la necessità di Mosca di avere l’arma potente diventò quanto mai urgente. Una commissione speciale governativa con potere praticamente illimitato fu formata. Includeva i vertici del governo, tra cui Berija, il vicepresidente del gabinetto Georgij Malenkov, i ministri della pianificazione economica, dell’industria pesante e chimica, e Kurchatov, che guidava tutta la ricerca scientifica.

La commissione e i suoi componenti erano top secret, ma potevano attingere a qualsiasi risorsa materiale e umana per raggiungere il loro obiettivo. Preservò il programma atomico da gran parte della burocrazia. Da parte sua, il torbido Berija si affidò all’esperienza dell’NKVD nell’impiegare i detenuti nel Gulag negli altri progetti. Molti impianti, necessari per creare la bomba, sono stati costruiti dalle vittime della repressione politica.

In aggiunta al programma atomico, il Comitato ha anche gestito la ricerca nella missilistica e nella creazione del sistema di difesa aerea attorno a Mosca.

Nel 1949, almeno cinque anni prima delle stime degli esperti occidentali nucleari, lo sforzo di tutto il paese diede il tanto atteso risultato. Il 29 agosto, la prima bomba nucleare, l’RDS-1, fu fatta esplodere nel poligono di Semipalatinsk, nel Kazakistan.

Il Primo Lampo

La bomba fu posta in una torre di 30 metri, con decine di veicoli militari, edifici in mattoni e legno, fortificazioni e animali di prova messo intorno ad esso, a distanze diverse. C’erano anche diverse gallerie sotterranee scavate per vedere quanto sarebbero state danneggiate dall’esplosione da 20 kilotoni. L’esplosione fu monitorata da telecamere e da numerosi strumenti.

Il fallout radioattivo fu registrato da un aereo-spia in pattugliamento alle frontiere sovietiche, e presto al presidente americano Truman fu segnalato che il monopolio nucleare non c’era più. Da tempo gli ex alleati si erano trasformati in acerrimi nemici, e i generali occidentali stavano preparando dei piani per una possibile nuova guerra – questa volta contro l’Unione Sovietica. Alcuni piani prevedevano massicci bombardamenti dei centri industriali sovietici con bombe nucleari e convenzionali. La Guerra Fredda era in pieno svolgimento e si scivolava verso una calda.

La notizia che Mosca aveva armi nucleari ebbe un effetto agghiacciante, soprattutto per i membri europei della neocostituita NATO, che erano ovviamente i principali bersagli di un attacco nucleare in caso di guerra.

Altre prove riuscite seguirono la prima inaspettata esplosione. Gli scienziati sovietici testarono la loro prima bomba termonucleare, RDS-6, nel 1953, appena un anno dopo che gli americani avevano testato il loro primo dispositivo Ivy Mike. Il disegno a strati era assolutamente diverso ed è stato successivamente abbandonato per la bomba scalabile a due stadi. D’altra parte Ivy Mike era un 62 un ordigno di prova di 62 tonnellate, mentre la  bomba “Slojka“, come veniva chiamata, era utilizzabile come arma, il che rende la primogenitura nella produzione della bomba H discutibile.

Come parte del confronto ideologico, l’arsenale sempre più grande di armi nucleari, trasformava i dispositivi di guerra nel miglior argomento per non farla. Le superpotenze hanno dovuto negoziare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolítica

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Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolítica
direzione editoriale di Miguel Ángel Barrios

1ª ed. – Buenos Aires: Biblos, 2009

Presentación
Helio Jaguaribe

Prólogo
Andrés Rivarola Puntigliano

Introducción
Rafael Calduch Cervera

Prefacio
Miguel Ángel Barrios


Autori

Santiago Jacobo Atencio. Comandante mayor (RE) de la Gendarmería Nacional Argentina. Licenciado en Relaciones Internacionales (Universidad Católica de Salta). Fue interventor jefe de la Policía de Santiago del Estero. Actual coordinador del área de control integrado de Posadas (Argentina) y Encarnación (Paraguay) con dependencia directa de la Dirección de Asuntos Técnicos de Frontera del Ministerio del Interior de la Republica Argentina.

Lucio Benítez Escalante. Licenciado en Ciencias Jurídicas, Políticas y Diplomáticas (Universidad Nacional de Asunción). Diplomatura en Derechos Humanos y Derecho Internacional Humanitario para las Fuerzas Armadas (Instituto Interamericano de Derechos Humanos de El Salvador).

Raquel Careaga. Licenciada en Relaciones Internacionales (Universidad Católica de Salta, Argentina).

Patricio Carvajal Aravena. Profesor de Estado en Historia y Geografía (Pontificia Universidad Católica de Valparaíso). Licenciado en Historia (Pontificia Universidad Católica de Valparaíso). Becario DAAB, HAB, AG (Alemania Federal). Investigador en el Institut für Europäische Geschichte Instituto de Historia Europea, Universidad de Mainz, Alemania). Investigador FONDECYT (Chile). Jefe Departamento de Investigación Academia Nacional de Estudios Políticos y Estratégicos (Ministerio de Defensa Nacional, Chile). Estudios de posgrado en Alemania Federal en Ciencias Políticas, Relaciones Internacionales e Historia Contemporánea, Geopolítica.

Gustavo Cardozo. Licenciado en Relaciones Internacionales (Universidad Nacional del Centro de la Provincia de Buenos Aires, A r g e n t i n a). Coordinador de la revista Global Asia para América Latina. Columnista de la revista Ojos del Sur. Revista de divulgación Internacional Iberoamericana (Montevideo, Uruguay). Investigador asociado del Instituto de Análisis Internacional de Galicia y del Observatorio de Políticas Chinas, Casa de Asia. Coordinador de gestión y docente de la Escuela de Políticas Públicas (Fundación democracia, Circulo de Legisladores del Congreso la Nación, Argentina).

Clemente Antonio Díaz. Capitán de navío de la Armada de la República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias Navales con especialización en Electrónica (Escuela Naval de la República Bolivariana de Venezuela). Magíster en Administración de Empresas (Universidad Central de República Bolivariana de Venezuela). Actual comandante del Escuadrón de Fragatas de la Armada de la República Bolivariana de Venezuela.

Ezequiel Alejandro Escudero. Licenciado en Relaciones Internacionales (Universidad Nacional del Centro de la Provincia de Buenos Aires, Argentina). Coordinador de gestión y docente de la Escuela de Políticas Públicas (Fundación Democracia, Círculo de Legisladores del Congreso de la Nación Argentina). Columnista especializado en temas africanos, Ojos del Sur. Revista de Divulgación Internacional Iberoamericana (Montevideo, Uruguay).

Jesús José García Rivero. Capitán de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Militares con especialización en Administración Pública (Escuela de Formación de Oficiales de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela). Especialista en Gerencia de Seguridad Pública (Escuela Superior de la Guardia Nacional Bolivariana de la República Bolivariana de Venezuela). Posgrado en Crimen Organizado Transnacional (Instituto Universitario de la Policía Federal, Argentina).

Hernán Hómez. Teniente coronel de la Guardia Nacional Bolivariana de La República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Militares (Escuela de Formación de Oficiales y de la Guardia Nacional República Bolivariana de Venezuela).

María Florencia Incarnato. Licenciada en Ciencia Política (Universidad de Buenos Aires). Coordinadora de gestión y docente de la Escuela de Políticas Públicas (Fundación Democracia, Círculo de Legisladores del Congreso de la Nación, Argentina). Docente de la carrera de Ciencia Política (Universidad de Buenos Aires).

Juan Carlos Márquez Fermín. Capitán de navío de la República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Navales, con especialización en Electrónica (Escuela Naval de la República Bolivariana Venezuela). Actual jefe de la División de Juegos de Guerra de la Escuela Superior de Guerra Naval de la Armada de la República Bolivariana de Venezuela.

Silvio Orlando Medina. Licenciado en Historia (Universidad Nacional de Misiones, Argentina). Docente en los niveles medio y superior en instituciones públicas y privadas de la Argentina. Investigador independiente en cuestiones de seguridad y educación.

Afonso Henrique Ignacio Pedrosa. Coronel del Ejército brasileño. Licenciado en Historia (Centro Universitário de Brasilia). Posgraduado en Historia Militar (Universidade do Rìo de Janeiro). Actual analista de la Subjefatura de Política y Estrategia del Estado Mayor del Ejército brasileño.

Carlos Alberto Pereyra Mele. Licenciado en Ciencias Políticas (Universidad Católica de Córdoba, Argentina). Analista en Geopolítica y Geoestrategia Suramericana.

Carmen Elena Mouchet. Abogada (Universidad Católica Andrés Bello, Caracas, República Bolivariana de Venezuela). Magister Scientiarum en Ciencias Jurídicas Militares (Universidad Nacional Experimental de las Fuerzas Armadas, Caracas, República Bolivariana de Venezuela). Asesora diplomada en Guerra Internacional, Cruz Roja Internacional. Profesora titular en la Escuela de Formación de Oficiales de la Guardia Nacional y en la Academia Militar de la Fuerza Armada Venezolana.

Armando Eloy Prieto Ventura. Capitán de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Militares con especialización en Administración Pública (Escuela de Formación de Oficiales de la Guardia Nacional, Caracas, República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela). Actual Jefe de Operaciones e Instrucción del Grupo de Acciones de Comando de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de Venezuela.

David Ríos Durán. Capitán de la Policía Nacional de Panamá. Licenciado en Defensa Nacional y Seguridad Publica (Universidad Especializada de las Américas, Panamá). Oficial de la Plana Mayor, Escuela Superior de Gendarmería Nacional (Buenos Aires, Argentina). Jefe de Planeamiento y ejecutivo de Operaciones Fluviales y Costeras de la Policía Nacional de Panamá.

Víctor Manuel Roa Sánchez. General de Brigada (Re) del Ejército de la República de Paraguay. Licenciado en Ciencias Militares (Academia Militar de Brasil, Río de Janeiro). Magíster en Planificación Estratégica Nacional (Instituto de Altos Estudios Estratégicos, Ministerio de Defensa Nacional, República del Paraguay). Secretario permanente del Consejo de Defensa Nacional, República del Paraguay. Director General del Instituto de Altos Estudios Estratégicos del Ministerio de Defensa Nacional de la República del Paraguay hasta 2009.

Víctor Armando Rutschman. Oficial de Policía (Cuerpo Comando, Policía de la provincia de Misiones, Argentina). Comisario general de la Policía de la provincia de Misiones (Argentina). Licenciado en Seguridad (Universidad de Morón, Buenos Aires, Argentina). Actual subjefe de Policía de la provincia de Misiones (Argentina).

Beltrán Sabatini. Licenciado en Seguridad (Instituto Universitario de la Policía Federal Argentina). Asesor y consultor en seguridad privada.

Jackson Sánchez Villarroel. Coronel del Ejército de la República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Militares (Academia Militar de la República Bolivariana de Venezuela). Magíster en Defensa Nacional (Escuela de Defensa Nacional, Argentina). Diplomado en Administración de Empresas (Universidad de Belgrano, Argentina). Actual adjunto al director de Operaciones Conjuntas del creado Comando Estratégico Operacional de la Fuerza Armada Bolivariana y director de Operaciones Terrestres del Comando Estratégico Operacional de las Fuerzas Armadas Bolivarianas de Venezuela.

Rubén Darío Santiago Servigna. Capitán de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias y Artes Militares (Escuela de Formación de Oficiales de la Guardia Nacional de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela). Posgrado en investigación de homicidios (Instituto Universitario de la Policía Federal Argentina).

Carlos José Vieira Acevedo. Capitán de navío de la Armada de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela. Licenciado en Ciencias Navales con especialización en electrónica (Escuela Naval de la República Bolivariana de República Bolivariana de Venezuela). Comandante de unidades fronterizas. Actual jefe de Estado Mayor y segundo comandante de la I Brigada de la Infantería de Marina. Edecán Coordinador del Señor Presidente de la República Bolivariana de Venezuela 2001-2003.


Il dialogo con l’Armenia e la nuova strategia geopolitica turca

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Non c’è dubbio che la firma dei due protocolli di intesa fra Turchia e Armenia – avvenuta meno di un mese fa – confermi la vocazione euroasiatica del  Paese della Mezzaluna.

Avevamo avuto modo di segnalare un anno fa (3 settembre 2008 :  “Caucaso in fiamme : la Turchia per la cooperazione e la stabilità dell’area” ; 29 settembre 2008 : “Turchia e Russia” : un esempio di collaborazione e di buon vicinato in un’area cruciale del mondo”  ; entrambi in questo sito)  i primi accenni di disgelo lungo un cammino che il ministro degli Esteri di Ankara, Davutoğlu, ha senza perifrasi definito “lungo”. I protocolli riguardano a) l’istituzione di normali relazioni diplomatiche fra i due paesi;  b) lo sviluppo delle relazioni bilaterali. L’intesa – o meglio il principio di un’intesa  che ci si augura stabile e duratura – è stata particolarmente sostenuta dal Presidente armeno Sarkisian, ma non avrebbe ragionevolmente potuto concretizzarsi senza l’intervento determinante dei russi, e questo in virtù degli ottimi rapporti instauratisi in questi ultimi anni tra Russia e Turchia.

Gli Stati Uniti, attraverso il portavoce del Dipartimento di Stato, hanno espresso il loro apprezzamento per l’accordo, dichiarandosi “pronti a lavorare da vicino”(circostanza questa che non sappiamo quanto Mosca gradisca), ma il loro ruolo nella ricerca di tale accordo non è stato fin qui certamente di primo piano. Inoltre l’ANCA (Armenian National Commitee of America), la potente lobby degli armeni “americani”, si è radicalmente opposta al processo di intesa, che a suo dire minaccia “interessi, diritti, sicurezza e futuro” dell’Armenia – rilanciando nell’occasione il tema dell’asserito genocidio dell’inizio Novecento  quale ostacolo alla riconciliazione.

Dicevamo all’inizio della vocazione euroasiatica (ergo : della funzionalità per l’Europa) della Turchia. Oltre che da considerazioni di carattere generale, più volte espresse, la conferma viene dalla politica estera di Ankara, che pur con qualche oscillazione presenta caratteristiche stabili in questa direzione. In particolare la nomina di Ahmet Davutoğlu a ministro degli Esteri (primo maggio 2009)ha segnato un rafforzamento del ruolo di ponte fra Asia ed Europa della Turchia, unito a un vivace attivismo in Africa. “In termini di geografia – così si è espresso Davutoğlu (1) – la Turchia occupa uno spazio unico. Nella vasta massa di terre afro-euroasiatiche  essa ha un ruolo centrale, e le sue diversità regionali favoriscono la sua capacità di muovere in diversi scenari internazionali”. E aggiunge  : “Il nostro impegno in Cile come in Indonesia, in Africa come nell’Asia centrale, presso la UE come presso la Conferenza degli Stati islamici rientrano in un approccio olistico alla politica estera, destinato a fare della Turchia un attore globale in vista del centenario della repubblica” (2).

Presentata talvolta come  “neo – ottomana” (3), la politica estera turca si sta di fatto orientando verso una concezione di pax euroasiatica, contrassegnandosi per la linea di condotta prescelta dall’AKP di Erdoğan : azzerare i problemi con i vicini. E’ venuta così a cadere sia la dimensione nazionalista – una sorta di revanscismo panturanico – ancora caldeggiata da alcuni ambienti militari e politici sia soprattutto il ruolo di “sentinella della Civiltà” assegnato alla Turchia dal mondo occidentale, NATO in testa. La “frontiera del mondo libero” non è più qui, perché Ankara intrattiene consistenti relazioni politiche ed economiche – spesso anche culturali – con la Russia e con l’Iran, con la Siria e con i paesi caucasici; con l’apertura di credito ad Hamas (4) il governo turco ha inoltre sparigliato il gioco convenzionale dei “buoni” e dei “cattivi” sullo scenario probabilmente più caldo e martoriato del pianeta.

In questa prospettiva va considerata l’iniziativa turco – spagnola dell’Alleanza delle Civiltà, che costituisce una credibile alternativa all’ideologia “unipolare” dello “scontro di Civiltà” sostenuta fin dall’inizio degli anni Novanta da Samuel Huntington e declinata da Bernard Lewis come conflitto fra “la nostra eredità giudeocristiana e un vecchio nemico …” (5) : un’ideologia che può assumere  strumenti diversi  (dall’interventismo militare dei neocons al “We have to persuade” di Tony Blair del 2008) ma che non cambia la sostanza e gli obiettivi della sua azione. Un precedente (1998) tentativo , promosso dall’allora Presidente iraniano Khatami, fallì senza lasciare traccia : si trattava del “Dialogo fra le Civiltà”, travolto dagli avvenimenti dell’Undici Settembre e dalla conseguente “guerra al Terrore”. Ora  l’Alleanza delle Civiltà si propone espressamente di favorire “il reciproco rispetto fra fedi religiose e tradizioni”, e i primi due Forum (Spagna 2008 e Turchia 2009) hanno riscosso interesse in molti paesi, indicando una linea di tendenza contraria al predominio a senso unico degli artefici del “Secolo Americano”. Tale politica concorda perfettamente con quella turca dell’azzerare i problemi con i vicini, mantenendo nel contempo un ruolo attivo e da protagonista nella soluzione dei problemi vicino-medio orientali : un ruolo che va a tutto beneficio di un Europa che intendesse finalmente svincolarsi da una concezione americanocentrica del mondo per aprirsi alla realtà di un’Eurasia in costruzione.

Note :

(1)   A. Davutoğlu, “Turkey’s New Foreign Policy Vision”, in Insight Turkey, vol. 10, n. 1 (2008), p. 78

(2)   Ibidem, p. 96

(3)   L’opinionista Ibrahim Kalin significativamente argomenta : “La postmodernità in Turchia assomiglia al suo passato ottomano”, in “Turkey and the MiddleEast : Ideology or Geo-Politics ?”, Private View, n. 13 (2008)

(4)   La posizione ufficiale turca è che Hamas non può essere esclusa dal processo di pace; Davutoğlu durante la crisi di Gaza ha personalmente incontrato due volte Khaled Mashal, leader dell’organizzazione in esilio in territorio siriano

(5)   B. Lewis, “The Roots of Muslim Rage”, Atlantic Monthly, vol.266 (settembre 1990), p. 60

* Aldo Braccio, geopolitico, esperto di Turchia ed area mediorientale è redattore di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (www.eurasia-rivista.rg)

Un anno fa, la guerra dei cinque giorni

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È trascorso più di un anno dalla guerra che ha colpito l’Ossezia del Sud, causando diverse centinaia di morti soprattutto tra la popolazione osseta, senza tuttavia risparmiare moltissimi civili e militari georgiani e russi.

Nel primo anniversario degli eventi segnati dall’attacco georgiano, tante sono state le iniziative promosse per ricordare la strage che ha aperto la strada al riconoscimento russo dell’indipendenza osseta. Commemorazioni e cerimonie si sono avute a Tskhinval, ma anche in Ossezia del Nord ed in diverse zone della Russia, soprattutto Mosca e San Pietroburgo, in Ucraina e perfino in alcuni Stati dell’Unione Europea. Le manifestazioni più significative soprattutto nei paesi con una numerosa diaspora osseta o con importanti sedi istituzionali internazionali, come Ginevra o Bruxelles.

Anche la Georgia ha ricordato i suoi caduti, pure se con spirito e motivazioni diverse. La retorica antirussa continua ad essere il principale punto fermo del governo georgiano, negli ultimi mesi diversi ministri sono stati nominati e licenziati in brevissimo tempo. Segnali di incertezza a cui Saakashvili risponde con la proposta di un prossimo ingresso della Georgia nella NATO; una prospettiva che la stessa alleanza atlantica ha per ora escluso, almeno nel breve periodo.

La NATO peraltro può aiutare il paese solo negli aspetti militari, come dimostra l’arrivo in Georgia di circa 70 Marines per addestrare le truppe di Tbilisi, ufficialmente destinate a combattere in Afghanistan. Una situazione simile a quanto visto nell’estate 2008, quando ufficiali americani arrivarono in Georgia, pochi mesi prima dell’attacco all’Ossezia, per addestrare le truppe locali in partenza per l’Iraq.

È tuttavia assai difficile che la NATO possa fornire una soluzione contro la disoccupazione e gli effetti drammatici della crisi economica sulla popolazione rurale. I contadini certamente preferirebbero riprendere l’esportazione di vino in Russia piuttosto che osservare il variopinto esercito americano esercitarsi nei boschi attorno alla base militare di Vaziani.

Ogni osservatore politico indipendente ed onesto dovrebbe riconoscere che i principali problemi economici della Georgia si trovano a Tbilisi o a Kutaisi, non a Sukhum o Tskhinval. La questione dei profughi georgiani fuggiti dalle guerre degli anni ’90, ad esempio, che pure rappresenta un grande problema umanitario più che politico, non fu mai volutamente affrontato da Shevardnadze per dimostrare ai Georgiani che il suo governo avrebbe potuto acquisire il controllo dei territori perduti in breve tempo. Da quel momento sono però trascorsi quasi 20 anni, e gran parte dei civili, scappati da guerre lunghissime ma terribilmente simili all’Operazione “Clean field”, continua ad abitare in campi profughi ed alberghi requisiti dal governo.

Anche a livello diplomatico nulla è cambiato dalla scorsa estate: nessuna traccia di disgelo tra Tbilisi e Mosca, soprattutto dopo il riconoscimento russo dell’indipendenza di Ossezia del Sud ed Abkhazia; è forse proprio quest’ultima, l’Abkhazia, il territorio che la Georgia non vorrebbe avere mai perso, poiché le sue bellissime zone costiere e montagne selvagge rappresentarono nel periodo sovietico una risorsa vitale per l’economia di Tbilisi.

Da tempo esiste un legame profondo tra Abkhazi ed Osseti, un destino comune che spesso ha portato ad una collaborazione militare, economica ed umanitaria molto attiva e sentita. L’ultimo episodio accadde l’anno scorso, quando gli Abkhazi combatterono contro le truppe georgiane presenti nell’Alta Valle di Kodori, impedendo ai reparti di Tbilisi di concentrarsi in massa nell’assedio di Tskhinval.

Il 26 Agosto a Sukhum e Tskhinval è stata comunque una giornata di festa, anche se le celebrazioni per l’indipendenza riconosciuta sono sembrate decisamente sobrie. D’altronde, il ricordo dei tank per le vie delle città non si può cancellare facilmente. La città inoltre porta ancora oggi i segni dei bombardamenti, anche se le opere di ricostruzione procedono.

Un anno di vera pace è stato però il regalo più bello per la popolazione dell’Ossezia del Sud. Il presidente russo Dmitrij Medvedev, che poche settimane prima aveva visitato Tskhinval per incontrare il suo collega osseto Eduard Kokojty, ha ribadito ancora una volta con fermezza che la Russia non farà mancare il suo aiuto, e soprattutto che l’atto di riconoscimento dell’indipendenza di Abkhazia ed Ossezia del Sud non sarà rivisto o messo in discussione.

Nel frattempo la collaborazione tra i due paesi ha già dato un risultato concreto di grande importanza: il nuovo gasdotto sponsorizzato dal colosso economico russo Gazprom. La struttura del gasdotto, caratterizzata dall’attraversamento di catene montuose particolarmente impervie ed elevate, consentirà di far giungere il metano dalla cittadina russa di Dzuarikau alle principali città sud-ossete di Tskhinval e Kvajsa, migliorando di fatto le possibilità di urbanizzazione e gli insediamenti nelle zone di fondovalle.

Il gasdotto, inaugurato a fine Agosto, ha permesso di riportare l’Ossezia del Sud sulle pagine della stampa internazionale. La ricostruzione e le prospettive di sviluppo futuro potranno finalmente rendere la “Guerra dei Cinque Giorni” una dolorosa esperienza del passato.

Luca Bionda, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, esperto dell’area Caucasoe Asia centrale.

Terrorismo Ambientalista e Governo Mondiale

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Ci sono temi che non passano attraverso il filtro delle idee politiche o della diversità culturale dei vari popoli, ma che vengono diffusi e presi per buoni dalle istituzioni che operano a livello mondiale. Tali questioni sono il pane quotidiano delle organizzazioni transnazionali e dei vari gruppi che si muovono a quel livello.

La prima in assoluto è la “questione ambientale”. Le grandi organizzazioni “globali” ne hanno fatto il proprio cavallo di battaglia, il Presidente degli Stati Uniti ha utilizzato l’attenzione all’ambiente come tema privilegiato nella campagna elettorale nella quale ha stravinto, e ora tutto il mondo si aspetta grandi “cambiamenti”. Ma la realtà dei fatti è più spinosa di quella che sembra. Per cominciare bisognerebbe chiedersi se l’interesse per l’ambiente di questi grandi poteri sia una garanzia di cambiamenti in senso positivo: ci aspettiamo davvero che il governo statunitense, o l’Onu, agiscano per il nostro bene? Da decenni parlano e compiono riforme economiche che non hanno portato a nulla se non al capitalismo sfrenato e alla crisi economica; da decenni parlano di “sviluppo” dei paesi poveri (“in via di sviluppo”, appunto), ma la situazione è costantemente peggiorata; da secoli parlano di “pace”, ma continuamente scoppiano, per interessi inconfessabili, nuove guerre (che un certo “pacifismo” ritualizzato non ha gli strumenti per esorcizzare). Questo non per fare del pessimismo cosmico, ma per sottolineare come sono proprio i poteri che sono dietro la globalizzazione economica (liberismo, capitalismo) e la mondializzazione culturale che si trovano in prima fila per denunciare i pericoli ambientali. Non è sospetto tutto ciò?

Ma ovviamente gli interessi di chi denuncia il degrado ambientale e chiede immediati provvedimenti non è quello di preservare l’ecosistema (distrutto a causa dell’attuale modello economico, mai messo in discussione), bensì quello di creare un allarme globale al quale far seguire un Governo Mondiale. Dopo aver terrorizzato l’intero globo attraverso film hollywoodiani, diffusi da MTV e da ogni canale occidentale, dopo aver inculcato all’intera popolazione mondiale l’incubo della fine del mondo, avranno gioco facile a far accettare a tutti provvedimenti globali, e quindi un Governo Globale. È chiaro come un Governo Mondiale abbia un centro decisionale ben preciso ed è proprio questo che ci aiuta a capire la questione: infatti chi oggi ritiene necessario questo Governo Mondiale non sono altro che gli appartenenti alla coalizione “occidentale” guidata dagli Stati Uniti d’America, vale a dire l’unica superpotenza che oggi si trova in declino e che, per preservare il proprio dominio, tenta questa strada globalizzatrice. In questo modo riuscirebbe a mantenere salde (o a riprendere) le redini del “villaggio globale” che, dopo il crollo dell’URSS, ha tentato di costruire.

Con nuove potenze in enorme crescita, potenze come Russia, Cina, India che sempre più spesso compiono scelte in contrasto con Washington, gli Usa si trovano oggi in difficoltà, e la crisi economica che colpisce soprattutto l’egemonia del dollaro non fa che peggiorare la situazione; ecco allora che il terrorismo ambientale è un’ottima strategia per poter imporre al mondo intero alcune scelte le quali potranno preservare l’egemonia a stelle e strisce. Più praticamente, oltre il Governo Mondiale vero e proprio, che non sarebbe altro che l’istituzionalizzazione della globalizzazione (coerentemente con il “Destino Manifesto” americano, che tradizionalmente postula che siano gli Stati Uniti a dover guidare l’intero globo), in ambito ambientale ci sono dei precisi campi d’azione con i quali si vuole preservare l’egemonia yankee. Primo fra tutti è il modo con cui si è deciso di applicare le riduzioni di emissioni nocive; gli Stati Uniti non hanno mai accettato e firmato il protocollo di Kyoto per un motivo semplicissimo: per loro avrebbe senso soltanto se venisse firmato dalle potenze in rapida crescita, in primis India e Cina, così che si possa mantenere l’attuale scarto a vantaggio degli USA; infatti applicare le suddette riduzioni significa investire in tecnologie e sicurezza , cosa che comporta una riduzione della ricchezza nazionale e quindi della crescita; ma finchè a dover investire sono tutti, gli attuali equilibri vengono mantenuti. Senza contare come gli Usa, da centro unipolare quale sono, cercano di accaparrarsi  le moderne tecnologie (soprattutto brevetti e cervelli), e lasciare agli altri le tecnologie obsolete. Purtroppo (per gli Usa) le cose non sono così facili: in primo luogo Cina e India non sono tenute a firmare Kyoto in quanto hanno diritto a pervenire allo “sviluppo” che in passato hanno raggiunto, senza badare agli effetti dell’inquinamento, le potenze occidentali; in secondo luogo, l’inquinamento pro capite di Cina e India è di circa 20 volte più basso di quello Usa, per via del gran numero della popolazione e per la vastità di questi Stati; quindi, porre dei freni (in questo modo) al loro inquinamento è un modo per colpire duramente la ricchezza nazionale e le popolazioni di quei Paesi (che per il livello economico e sociale in cui si trovano sono migliaia di anni luce in avanti rispetto all’Occidente riguardo l’utilizzo di materiali riciclati e sostenibili), a tutto vantaggio di una minoranza ricca occidentale, che in quel modo si assicura di preservare il proprio eccessivo stile di vita.

Un’altra conferma che l’interesse alla riduzione delle emissioni ha come scopo il mantenimento dell’egemonia occidentale a guida statunitense è il modo in cui questa verrà attuata. In pochi infatti fanno notare come la politica contro l’inquinamento presuppone un vero mercato borsistico in cui si metteranno in vendita porzioni di inquinamento; è il meccanismo definito Cap and Trade, secondo il quale le imprese che eccederanno nell’inquinamento potranno pagare, cioè comprarsi, quella quota eccedente. Peccato, ed è qui che si capisce l’inganno, che non si voglia fare una vera e propria tassa pubblica sull’inquinamento a tutto vantaggio degli Stati, ma che tutto questo debba avvenire in una borsa privata, la Chicago Climate Exchange (1), di cui la famigerata banca Goldman Sachs ha già provveduto a rilevare il 10%. È chiaro come in questo modo, con una borsa controllata dagli Stati Uniti, si ripropone il vantaggio che Washington ha avuto sino ad ora, per esempio grazie all’utilizzo del dollaro come valuta di riferimento mondiale. Chi controlla il banco vince, e protegge la propria supremazia. E per fare tutto questo, come detto, c’è bisogno di terrorizzare e globalizzare l’opinione mondiale, cosa che fanno egregiamente personaggi come Cohn-Bendit, leader ecologista legato a Joschka Fischer (2), che sulle pagine dei quotidiani propaganda il capitalismo, l’economia di mercato, afferma che non ci sono più ideologie e ci insegna come l’ecologismo sia il nuovo modo per attrarre consensi. O come fanno egregiamente le centinaia di film come l’ultimo “The age of stupid”, utili per creare allarme e convincere le popolazioni mondiali, primi fra tutti le classi dirigenti onusiane, che le misure sin qui citate sono necessarie per il bene di tutti.

Un’altro tema simile a quella ambientale, ma oggi lasciato in secondo piano, è quello “storico” relativo al problema dell’eccessivo peso demografico delle popolazioni mondiali. Per tutta una schiera di “studiosi”, infatti, il mondo si avvia verso la catastrofe poiché ha troppi abitanti. Conosciamo questa posizione perché ripetuta sin dagli anni 70, preannunciando disastri ambientali,  dal “Club di Roma”, e negli anni seguenti da varie agenzie dell’ONU, fino a giungere ai nostri giorni, in cui non è più propagandata come prima (è sostituita dai “disastri” ecologici), ma rappresenta il coerente completamento della “questione ambientale”. Basti pensare che il maggiore consigliere di scienza e tecnologia di Obama, John Holdren, ha scritto un libro (3) in cui auspica un “Regime Planetario” col quale attraverso una “forza di polizia globale” si possa amministrare la demografia mondiale. In questo libro arriva ad auspicare (leggere per credere) aborti forzati, sterilizzazioni forzate e via dicendo; come è facile notare, l’interesse è sempre quello di mantenere l’egemonia mondiale “statunitense” (o meglio delle elite mondialiste), ed infatti l’autore fra le altre cose afferma: “Per fortuna nella maggior parte dei Paesi Sviluppati, quasi tutti i gruppi si controllano nel riprodursi”; questo sottolinea come, ancora una volta, il problema, per costoro, sono le grandi masse dei “Paesi in via di sviluppo”, che producendo ricchezza stanno sfidando gli attuali equilibri mondiali. Non è un caso che da questi stessi ambienti si consideri estremamente positiva l’emigrazione (con spregio per i drammi umani che nasconde), in quanto questa concorre a creare un villaggio globale (la globalizzazione senza culture) e a spostare masse di sfruttabili, a tutto vantaggio del futuro centro del Governo Mondiale responsabile dell’amministrazione di tutto ciò.

Per concludere, è evidente come un miglioramento della situazione ambientale sia un vantaggio per tutti i popoli della terra, ma bisogna tenere gli occhi ben aperti e valutare chi e come dice di voler risolvere la questione. Quello che si sta notando in questi tempi in cui l’egemonia degli Usa è messa in pericolo da crisi economica e crescita di potenza di altri Stati, è l’interesse di Washington e dei suoi vassalli nel creare la necessità fittizia di un Governo Mondiale. In questo modo si riuscirebbe a mantenere ancora il decadente unipolarismo Usa, frenando il sorgente multipolarismo, garante di maggiore giustizia internazionale. Un approccio costruttivo e civile (nel senso proprio “di civiltà”) a tali questioni, quindi, non deve passare dalla creazione di un Governo Mondiale (che ricorda da vicino l’incubo preconizzato da Orwell), bensì attraverso la ricerca di sovranità, attraverso maggiore integrazione e cooperazione regionale e continentale fra Stati ed aree come lo spazio eurasiatico, il Sud America ecc. Solo un approccio di questo tipo garantirà equilibrio e giustizia nei rapporti internazionali e, di conseguenza, per le popolazioni di tutto il mondo.

1)      “Sarà la carbon-tax, lo vuole Goldman e Rothschild”, di Maurizio Blondet – www.Effedieffe.com, 12 luglio 2009

2)      Riprendo da un altro articolo: “Un’appendice particolare merita il presidente del Nabucco (il gasdotto “americano” antagonista di quello euro-russo South Stream): Joschka Fischer. Questo, nel sessantotto attivissimo esponente “rivoluzionario”, poi verde-ambientalista, oggi è a capo del progetto Nabucco; esso è membro del Council on Foreign Relations, la fondazione privata dei Rockefeller, che è praticamente il centro dove si teorizza la politica estera statunitense e da dove nascono sia il gruppo Bilderberg che la Trilateral (giganti del capitalismo e del liberismo sfrenato). Oltre a confermarci la totale sottomissione agli interessi Usa, questo ci fa notare come il percorso individuale di alcuni famosi personaggi, che dal liberale Sessantotto sono passati alla fine ideologica della politica rappresentata dai verdi e dagli ambientalisti, oggi siano fautori di interessi petroliferi e capitalistici statunitensi… non si pensi ad un’eccezione, è la regola”. http://www.cpeurasia.org/?read=30420

3)      Il libro è titolato “Ecoscience”; ne ha parlato ultimamente ancora M. Blondet riportando un articolo di “PrisonPlanet” titolato “Il maggiore consigliere scientifico di Obama auspicava il controllo forzoso della popolazione”. Per quanto riguarda John Holdren: http://en.wikipedia.org/wiki/John_Holdren

Grecia / Legislative 2009: Campagna elettorale

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In Grecia, a metà della campagna elettorale per il rinnovo anticipato del Parlamento (si vota il 4 ottobre), prima della presentazione delle liste i sondaggi indicano il vantaggio del Pasok – Movimento socialista panellenico, di George Papandreou, su Nd – Nuova Democrazia, il partito del premier Kostas Karamanlis, in carica dal 2004. In una rilevazione pubblicata dal quotidiano “Kathimerini” (realizzata da Public Issue), Pasok è al 41%, seguito da Nd al 35.5%, Kke – Partito comunista 8.5%; Syriza – Coalizione della sinistra radicale 4%, Laos – Partito popolare ortodosso 7%; Verdi ecologisti 2%; altri 2%. Anche altri sondaggi indicano il Pasok primo partito con un vantaggio oscillante dal 4.7% al 5.9%. Ma se dal dato percentuale si passa al numero di seggi, considerando il distacco più ampio (5.9) Pasok oscillerebbe tra i 148 e i 152, ovvero – nel dato più favorevole – un vantaggio di due seggi nell’Assemblea Nazionale (composta da 300 deputati). Sarebbe lo stesso rapporto di forze tra Nd e Pasok – a parti scambiate – risultato dalle precedenti elezioni nel settembre 2007.

A sinistra del Pasok non vi sono rilevazioni concordanti circa il risultato di Kke (tra il 5.5% e il 9%), mentre Syriza è tra il 3.5% e il 4.5%. I Verdi ecologisti, dopo il riscontro positivo delle elezioni europee di giugno, nella maggior parte delle rilevazioni sono al 2% tranne in una, dove con il 3.1% entrerebbero in Parlamento. Pasok potrebbe formare un governo monocolore ma, come già per Nd negli ultimi due anni, si troverebbe con una maggioranza minima, che in una fase politica, economica e sociale complessa come quella attuale, potrebbe essere prevedibilmente sottoposta a una opposizione netta, sia da sinistra (Syriza e Kke) sia dal centrodestra (Nd) sia soprattutto – a destra di Nd – da Laos di Georgios Karatzaferis, in costante crescita in tutte le elezioni dal 2004 a oggi.

Un confronto a distanza tra Karamanlis e Papandreou si è avuto tra il 13 e il 14 settembre, dopo la presentazione del programma del Pasok, con riferimento particolare ai temi dell’economia, alla 74esima Fiera Internazionale di Thessaloniki. Il leader del Pasok – una delle formazioni aderenti al Pse (Partito socialista europeo) più forti a livello nazionale – considerando l’attuale fase di crisi ha presentato un piano economico per i primi cento giorni, da attuare con il sostegno congiunto degli imprenditori, dei lavoratori e di tutte le forze produttive. Il Pasok propone di riavviare il mercato attraverso investimenti pubblici, a partire dal settore edilizio e da quello energetico, il rilancio delle aree rurali, il sostegno ai redditi medio-bassi con un aumento dei salari, una razionalizzazione delle spese statali e una riforma del sistema fiscale che porti a una redistribuzione della ricchezza.

Questo programma sarebbe avviato nei primi tre mesi della nuova legislatura con l’approvazione di leggi specifiche, in accordo con l’Unione Europea. A partire da questi primi provvedimenti, dovrebbe avviarsi un programma più ampio di sviluppo e stabilità da completare in tre anni. Insieme ai provvedimenti strutturali, Papandreou sostiene la necessità di un rinnovamento dell’immagine della politica, attraverso riforme in ambito elettorale, di regolamentazione parlamentare, e di decentramento amministrativo.

Karamanlis ha replicato a quanto prospettato da Papandreou per l’economia, considerandolo un programma vago e generico, con promesse irrealizzabili e concessioni in ogni direzione, al punto da moltiplicare i problemi piuttosto che risolverli. “Noi ci stiamo appellando a tutti i cittadini con un messaggio chiaro, per prendere decisioni difficili oggi in modo che i nostri figli possano avere un domani sicuro”, ha detto il primo ministro in occasione di un incontro del suo partito. Il 2010, sottolinea Karamanlis, sarà decisivo per l’economia, poichè l’intensità della crisi e la durata delle conseguenze sfavorevoli dipenderanno dalle politiche che saranno implementate. Critiche al piano economico di George Papandreou anche da Kke e Syriza, che lo considerano un programma di austerità non differente da quello di Nd. Alexis Tsipras, presidente di Synaspismos – Coalizione della Sinistra dei Movimenti e dell’Ecologia (la componente più grande di Syriza) ha detto che “la società vuole una politica differente da quella che porta all’incertezza del lavoro”.

Georgios Karatzaferis, leader di Laos, ipotizza che il suo partito potrebbe conseguire un risultato elettorale significativo, fin quasi al punto da poter ambire a diventare il terzo partito. Una ipotesi conseguente sia ai dati delle rilevazione realizzate sia al consenso riscontrato sul programma, ricordando ad esempio la convergenza su Laos del Partito degli ecologisti di Grecia. Karatzaferis ha criticato sia Nd sia Pasok, ritenendoli incerti nella gestione dei temi di interesse nazionale e non esclude che, dopo le elezioni, tra i due maggiori partiti vi possa essere un avvicinamento, sebbene Nd abbia preferito escludere esecutivi di coalizione.


Fonte: http://www.ninniradicini.it/

Luca Donadei, Europa a mano armata

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Luca Donadei
Europa a mano armata
prefazione del Gen. Fabio Mini

Fuoco edizioni, Roma 2009
Pagine 382, Formato 14cm x 20,5cm
ISBN 9-788890-375217

Il libro

A quasi venti anni dalla fine della Guerra Fredda, l’Europa non ha raggiunto quello stato di pace e sicurezza che tutti speravano. Oggi, come ieri, vengono consumati miliardi di euro per il settore difesa. Tra i primi dieci Paesi al Mondo per spesa nel settore militare, cinque sono europei.

In realtà il confronto Est-Ovest non si è mai esaurito e la guerra nella ex Yugoslavia non ne è stato altro che un tragico colpo di coda. L’unica variante è che, attualmente, all’Orso Russo si è aggiunto il Dragone Cinese ed il Vecchio Continente, pur con i suoi sempre accesi nazionalismi e sotto il perenne ombrello protettore della NATO, cerca a fatica di difendere il proprio ruolo di potenza egemone plurisecolare.

Il saggio di Luca Donadei è arricchito con l’Almanacco delle Forze Armate Europee 2009, un ricco manuale pieno di dati ed informazioni sullo stato della difesa di ogni singolo Stato europeo.

L’Autore

Luca Donadei, dottore in Scienze politiche, ha collaborato con organismi internazionali e locali sul tema delle migrazioni.

In Eurasia. Rivista di studi geopolitici ha pubblicato i seguenti saggi:

L’Impero di Mezzo è già in Italia (nr. 1/2006, pp. 77-84), Le rotte dei migranti e dei rifugiati. L’Italia, ponte fra Sud e Nord (nr. 4/2006, pp. 75-90).

Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra

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Carl Schmitt
Il concetto discriminatorio di guerra
introduzione di Danilo Zolo, traduzione di Stefano Pietropaoli
Laterza, Bari 2008
ISBN 9788842085034
pp. 128 | € 15,00

In breve

«Attraverso le dichiarazioni con cui il presidente Wilson, il 2 aprile 1917, ha deciso che il proprio paese partecipasse alla guerra mondiale contro la Germania, è entrato nella storia del moderno diritto internazionale il problema del concetto discriminatorio di guerra. Per le nazioni con una forma mentis chiaramente relativistica o agnostica, oggi non esiste più alcuna guerra santa, sebbene le esperienze della guerra mondiale contro la Germania abbiano mostrato come la propaganda bellica non abbia rinunciato a mobilitare quelle forze morali che sono comprensibili solo in una ‘crociata’. Ma per una guerra giusta la mentalità moderna esige determinati processi di ‘positivizzazione’ giuridica o morale.»

In queste pagine, pubblicate per la prima volta nel 1938, Schmitt propone una interpretazione fortemente suggestiva delle relazioni fra la ‘vecchia Europa’ e il ‘nuovo mondo’ americano e offre una preziosa chiave di lettura degli imponenti successi che la vocazione messianica ed egemonica degli Stati Uniti ha conseguito nella seconda metà del Novecento.
Danilo Zolo

Indice
Prefazione
La profezia della guerra globale di Danilo Zolo

Nota al testo di Stefano Pietropaoli -

Introduzione
- I. Discussione di due opere di teoria del diritto internazionale
- II. Discussione di due saggi tratti da The British Yearbook of International Law
- III. Discussione critica sulla svolta verso il concetto discriminatorio di guerra nel diritto internazionale
- Conclusione

Dall’Introduzione:

Da molti anni sono in corso nelle più diverse parti della terra lotte sanguinose, di fronte alle quali, nel consenso più o meno generale, si evita prudentemente di usare il concetto e il termine di guerra. Su questo è sin troppo facile fare dell’ironia. In realtà, non emerge qui nient’altro che la pura e semplice verità, ovvero che vecchi ordinamenti si stanno dissolvendo e al loro posto non ne sono ancora subentrati di nuovi. Nella questione del concetto di guerra si rispecchia il disordine dell’attuale situazione mondiale. Si manifesta ciò che è sempre stato vero, e cioè che la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra. Il diritto internazionale altro non è che un “diritto di guerra e di pace”, uno jus belli ac pacis, e rimarrà tale finché sarà un diritto di popoli indipendenti, organizzati su base statuale, e questo significa: finché la guerra sarà una guerra fra Stati [Staatenkrieg] e non una guerra civile internazionale [internationaler Bürgerkrieg]. Ogni disgregazione di vecchi ordinamenti e ogni inizio di nuovi rapporti solleva questo problema. All’interno di un medesimo ordinamento giuridico internazionale non possono coesistere né due concetti di guerra contrapposti, né due nozioni di neutralità che si annullino a vicenda. Per questo il concetto di guerra è oggi un problema la cui discussione obiettiva serve a disperdere la nebbia delle attuali ingannevoli finzioni e a mostrare la reale situazione del diritto internazionale odierno.

Le grandi potenze hanno oggi molte buone ragioni per cercare nozioni e concetti intermedi tra guerra aperta e pace effettiva. Le situazioni di fatto che vengono denotate con la formula “guerra totale” si avvicinano in maniera particolare a certe nozioni intermedie. Ma queste sono solamente rimandi e rinvii, attraverso i quali il nuovo problema del concetto di guerra non può in alcun modo essere risolto. Decisivo è che nella totalità di una guerra rientra soprattutto la sua giustizia. Senza il riferimento alla giustizia ogni rivendicazione di totalità sarebbe una vana pretesa. Di conseguenza, la guerra giusta in grande stile è oggi di per sé la guerra totale.

Attraverso le dichiarazioni con cui il presidente Wilson, il 2 aprile 1917, ha deciso che il proprio paese partecipasse alla guerra mondiale contro la Germania, è entrato nella storia del moderno diritto internazionale il problema del concetto discriminatorio di guerra. Per questo la questione della guerra giusta si è posta in una maniera completamente diversa da come era stata intesa dai teologi scolastici o da Ugo Grozio. Per le nazioni con una forma mentis chiaramente relativistica o agnostica, oggi non esiste più alcuna guerra santa, sebbene le esperienze della guerra mondiale contro la Germania abbiano mostrato come la propaganda bellica non abbia affatto rinunciato a mobilitare quelle forze morali che sono comprensibili solo in una “crociata”. Ma per una guerra giusta la mentalità moderna esige determinati processi di “positivizzazione” giuridica o morale.

La Società delle Nazioni di Ginevra è, se proprio dev’essere qualcosa degno di nota, fondamentalmente un sistema di legalizzazione. Essa non può che monopolizzare il giudizio sulla guerra giusta e mettere nelle mani di certe potenze la decisione sulla giustizia o ingiustizia della guerra, una decisione che è gravida di conseguenze e che è correlata alla svolta verso il concetto discriminatorio di guerra. La Società delle Nazioni è dunque, finché conserva questa forma, solo un mezzo per la preparazione di una guerra “totale” in sommo grado, e cioè una guerra “giusta” condotta con pretese sovrastatali e sovranazionali.

Stefano Pietropaoli, Abolire o limitare la guerra?

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Stefano Pietropaoli
Abolire o limitare la guerra?
Una ricerca di filosofia del diritto internazionale
Polistampa 2008,
pp. 208, € 18,00
ISBN: 978-88-596-0427-3

Il libro

Può il diritto limitare la violenza della guerra? È possibile regolare giuridicamente l’avvio, la condotta e la conclusione di un conflitto armato? Il desiderio di “abolire” la guerra sul piano giuridico è espressione di un’utopia irenista? Oppure non è altro che la pretesa di trasformare la guerra in un’azione di polizia internazionale, illimitata e discriminante, contro un nemico dell’umanità?

A queste domande, la cui attualità è ribadita dalla escalation di conflitti armati degli ultimi anni, il volume risponde mediante una ricostruzione delle proposte teoriche che hanno segnato la storia del rapporto tra guerra e diritto, dalla elaborazione del diritto bellico romano alla dottrina della guerra giusta medievale, fino all’esperienza del diritto internazionale classico della prima età moderna e al suo tragico epilogo con il primo conflitto mondiale.

Organizzazione dell’opera:

1. BELLUM JUSTUM. DAL DIRITTO BELLICO ROMANO ALLA «GUERRA GIUSTA» DEL MEDIOEVO CRISTIANO

Il diritto internazionale antico e il problema della guerra – Guerra e diritto nel mondo romano – La dottrina medievale della «guerra giusta» – Il dominio spagnolo e la conquista del Nuovo Mondo. Dallo jus gentium allo jus inter gentes – La Seconda Scolastica e la disputa teologica sulla conquista

2. LA «GUERRA REGOLATA» DEL DIRITTO INTERNAZIONALE CLASSICO

Premessa – Il superamento della Seconda Scolastica e la nascita del diritto internazionale moderno – I padri del diritto internazionale – La riscoperta umanistica del diritto feziale – Le regole di condotta della guerra. Dalle elaborazioni seicentesche alle codificazioni dell’Ottocento – La codificazione del diritto di guerra – La «linea dell’emisfero occidentale»

3. VERSO LA GUERRA DISCRIMINATORIA

Processare il nemico: verso un «giustizia politica internazionale» – L’ultima guerra – Processare il Kaiser. La svolta verso un nuovo ordinamento internazionale – Carl Schmitt e il declino dello jus publicum europaeum

Quattro excursus conclusivi – Bibliografia – Indice dei nomi

L’Autore

Stefano Pietropaoli, dottore in Giurisprudenza (Università di Firenze), dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali (Università di Pisa), segretario del centro di ricerca Jura Gentium, assegnista presso il Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto (Università di Firenze). Contributi pubblicati in Eurasia. Rivista di studi geopolitici: Dalla guerra limitata alla guerra senza limiti. Ascesa e declino dello jus publicum europaeum (nr. 4/2007, pp. 115-143)


Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica

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In questi tempi in cui il processo di globalizzazione limita gli spazi del permessivismo internazionale, l’UNASUR può diventare uno strumento d’autonomia di grande successo per i nostri paesi. In questa congiuntura storica non c’è niente di più favorevole che la creazione di una massa dottrinaria che risponda alle urgenti esigenze d’integrazione latinoamericana, osserva il professor Helio Jaguaribe nel prologo del Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica, diretto da Miguel Ángel Barrios ed elaborato da un gruppo di ricercatori latinoamericani.

Il processo di globalizzazione, con i suoi possenti effetti denazionalizzanti, riduce in maniera violenta e accelerata lo spazio di permissività internazionale dei paesi sottosviluppati. Simili processi difendono gli aspetti formali della sovranità di questi paesi, come l’inno nazionale, la bandiera, gli eserciti da parata, le elezioni – quando si riferisce a società democratiche -. Tuttavia, premure irrefrenabili di carattere economico, finanziario, tecnologico, politico, culturale e, quando si rende necessario, militare, costringono i dirigenti di quelle nazioni, lo vogliano o no, ad adottare politiche compatibili alle esigenze del mercato internazionale. Questo impegno li porta a trasformarsi, di fatto, in semplici segmenti del mercato internazionale, internamente controllato dalle grandi multinazionali e, esternamente, dai centri del potere mondiale, asserisce il politologo brasiliano. Ed è in questo modo che paesi come l’Argentina e il Brasile – così come il resto dei paesi sudamericani – da soli non possiedono alcuna possibilità di costruirsi un proprio destino.

L’Unasur, e il suo successo, rappresentano l’unica condizione per diventare autonomi nel secolo XXI, e questo successo potrà essere efficace solo se poggia in una visione condivisa del mondo. Ha a che fare con qualcosa che ancora non si è raggiunto ma che, ciò nondimeno, non potrà non avvenire, man mano che si procede a un’analisi obiettiva delle grandi tendenze geopolitiche che ora si possono osservare nel mondo, rileva Jaguaribe. Nello stesso tempo, è importante osservare che l’Unasur sarà possibile solo se i suoi partecipanti rinunciano a qualsiasi pretesa di leadership unilaterale e agiscano, senza eccezione, in conformità a un previo consenso d’interesse regionale, leadership che nell’America meridionale – come di solito in altre regioni – dipendono dal fatto che sono emanate da proposte e progetti che sono vantaggiosi per gli altri paesi della regione, fa notare l’accademico.

In questo senso, l’edizione del  Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica colma un vuoto e apporta un’analisi attuale dello scenario internazionale a partire da una necessaria logica sudamericana e, in parte, rimedia un deficit sulla tematica, in funzione della geopolitica della globalizzazione, il che lo fa diventare un’opera innovatrice su molti aspetti, assicura Jaguaribe riferendosi al libro diretto da Barrios e compilato da un’equipe di ricercatori latinoamericani. Dal canto loro, il professor Andrés Rivarola Puntigliano e l’accademico spagnolo Rafael Calduch Cervera, i quali hanno anche collaborato al prologo della pubblicazione, nei loro lavori s’incaricano di sviluppare un nuovo concetto di “geopolitica” applicabile all’America latina con la comparsa di nuovi conglomerati sudamericani mediante l’Unasur, nel primo caso. Dal canto suo, il professor Calduch Cervera descrive la comparsa di un nuovo sistema di politico-strategico multilaterale e includente, differenziandosi dai modelli precedenti incentrati sul bipolarismo.

Nel prologo dell’opera, il professor Miguel Ángel Barrios presenterà un approccio innovativo. Nell’equilibrio dei poteri a variante multipolare del secolo XXI, la novità storica si fonda sul fatto che per la prima volta nella storia del sistema-mondo iniziato nel secolo XV con l’unificazione temporale e spaziale della Terra, l’Occidente non si collocherà come il soggetto attore escludente, bensì uno dei soggetti attori, sostiene l’accademico.

Interpretiamo la geopolitica del secolo XXI come il pensiero politico inserito nello spazio e nel tempo latinoamericano. È impossibile creare un potere duro omogeneo in un sistema-mondo instabile, dove gli stati continentali industriali armonizzano –come da sempre è accaduto nella storia- la politica estera mediante un energico sostegno delle politiche di difesa industriale. Ciò può essere possibile mediante l’applicazione di una profonda riforma che passi per una sud americanizzazione dei nostri contenuti educativi, compito ancora in sospeso. A tal fine, diventa necessario presentare questo Diccionario Latinoamericano de Seguridad y Geopolitica come un’introduzione, non chiusa, bensì dinamica, aperta al dibattito e all’arricchimento che dovrà svolgere, asserisce Barrios.

L’equipe interdisciplinare che l’ha redatto è composta di militari e membri appartenenti alle diverse forze di sicurezza latinoamericane, con alta responsabilità operativa professionale ma, allo stesso tempo, sono accademici e scienziati sociali, uomini e donne. L’equipe possiede questo valore aggiunto, poiché il capitale sociale e culturale accumulato si riflette profondamente in queste pagine.

Il nostro proposito è stato anche quello di realizzare un dizionario didattico dove il bagaglio tecnico non escluda l’accezione politica, sociale, accademica, strategica e, soprattutto, quotidiana. Il lettore ci giudicherà. Il Dizionario non è neutro. La Patria Grande di Manuel Ugarte alimenta e custodisce ciascuna delle definizioni. Rendiamo evidente sin dall’inizio il nostro obiettivo: la necessità di materializzare lo Stato continentale industriale sudamericano, osserva il direttore di quest’opera singolare.

Carlos Pereyra Mele Specialista di geopolitica sudamericana

(trad. di V. Paglione

Brzezinski: Se Israele attacca l’Iran, i suoi bombardieri dovranno essere intercettati

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21 settembre 2009

Il braccio di ferro tra Washington e Tel Aviv si indurisce. Intervistato dal giornalista ‘anti-cospirazionista’ Gerald Posner del sito Daily Beast, Zbigniew Brzezinski ha fatto appello alla fermezza, se Israele oltrepassa gli ordini degli Stati Uniti e attaccasse l’Iran.

Daily Beast è un sito che conta gente come Tony Blair e Condoleezza Rice tra i suoi collaboratori regolari. Mr. Brzezinski, che fu consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter e formò il giovane Barack Obama nelle relazioni internazionali, è ancora il segretario generale della Commissione Trilaterale.

Ha detto che se i bombardieri israeliani attraverseranno lo spazio aereo iracheno per attaccare l’Iran, gli Stati Uniti non dovrebbero esitare a intercettarli o a distruggerli, come come fece Israele quando attaccò senza esitazioni, l’USS Liberty, durante la Guerra dei Sei Giorni.

Traduzione di Alessandro Lattanzio.

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Il Generale Beg accusa la Blackwater di aver assassinato Hariri e la Bhutto per conto di Washington

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162189.html
21 settembre 2009

In un’intervista trasmessa il 20 Settembre 2009 dalla Televisione Pakistana, il Generale (in pensione) Mirza Aslam Beg ha accusato gli USA di aver ordinato l’assassinio del Prima Ministra pakistana Benzair Bhutto e dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Ha detto che tali operazioni sono state eseguite dalla società privata Blackwater (ora chiamata Xe).

Il Generale Beg è stato capo di stato maggiore interarma dal 1988 al 1991. Ha prestato servizio sotto gli ordini del presidente Ghulam Ishaq Khan e del Primo Ministro Benazir Bhutto, al suo il primo mandato.

Il Generale Beg (con Mumtaz Bhutto, Elahi Bux Soomro e il Generale Gul), nel 2002 ha fatto molto per diffondere in Pakistan le analisi di Thierry Meyssan sull’11 Settembre, rimanendo estremamente attivo in politica attraverso il think tank che presiede, la Foundation for Research on International Environment National Development and Security.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Africa-America Latina per un mondo senza istituzioni dominate dagli Stati Uniti

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162187.html
21 settembre 2009

Sessantasei delegazioni nazionali, di cui una ventina guidate dai capi di Stato, saranno presenti al secondo summit Africa-America Latina (26-27 settembre), sull’isola di Margarita (Venezuela).

Il vertice sarà co-presieduto dal presidente del Venezuela Hugo Chavez (in qualità di ospite) e dal presidente dell’Ecuador Rafael Correa (in qualità di presidente dell’UNASUR). In questa occasione, l’istituzione di voli diretti tra i due continenti dovrebbe essere annunciata.

Le delegazioni discuteranno la proposta venezuelana per la creazione di una moneta comune, per regolare il commercio internazionale tra paesi del Sud, in sostituzione del dollaro. Studieranno i progressi della Banca del Sud, che mira a sostituire la Banca Mondiale per i paesi in via di sviluppo, e quelli del fondo creato dal Venezuela e dall’Iran per sostituire il Fondo monetario internazionale.

Dal primo vertice (Abuja, Nigeria), di due anni fa, l’idea di un’organizzazione nel Sud al di fuori delle istituzioni dominate dagli Stati Uniti ha cominciato a prendere piede. Un quarto degli Stati interessati sono già coinvolti in un modo o nell’altro in queste iniziative.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Ridurre la popolazione per lottare contro il riscaldamento globale

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Fonte: http://www.voltairenet.org/article162212.html
23 settembre 2009

Leader storico del Green Party del Regno Unito, direttore di Friends of the Earth (Amici della Terra) e del Forum per il Futuro (Forum for the Future), Jonathon Porritt è divenuto l’esperto inevitabile nelle discussioni sull’ambiente, nei media britannici. Oltre alla sua attività come direttore di un potente consorzio per la distribuzione dell’acqua potabile, Wesser Water, ha sviluppato un importante think tank: la Optimum Population Trust, dedicata allo studio dei problemi della demografia.

Osservando le difficoltà che incontra la popolazione mondiale nel suo ambiente naturale, non giunge a una necessaria revisione della società dei consumi, ma a una indispensabile riduzione, della metà, della popolazione mondiale.

Durante i suoi interventi più recenti, Jonathan Porritt ha sostenuto la riduzione della popolazione del Regno Unito, da 61 a 30 milioni di persone. Non sorprende che voglia favorire lo sviluppo del controllo delle nascite, la contraccezione e l’aborto. Ha assicurato che il suo piano globale è il meno costoso per fermare il riscaldamento globale.

Jonathan Porritt è il principale consigliere per l’ambiente del principe Carlo e del primo ministro laburista Gordon Brown. Le sue teorie sono ben accolte, sia a sinistra che a destra. Il leader dell’opposizione conservatrice David Cameron, vi si mostra disponibile. Tuttavia, alcune voci si oppongono, anche dall’ambito dei Verdi, tra cui il giornalista ambientalista del Guardian, George Monbiot. Quest’ultimo non critica l’aspetto autoritario della politica di riduzione démografica (soprattutto perché la sua soluzione personale per la lotta contro il cambiamento climatico è l’introduzione delle razioni di CO2), ma denuncia una politica che potrebbe dare un colpo fatale alla crescita economica e al capitalismo.

In ultima analisi, nella discussione, l’argomento del riscaldamento globale è secondario. Ciò che è in gioco è il rilancio del malthusianesimo. Così, Jonathan Porritt, sempre favorevole a ridurre la popolazione del Regno Unito, preconizza il divieto all’immigrazione. Ciò gli è valso il sostegno del Ministro per l’Immigrazione, il laburista Phil Woolas.

Leggi anche l’articolo di Matteo Pistilli:
Terrorismo Ambientalista e Governo Mondiale

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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