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Channel: Rivista Eurasia – Pagina 331 – eurasia-rivista.org
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La Russia e la sicurezza europea

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Fonte: Rusya al-Yaum News Channel

Nell’ambito del programma “Il tema del giorno” trasmesso dall’emissione araba del canale Russia Today, l’emittente televisa russa ha invitato Tiberio Graziani, direttore di Eurasia.

L’argomento trattato ha riguardato i rapporti tra la Russia e i Paesi europei in relazione alla “sicurezza europea”.

Vengono qui riportati alcuni passi dell’intervista:

“Esistono stretti rapporti tra la Russia ed i Paesi europei che procedono in maniera positiva – ha affermato Graziani -, tuttavia dal punto di vista geopolitico questi Paesi sottostanno alle pressioni degli Usa.  Ad ogni modo, importanti relazioni economiche si stanno sviluppando tra la Russia ed i Paesi europei, specialmente alla luce della crisi finanziaria mondiale causata da Washington”.

Quanto all’iniziativa intrapresa lo scorso anno dal presidente russo Medvedev riguardante la firma di un accordo generale per la “sicurezza europea”, Graziani ha detto: “Credo che i leader europei, in particolare quello francese Sarkozy e la cancelliera tedesca Merkel, saranno costretti a  considerare con la massima attenzione questa iniziativa di Medvedev”.

Per quanto concerne la collaborazione Russia-Nato, ha dichiarato Graziani: “Dopo la Guerra dei Cinque giorni in Caucaso, gli Usa e la Nato si trovano costretti a prendere atto della realtà e ad arrestare necessariamente il progetto di allargamento della Nato verso Oriente”.

“L’unipolarismo è finito, poiché sono emersi altri nuovi poli che ormai vanno considerati nell’ottica di un mondo multipolare”.

La versione integrale dell’intervista può essere vista cliccando qui.

(traduzione dall’originale arabo di Enrico Galoppini)

L’intervista è stata rilasciata a Mosca il 16 settembre 2009 e teletrasmessa il 1 ottobre 2009

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Stati Uniti: malgrado la crisi aumentano i bilanci dello spionaggio

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Fonte: voxnr.com

Mentre decine di migliaia di cittadini statunitensi dormono nella loro automobile o sui marciapiedi a causa dell’impatto devastante della crisi economica, il sistema di spionaggio e d’ingerenza degli Stati Uniti raggiunge proporzioni mai conosciute nella storia di questo paese. In quindici anni, secondo le cifre ufficiali, le spese delle 16 agenzie di informazione degli Stati Uniti sono passate da 26 miliardi di dollari (1994) a 75 miliardi, secondo quanto confermato questo 16 settembre, in una conferenza stampa, dallo ” zar” dell’Intelligence USA, Dennis Blair. Peggio ancora, il numero di funzionari utilizzati in questo sistema gigantesco d’infiltrazione, d’intelligence, di disinformazione e di aggressione raggiunge ora i 200.000, senza contare la legione di agenti, di informatori, di collaboratori che la macchina “imperiale” ingrassa in tutti gli angoli del mondo allo scopo di mantenere il suo dominio.

Gli Stati Uniti dispongono della rete di spionaggio più estesa della storia, la cui implicazione in una lunga successione di cospirazioni, di rapimenti, di assassinii e di atti di terrorismo e di sovversione è in gran parte dimostrata.

In cifre assolute, Washington detiene già da alcuni decenni, il record mondiale delle attività di intelligence, non soltanto presso i suoi nemici o nemici supposti ma anche nel sistema governativo ed industriale dei paesi che professano più grande servilismo e gli offrono il più grande appoggio.

SENZA INCLUDERE LA USAID ET SIMILIA

Il gigantesco dispositivo di penetrazione e di disinformazione descritto da Dennis Blair non comprende le filiali del Dipartimento di Stato come l’Agenzia di sviluppo internazionale (USAID), qualificata agenzia per la destabilizzazione internazionale, una macchina particolarmente attiva in America latina, a favore delle oligarchie pro-yankee. Nel frattempo, in Venezuela l’entità più potente della Comunità dell’Intelligence degli Stati Uniti, l’ODNI (Office of the Director of the National Intelligence) è accusato di condurre una campagna di propaganda contro il governo del presidente Chávez, mentre a Madrid, il presidente boliviano Evo Morales denuncia che gli Stati Uniti tramite la USAID, pagano la campagna elettorale dei suoi oppositori.

Nel gennaio scorso, il presidente Obama ha scelto l’ammiraglio in pensione Dennis Blair come capo del sistema d’intelligence, responsabile del briefing che riceve quotidianamente a questo titolo. Originario dello stato del Maine (Nord-est), Blair è stato compagno di studi di Oliver North. Mentre era a capo del Comando del Pacifico, si è distinto per avere fuorviato il presidente Bill Clinton al momento della crisi a Timor est. Il primo “zar” dell’intelligence yankee, nominato da George W. Bush, è stato John Negroponte.

MENTRE LA DISOCCUPAZIONE BATTE NUOVI RECORD

Le rivelazioni di Blair sul bilancio astronomico della Comunità di Intelligence sorprenderanno certamente i contribuenti che si trovano attualmente soffocati dalla crisi economica più dura dagli anni 30. L’ex-ammiraglio ha formulato le sue osservazioni sul pozzo finanziario che dirige, il giorno stesso in cui l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha annunciato che gli Stati Uniti sono fra i paesi industrializzati con i dati più allarmanti sull’occupazione, una situazione che peggiorerà ed influirà sui gruppi più vulnerabili: i giovani, gli immigranti e le donne. Secondo tutti gli studi recenti sullo stato dell’economia USA, la maggioranza degli statunitensi si sente soffocata da affitti ed ipoteche, senza parlare delle imposte, e del panico di fronte alla prospettiva di perdere il proprio impiego, come tanti lo hanno già perso, e, di conseguenza, i beni acquistati a credito.

Traduzione di Giovanni Petrosillo

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Conferenza IsIAO. Società, religione e politica nell’India contemporanea

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Conferenza del Prof. Prasanna Kumar Nayak (Direttore del Dipartimento di Antropologia, Utkal University, Bhubaneswar, India) dal titolo

Society, Religion and Politics in Contemporary India

Il prof. Fabio Scialpi, Sapienza, Università di Roma e socio dell’IsIAO presenta al pubblico l’oratore.

Mercoledì 14 ottobre 2009 – ore 17,00
Via Ulisse Aldrovandi, 16/A – Roma
Sala conferenze dell’IsIAO

www.isiao.it

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La cooperazione russo-italiana nel campo dell’energia prosegue, nonostante la crisi finanziaria internazionale

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Fonte: La Voce della Russia

La Società per azioni italiana “ENEL OGK-5”, che possiede in Russia quasi il 56% delle azioni della Società di generazione elettrica russa – in forma abbreviata “Ogk-5”, ha dichiarato di passare una della quattro centrali elettriche – GRES Reftin sugli Urali – all’uso parziale del carbone del Bacino carbonifero di Kuznetsk, nel sud della Siberia, al posto del carbone del Kazahstan che viene usato attualmente. Alcuni particolari al riguardo sono trattati in una rassegna preparata da Valerij Prostakov.

A prima vista la notizia di cui sopra ha un carattere nettamente tecnico e non è di interesse per un vasto pubblico in Italia. Ma i particolari dell’annuncio che ha fatto la divisione russa dell’ENEL, rivela che si tratta di uno sfruttamento razionale, da parte dei nostri partner italiani, delle possibilità di attività produttiva nell’industria elettroenergetica della Russia.

Il valore energetico del carbone del Bacino calorifico di Kuznetsk raggiunge 6700 chilocalorie per chilogrammo.Contro 4000 kcal. del carbone del Kazahstan. La quota del cenere contenuta nel carbone di Kuznetsk è pari al 6 %- 10 % contro il 40 % nel carbone del Kazahstan. Nella combustione del carbonio di Kuznetsk si produce del 40 % in più di energia termica, si producono meno rifiuti nocivi, si riduce del 66 % l’emissione di polvere nell’aria, aumentano l’affidabilità e la sicurezza dell’approvvigionamento termico della centrale elettrica, si rende più stabile il suo funzionamento nel periodo autunno-inverno, più rigido per condizioni climatiche negli Urali rispetto alla zona europea della Russia. Il comunicato che hanno diffuso i vertici dell’Enel-OGK-5 dice altresì che il passaggio di GRES Reftin all’utilizzo del carbone di nuovo tipo che presenta le caratteristiche fisiche del tutto diverse è un progetto pilota.

Come è noto, una condizione dell’acquisto delle attività messe in asta in Russia era l’attuazione di un programma d’investimento che prevedeva, in particolare; la costruzione di nuovi impianti energetici di un determinato tipo, e la loro messa in funzione entro un determinato termine.

L’Enel è diventata la prima società straniera ad avere accettato tali condizioni e ad avere comprato il pacchetto di controllo di azioni di OGK-5. L’Enel provvede ad assolvere completamente i suoi impegni in Russia. Ogni anno la società italiana investe nell’elettroenergetica russa fino a 15 miliardi di rubli. Nei termini stabiliti – entro il Dicembre 2010, alla GRES Reftin sarà messo in funzione un impianto di una potenza di 410 megawatt del costo di circa 400 milioni di Euro. Un analogo progetto è stato elaborato per un’altra GRES facente parte di OGK-5 – quella di Nevinnomyssk nel Sud della Russia. L’Enel ha concesso alla sua Società figlia in Russia un credito di 50 milioni di Euro per non fermare il finanziamento del suo programma d’investimento nelle condizioni della carenza di fondi liquidi. Il Direttore dell’ENI per i progetti internazionali, Carlo Tamburi, ha dichiarato che la Società intende realizzare in Russia progetti d’investimento anche in futuro nonostante la crisi finanziaria internazionale.

Sulla base degli assetti del gas della Jukos fallita, l’Enel, congiuntamente con l’ENI le cui quote di partecipazione sono in rapporto del 40 % al 60 %, ha costituito la Società “Sever-Energhia” (Nord-Energia). Ora l’Enel sta provvedendo a costituire in Russia, sulla base di questa nuova società, un’impresa verticalmente integrata che si occuperà della produzione di gas e della distribuzione dell’energia elettrica.
In cambio dell’accesso alle risorse russe i partner italiani includono la Gazprom nei loro progetti, in Italia e in paesi terzi.
In particolare, un progetto congiunto è direttamente legato all’ingresso della Gazprom, in volume fino al 33 %, in un’impresa che sotto il controllo dell’ENI partecipa allo sfruttamento del giacimento di petrolio “Elephant” in Libia.
L’Enel, da parte sua, propone al partner russo, di acquistare, a scelta, quote di partecipazione in alcune centrali elettriche in Italia.

La cooperazione russo-italiana nel campo dell’energia prosegue nonostante la crisi finanziaria internazionale.

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“GazpromNation. Il sistema Putin e il nuovo Grande Gioco in Asia Centrale” di Stefano Grazioli

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Bisogna aver paura della Russia? E’ tornato il Grande Gioco in Asia Centrale? Qual è il ruolo di Gazprom? Come ha scritto quella vecchia volpe di Evgeni Primakov, ex capo dello spionaggio russo ed ex primo ministro “la Russia è stata analizzata, ma non pienamente compresa. L’ignoranza porta direttamente alla distorsione”. GazpromNation è il libro per capire davvero chi e perché comanda oggi a Mosca e quali sono le strategie del Cremlino sullo scacchiere mondiale, con particolare attenzione allo spazio postsovietico e alle repubbliche dell’Asia centrale.

Stefano Grazioli è nato a Sondrio nel 1969. Dopo la maturità classica al Liceo Piazzi ha studiato a Berlino e Milano, laureandosi in Scienze Politiche all’Università Cattolica nel 1994. Dal 1993 al 1997 ha lavorato in Germania per media italiani e tedeschi (“Deutsche Welle”), prima di trasferirsi in Austria, dove nel 1999 ha conseguito il Master in European Journalism alla Donau Universität. A Vienna ha diretto tra l’altro la redazione online del quotidiano “Kurier” fino al 2002. Collabora con l’Internationales Journalismus Zentrum di Krems an der Donau. Dal 2003 vive tra Bonn, Sondrio e Mosca lavorando come autore freelance per testate svizzere e italiane, occupandosi soprattutto di Russia e Asia Centrale. Con Pierluigi Mennitti ha fondato nel 2009 il sito di informazione indipendente www.esreport.net, East Side Report – Inside Eastern Europe and Central Asia.
In Italia ha pubblicato: I minerali della Valmalenco, La Collezione Grazioli (1992) – La Galassia Neonazista in Germania e Austria (Datanews, 2002) – Vladimir Putin, La Russia e il nuovo ordine mondiale (Datanews, 2003) – Nel nome della Gente, populisti estremisti e leader carismatici nell’Europa d’oggi (Boroli, 2004) – Putin Dixit (lulu.com, e-book, 2008).

Per informazioni sull’acquisto del libro cliccare qui

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Non cambia la Ostpolitik

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Fonte: “ESReport”, 5 ottobre 2009

Il nuovo governo di centrodestra tedesco non modificherà di una virgola la politica verso la Russia. Non ci saranno stravolgimenti, ripercussioni, cambiamenti di rotta. Berlino e Mosca continueranno ad avere buoni, ottimi rapporti. Anzi, l’asse si salderà sempre di più. Basta sapere come vanno le cose oggi e dare un’occhiata a qual è stata la strategia al Kanzleramt e al Cremlino negli ultimi vent’anni.

Di più. Si può andare addirittura a ripescare l’inizio della Ostpolitik di Willy Brandt e Walter Scheel per capire come anche Angela Merkel e Guido Westerwelle calcheranno le orme dei loro predecessori, di qualsiasi colore. Chi ventila o addirittura auspica un dietrofront che da Mosca riporti acriticamente e automaticamente verso Washington rimarrà deluso. I tedeschi non sono fessi. Sono pragmatici. E i russi pure. Ma rimaniamo in Germania.

Durante gli ultimi quattro anni alla Cancelleria c’è stata la Merkel e all’Auswärtiges Amt c’è stato Frank Walter Steinmeier, vicinissimo a Gerhard Schröder. Steinmeier ha continuato sulla linea dell’ex leader della Spd: è stato lui a tenere i rapporti con Mosca. L’Ostpolitik è stata cosa socialdemocratica negli ultimi undici anni: sotto Schröder non l’ha fatta certo il ministro degli Esteri in scarpe da tennis, quello Joschka Fischer che fa ora il lobbysta per il Nabucco e la Bmw, destino strano per un verde.

Ma l’amicizia con Mosca prima dell’amico rosso di Putin l’ha curata il buon vecchio cristianodemocratico Helmut Kohl, cancelliere nero per sedici anni (1982-1998) e grande amico prima di Mikhail Gorbaciov poi di Boris Eltsin. Non solo architetto della riunificazione tedesca e dell’ancoraggio della Germania unificata all’Unione Europea, ma anche e soprattutto colui che ha voluto far riappacificare Berlino e Mosca nell’ottica di una nuova partnership continentale. Kohl, Cdu, ha governato con i liberali: il suo ministro degli Esteri Klaus Kinkel è stato il successore di Hans Dietrich Genscher, il padrino di Guido Westerwelle. Tutti gialli all’Auswärtiges Amt.

E così torniamo ancora indietro, quando insieme alla Spd ancora ben viva, quella di Brandt e poi di Helmut Schmidt, il liberale Genscher (praticamente dal 1974 al 1992 sempre agli Esteri in coabitazione prima con cancellieri rossi e poi con quello nero) ha tessuto le reti della Ostpolitik inventata proprio da chi era venuto prima di lui come ministro degli Esteri in una coalizione socialliberale o rossogialla che dir si voglia: Scheel, per nove giorni l’unico cancelliere facente funzioni liberale che la Germania ha mai avuto, poi diventato Bundespresident.

La Germania di oggi, quella del duo Merkel-Westerwelle, piacerà forse un po’ meno a Mosca per la forma, ma sulla sostanza non c’è tanto di nuovo da inventarsi. Con quasi cinquemila imprese tedesche di ogni ordine di grandezza presenti in Russia, gli interessi (reciproci) vanno oltre il colore delle coalizioni. Certo, non è più il tempo delle saune e vodke tra Kohl e Eltsin o delle slittate in famiglia tra Putin e Schröder. Il fattore spettacolo ne risentirà, non il business.

E la Ostpolitik la faranno da oggi ancor più Eon, Basf e compagnia che non il simpatico Guido, i cui elettori vengono proprio da quei settori dell’industria e della finanza che vedono nella Russia un “partner irrinunciabile”.

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Più che una semplice “impasse”. Modelli in contrasto, visioni geopolitiche e MERCOSUR

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L’Argentina nel corso della sua storia ha sperimentato diversi modelli di sviluppo economico. Inizialmente fu quello agro-esportatore che, vincolato agli scambi con l’Inghilterra ed al commercio internazionale, andò in crisi negli anni ’30. Si tentò allora un’industrializzazione sostitutiva, prima sotto la guida peronista e poi sotto quella radicale, inframmezzate però da colpi di Stato militari. Negli anni ’70 anche questo modello fu accantonato per una politica neoliberista ortodossa, condotta prima dai militari e poi da Menem, i cui effetti furono però disastrosi economicamente e socialmente. L’Argentina ha pagato duramente questo fallimento all’inizio del nuovo millennio, ma sotto la gestione di Duhalde prima e di Nestor Kirchner poi, è riuscita a riprendersi. Davanti a sé si aprono ora due possibili strade: adottare un modello agro-industriale, che rischierebbe però di trasformare l’Argentina in una mono-cultura di soia da esportazione (con conseguente “malattia olandese”), oppure uno industriale diversificato, che beneficerebbe l’intera popolazione. Ma perché questa seconda via di sviluppo abbia successo, è necessaria una forte integrazione nel MERCOSUR e una solida alleanza col Brasile.

Titolo: Più di una semplice “impasse”. Modelli in contrasto, visioni geopolitiche, MERCOSUR
Autori: Alberto J. Sosa e Cristina Dirié
Numero rapporto: 2
Data di pubblicazione: 11 ottobre 2009 (ed. originale del maggio 2009)
Leggi il Rapporto pdf (1,3 MB)

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Prospettive della sicurezza cooperativa in Eurasia centrale

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Fonte: http://en.fondsk.ru/ 07.10.2009

Il ritiro del sistema anti-missile degli Stati Uniti dall’Europa dell’Est, ha portato al dibattito sulle prospettive di un sistema cooperativo di sicurezza in Eurasia centrale. Il sistema anti-missile annunciato dall’amministrazione di George Bush Jr. nel 2007, aveva portato a gravi tensioni nella regione, quasi a ricordare la rivalità della guerra fredda. Con il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si concentra a ‘resettare’ le relazioni con la Russia, la prospettiva della cooperazione Russia-USA appare luminosa nella regione dell’Eurasia centrale, con la Russia che già permette il transito nel suo territorio per rifornire l’Afghanistan e rimodellare la sua posizione nei confronti dell’Iran, in materia di disarmo nucleare.
Lo scudo anti-missile è stato svelato nel gennaio 2007. Esso mirava a implementare dal 2012 un sistema radar nella Repubblica Ceca e 10 intercettori in Polonia. Lo scopo principale dello scudo anti-missile, come affermato dai diplomatici degli Stati Uniti, era quello di intercettare i potenziali attacchi missilistici dagli ‘Stati canaglia’, come la Corea del Nord e l’Iran. Alle obiezioni che i paesi come l’Iran non hanno missili che possono colpire gli Stati Uniti o l’Europa, i sostenitori dello scudo hanno affermato che ciò riguardava il possibile possesso di tali armi nel prossimo futuro. Sia la Polonia che la Repubblica Ceca hanno espresso la volontà di ospitare nei loro territori, i componenti del sistema di difesa missilistico degli Stati Uniti.
Mentre gli Usa hanno giustificato ciò col fatto dei pericoli da parte degli ‘Stati canaglia’, la Russia l’ha considerata una mossa per minare la sicurezza della Russia e la sua sfera di influenza. Il rifiuto degli Stati Uniti della proposta della Russia, per un utilizzo congiunto della stazione radar di Gabala, in Azerbaigian ha dato luogo al sospetto dell’uso del sistema anti-missile contro la Russia e i suoi alleati. L’opposizione russa ha trovato forte risonanza nella conferenza di Monaco, nel febbraio 2007. Definendo il progetto statunitense un elemento di disturbo, l’allora presidente russo Vladimir Putin ha avvertito l’inevitabilità di una corsa agli armamenti. Ha anche risposto che le prospettive di un attacco missilistico da parte degli stati canaglia come la Corea del Nord, attraverso l’Europa occidentale, sono ‘in evidente contraddizione della legge della balistica’, poiché si possono colpire gli Stati Uniti attraverso il Pacifico. E per quanto riguarda l’Iran, Putin ha affermato che il paese è ben lungi dall’essere in grado di effettuare una tale attacco.
La situazione ha una nuova svolta, dopo che Obama è salito al potere nel gennaio 2009. Ha tentato di modificare i metodi del suo predecessore. Anche lo scenario prevalente necessitava di una correzione di rotta. Come riportato, i programmi missilistici stavano diventando difficili da sostenere, di fronte ai suoi apparenti insuccessi. Dalla fine degli anni ‘80, gli Stati Uniti hanno speso circa 150 miliardi di dollari per sviluppare tali sistemi. La rivelazione sul ‘Wall Street Journal’ del 17 settembre 2009 che, il “piano dell’Iran per entrare in possesso di missili a lungo raggio non ha fatto quei progressi rapidi, come era stato precedentemente previsto”, potrebbe avere incoraggiato il governo degli Stati Uniti a ritirare il piano. Gli altri fattori come, ad esempio, il sostegno della Russia alla lotta al terrorismo e all’estremismo in Afghanistan, portare l’Iran nell’orbita della non proliferazione nucleare, e le differenze con potenze europee come Germania e Francia, avrebbe motivato l’amministrazione Obama a ritirare il piano dell’antimissile, nonostante l’opposizione di alcuni alleati europei, in particolare in Polonia e Repubblica ceca, dove il sistema doveva essere installato.
Il presidente russo Dmitry Medvedev ha accolto favorevolmente l’iniziativa degli Stati Uniti. Sebbene il ritiro inaugurerà una nuova era della cooperazione tra gli Stati Uniti e la Russia o meno, si vedrà nei prossimi giorni, ma resta il fatto che il ritiro ha infuso fiducia in entrambi i giocatori nel definire un approccio comune su una varietà di temi, tra cui due sono molto importanti.
In primo luogo, entrambi i paesi sono vicini a sviluppare un approccio comune sulla questione Iran. Al vertice del G20 a Pittsburgh, nel settembre 2009, Medvedev ha descritto la costruzione del secondo impianto di arricchimento dell’uranio a Qom, in Iran, come ‘fonte di grave preoccupazione.’ La Russia ha già ritardato il programma per consegnare all’Iran il sistema di difesa S-300. Secondo quanto riferito, ha rifiutato di vendere all’Iran i più avanzati sistema di difesa S-400. Ha anche esortato l’Iran a rispettare le norme e i regolamenti internazionali in materia di non proliferazione nucleare. In questo contesto, l’incontro delle sei parti con l’Iran, il 1° ottobre 2009 a Ginevra, è stato un passo positivo. Nel corso della riunione, l’Iran ha accettato di aprire all’ispezione il suo impianto di arricchimento dell’uranio a Qom. Ha inoltre deciso di inviare la maggior parte del suo uranio arricchito in Russia e in Francia, per trasformarlo in combustibile per la produzione di isotopi medici. Il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA), Mohamed ElBaradei, ha correttamente indicato, in un’intervista, che, nel caso dell’Iran ‘il linguaggio della forza è inutile. Conduce al confronto …’ Il gruppo di ispezione dell’AIEA dovrebbe visitare il sito nucleare il 25 ottobre 2009. I tentativi della Russia per rendere trasparente il controllo del programma nucleare dell’Iran, può essere una indicazione positiva verso la emergente cooperazione sulla sicurezza nella regione.
In secondo luogo, la Russia ha espresso il suo sostegno alle forze della coalizione nella lotta contro le forze talian nella regione. Anche se di recente, gli Stati Uniti hanno compreso che l’enigma afgano non può essere risolto agendo da soli e devono avere fiducia verso gli altri giocatori, come la Russia. La comprensione degli Stati Uniti di una cooperazione reciproca e la lungimiranza della Russia nel cogliere l’occasione, ha portato a un clima di reciproca collaborazione nella lotta contro la minaccia dei taliban. La situazione in Afghanistan s’è protratta troppo a lungo. Ora si comprende che nel quadro internazionale, e con la collaborazione di altre potenze regionali, sarà possibile contenere la minaccia.
La recente riunione di Ginevra delle sei parti, sulla questione Iran, è un passo nella giusta direzione, come dimostra le prospettiva della cooperazione sulla sicurezza nella regione, dopo una rivalità prolungata e intensa. Il recente rapporto dell’Unione Europea, che punta il dito contro la Georgia per l’avvio della guerra dell’agosto 2008, è giunto anche come una rivendicazione della posizione della Russia sul conflitto trans-caucasico. Ha rafforzato la posizione russa nella regione, corroborandone la posizione sulla questione. Una Russia fiduciosa, può utilizzare lo scenario prevalente per ulteriori suoi interessi nella sicurezza nella regione, in un quadro di collaborazione. Non ci si può forzare a predire se l’alleanza Medvedev-Obama sarà in grado di eliminare la maggior parte delle animosità e di portare avanti la costruzione della architettura della cooperazione per la sicurezza in Eurasia centrale.


Il Dr Debidatta Aurobinda Mahapatra è un ricercatore presso il Centre for Central Eurasian Studies, Università degli Studi di Mumbai, India.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Traci ed Etruschi nell’epica antica

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I Traci nell’epica omerica

Nell’epica omerica, la prima menzione dei Traci appare in quella enumerazione delle unità militari troiane e alleate che nel secondo libro dell’Iliade segue il catalogo delle navi achee. Mentre rimane incerto se le tribù dei Pelasgi debbano essere assegnate all’uno o all’altro schieramento, Traci, Ciconi e Peoni sono gli alleati dei Troiani provenienti dai territori balcanici.

Al contingente tracio sono riservati questi due versi: “Acamante e l’eroe Piroo guidavano i Traci, – quanti ne racchiude l’Ellesponto che scorre impetuoso” (II, 844-845). Sulla figura di Acamante Omero ritorna più avanti, allorché ne descrive la morte eroica: “Per primo Aiace Telamonio, baluardo degli Achei, –  spezzò una falange di Troiani e diede luce ai compagni, – colpendo l’uomo che era il migliore fra i Traci, – il figlio di Eussoro, Acamante forte e grande. – Per primo lo colpì, sul cimiero dell’elmo chiomato; – si piantò nella fronte, trapassò l’osso – la punta bronzea; la tenebra gli velò gli occhi” (VI, 5-11). Anche l’altro capo dei Traci, “Piroo figlio d’Imbraso, che era venuto da Eno” (IV, 520), muore eroicamente in battaglia. Dopo aver fracassato una gamba a Diore, Piroo gli conficca l’asta nel ventre, ma viene colpito a sua volta dall’etolo Toante. Questi però non riesce a spogliare il cadavere delle armi, perché i guerrieri traci glielo impediscono: “gli stavano intorno i compagni, –  i Traci dai capelli raccolti in alto, con le lunghe lance nelle mani; – essi, per quanto fosse grande e gagliardo e superbo, lo – ricacciarono lontano da loro; ed egli fu costretto a retrocedere” (IV, 532-535). Dopo la morte di Piroo e di Acamante, alla guida dei guerrieri traci subentra Reso, figlio di Eioneo. Mentre il nome di Eioneo ricorda la città di Eione, sulla foce dello Strimone, quello di Reso proviene dalla medesima radice presente nel lat. rex e nel sscr. râjâ, ma anche nell’etrusco Rhasen-, che secondo Georgiev è un probabile prestito tracio (1).

Dalla citazione contenuta nel libro II vediamo come la Tracia omerica corrisponda ad un’area non molto estesa e comunque non chiaramente determinata nell’entroterra, in particolare per quanto riguarda i confini nord-occidentali. Accanto ai Traci, abitano questo territorio i Ciconi (stanziati tra i fiumi Ebro e Nesto) e i Peoni (stanziati fra lo Strimone e l’Assio). Nella guerra di Troia, “il capo dei Ciconi armati di aste (aichmetàon) era Eufemo, – figlio di Trezeno, il Ceade alunno di Zeus. – Pirecme guidava i Peoni dagli archi ricurvi, – che venivano da lontano, da Amidone, dall’Assio che scorre ampio, – l’acqua del quale si spande bellissima su quella terra” (II, 846-850).

Nei due versi dedicati ai Ciconi si dice soltanto che costoro combattono con la lancia e che sono guidati da Eufemo, del quale vengono indicati il padre e l’avo paterno. Ma il popolo dei Ciconi ricompare nell’Odissea, nella sequenza iniziale (IX, 39-61) del lungo racconto delle avventure di Odisseo alla corte dei Feaci. Salpati da Troia, Odisseo e i suoi compagni sbarcano a Ismaro (città non lontana da Maronea, o forse da identificarsi con essa), la incendiano, rapiscono le donne e saccheggiano le molte ricchezze. Ma i Ciconi passano al contrattacco: “Frattanto, fuggendo, i Ciconi chiamavano i Ciconi – ch’eran loro vicini, più numerosi e più validi, – abitanti dell’entroterra, esperti a combattere – contro i nemici dal carro e, dove bisognasse, anche a piedi. –  E vennero, quante le foglie e i fiori spuntano a primavera, – sul far del giorno” (IX, 47-52).

Quanto ai Peoni, il libro II dell’Iliade dice qualcosa di più: 1) sono arcieri (ma in XXI, 155 sono detti dolichenchéas, “dalle lunghe lance”), 2) vengono da lontano (ma nella rassegna degli alleati telòthen è avverbio ricorrente e quindi generico), 3) la loro capitale è Amidone, sul fiume Assio, l’odierno Vardar, che attraversa la Macedonia e sbocca nel Golfo Termico. “In quel periodo l’area compresa tra le valli del Vardar e dello Struma ebbe la più alta densità di popolazione ed i suoi abitanti funsero da intermediari fra il nord e il sud nella trasmissione di idee e di oggetti” (2). Il capo dei Peoni, Pirecme, è ucciso da Patroclo (XVI, 284-292); un altro dei loro duci, Asteropeo, dice ad Achille, prima di essere ucciso: “Vengo dalla Peonia dalle fertili zolle, che si trova lontano, – guidando i guerrieri peoni dalle lunghe lance; e questa è adesso per me – l’undicesima aurora da quando son giunto ad Ilio. – La mia stirpe discende dall’Assio che scorre ampio, – l’Assio, che su quella terra manda un’acqua bellissima; – egli generò Pelegone famoso per la sua lancia; e lui, dicono, mi – generò” (XXI, 154-160). Vedendo cadere il loro capo, i cavalieri peoni fuggono lungo le rive dello Scamandro; ma Achille li incalza e ne uccide sette: Tersiloco, Midone, Astipilo, Mneso, Trasio, Enio, Ofeleste. Molti di più ne ucciderebbe, se non intervenisse a frenarlo la divinità fluviale (XXI, 205-221).

Ci sono poi altri popoli che nell’Iliade troviamo nominati assieme ai Traci come loro vicini. Fra gli alleati dei Troiani che Dolone elenca a Odisseo vi sono i “Misi superbi” (X, 430), i quali compaiono anche nel libro XIII. Mentre nei pressi delle navi achee infuria la battaglia e Poseidone osserva gli avvenimenti stando seduto “in alto, sulla più eccelsa cima della selvosa Samo – tracia (Sàmou hyleésses Threikìes)” (XIII, 12-13), dalle vette dell’Ida Zeus volge lo sguardo lontano, “guardando alla terra dei Traci allevatori di cavalli, – dei Misi che combattono corpo a corpo (antémachoi), dei nobili Ippemolghi – che si cibano di latte e degli Abii, i più giusti fra gli uomini” (XIII, 4-6). E’ stato notato che “i popoli menzionati, da localizzare tutti a Nord, oltre l’Ellesponto e la Propontide, sono caratterizzati da uno stile di vita che sembra allontanarsi dalla bellicosità verso una sorta di utopistico pacifismo” (3). Infatti, mentre più pacifici appaiono gl’Ippemolghi e gli Abii, i nomi dei quali significano rispettivamente “mungitori di cavalle” e “privi di violenza”, bellicosi sono i Misi, bravi nel combattimento ravvicinato, nonché i Traci, ai quali viene assegnato qui come altrove (cfr. XIV, 227) l’epiteto di hippopòloi, “allevatori di cavalli”, che richiama le attività della guerra.

Ma l’eccellenza dei cavalli traci è immortalata nell’episodio dei destrieri di Reso (X, 470-569). “Ho visto i suoi cavalli, bellissimi e grandissimi, – più bianchi della neve, nel correre simili ai venti – e il suo carro è ben adorno d’oro e d’argento” (X, 436-438). A questa descrizione fatta da Dolone corrispondono le parole ammirate del vecchio Nestore, colpito come gli altri Achei dall’incomparabile bellezza degli animali: “Sono terribilmente simili a raggi di sole. – Io sono sempre in mezzo ai Troiani e vi dico che mai non – rimango presso le navi, benché sia un vecchio guerriero; – ma tali cavalli non vidi né scorsi mai. – Penso che un dio, incontrandovi, ve li abbia dati” (X, 548-551).

Alla vocazione dei Traci per la guerra si connettono l’imponenza, la bellezza e il pregio delle loro armi. “Belle” (kalà) e “ricche di fregi” (poikìla) (X, 472, 504) sono le armi dei guerrieri traci arrivati a dar man forte ai Troiani (X, 471-473); quelle di Reso, in particolare, sono “armi auree, gigantesche, meraviglia a vederle – (…) non a uomini mortali si addice – portarle, ma a dèi immortali” (X, 439-441). Una spada (xìfos) tracia di grandi dimensioni è l’arma con cui l’indovino Eleno, figlio di Priamo, abbatte Deipiro (XIII, 576-577). La “spada (fàsganon) con le borchie d’argento, – bella, tracia” (XXIII, 808-809) che era appartenuta ad Asteropeo è uno dei premi che vengono messi in palio da Achille durante i giochi in onore di Patroclo.

Da una similitudine contenuta in XIII, 298-305 possiamo dedurre che l’amore dei Traci per le armi e per la guerra è dovuto al fatto che Ares è originario della loro regione. Infatti Ares “rovina dei mortali” (brotoloigòs) e suo figlio Fobos “forte ed impavido” (krateròs kaì atarbès), “che mette in fuga (efòbese) anche il guerriero più ostinato” (XIII, 300), partono dalla Tracia per portare la guerra agli abitanti di Efira o di Flegia, due città della Tessaglia in conflitto fra loro. Anche nell’Odissea, laddove termina il canto dell’aedo Demodoco sugli amori di Ares e di Afrodite, troviamo una scena che ci presenta la Tracia come patria di Ares: appena Efesto scioglie la catena con la quale ha imprigionato i due amanti, Afrodite corre subito a Cipro, mentre Ares se ne va d’un balzo in Tracia (VIII, 359-366).

Oltre ad Ares, c’è un altro dio al quale Omero sembrerebbe attribuire un rapporto con la Tracia: si tratta di Dioniso, per quanto la Tracia non sia mai evocata nei quattro luoghi omerici in cui viene nominato questo dio. Il più ampio di tali luoghi (Iliade, VI, 130-141) ricorda una teomachia punita: Licurgo, che perseguitò Dioniso e le nutrici del dio, costringendo quest’ultimo a cercare scampo nell’abbraccio di Teti, fu punito da Zeus con la cecità e con la morte prematura. Licurgo, evidentemente ben noto agli ascoltatori dell’aedo in quanto famoso guerriero, viene detto soltanto “figlio di Driante”, per cui “manca ogni notizia sulla sua qualifica, sul popolo, sul luogo” (4); tuttavia, “che Licurgo, figlio di Dryas, sia originario della Tracia è dimostrato dalla sua genealogia” (5). O forse, se volessimo esser più cauti, dovremmo dire che “la tradizione secondo la quale il nemico di Dioniso sarebbe stato un re del popolo tracio degli Edoni, nella regione del Pangeo, probabilmente trasse origine dalla fabulazione di un autore posteriore a Omero” (6): magari da Eschilo, che negli Edoni (prima parte di una perduta Licurgia) collocò esplicitamente nell’ambiente tracico la storia cantata da Omero, o da Sofocle, che nel quarto stasimo dell’Antigone (vv. 955-965) attribuisce il titolo di “re degli Edoni” (Edonôn basileùs) all’”ardente figlio di Driante”. D’altronde, sempre per ragioni di cautela, non sarebbe fuor di luogo obiettare che anche il “sacro Niseo” (egàtheon Nyséion), attraverso il quale avvenne la fuga di Dioniso, non può essere identificato in maniera univoca con il Pangeo o comunque con “una località della Tracia” (7), poiché, nonostante gli scoli dell’Iliade rimandino ad una Nisa di Tracia, furono chiamate Nisa o Niseo molte montagne associate ai misteri dionisiaci e i mitografi situarono nelle regioni più diverse (Caucaso, Arabia, Egitto, Libia) la montagna su cui Dioniso era stato allevato.

Dalla Tracia, infine, provengono altre due entità divine, i nomi delle quali significano rispettivamente “sibilante” e “tenebroso”: “due venti sconvolgono il mare pescoso, – Borea e Zefiro, e questi due soffiano dalla Tracia, – giungendo all’improvviso; e immediatamente un’onda nera – si gonfia e riversa molte alghe lungo la riva” (IX, 4-7). Da ciò si può dunque legittimamente dedurre, anche se Omero non lo dice in maniera esplicita, che si trovi in Tracia la casa di Zefiro, nella quale si trovano riuniti a banchetto tutti quanti i Venti allorché Iride reca loro il voto di Achille: l’eroe promette un bel sacrificio a Borea ed a Zefiro, qualora facciano avvampare il rogo su cui giace Patroclo. I due venti si levano “con prodigioso fragore”, sconvolgendo il mare si precipitano a Troia e per tutta la notte agitano le fiamme della pira, “soffiando sonoramente” (XXIII, 193-218).

1. Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 129 e 273.

2. Alexander Fol e Ivan Marazov, I Traci. Splendore e barbarie di un’antica civiltà, Newton Compton, Roma 1981, p. 124.

3. Guido Paduano, Commento, in: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 1142.

4. G. Aurelio Privitera, Dioniso in Omero e nella poesia greca arcaica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, p. 83.

5. Karl Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, p. 172.

6. Henri Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino 1972, p. 62.

7. Walter Friedrich Otto, Dioniso. Mito e culto, Il Melangolo, Genova 1990, p. 65.

I Traci nell’Eneide

Nell’Eneide il nome della Tracia compare (una volta sola) nella forma Thraca, preferita dai poeti (Hor., Carm. 3, 25, 11; Epist. 1, 3, 3; 16, 13; Ovid. Fast. 5, 257; Pont. 4, 5, 5) ma usata anche da Cicerone. Il passo relativo è una similitudine che vuol rendere più efficace la descrizione del furore guerriero di Turno, allorché questi incita con violenza  i cavalli a passare sui cadaveri dei nemici:  “Come quando, presso le correnti del gelido Ebro, impetuoso – l’insanguinato Marte (Mavors) percuote lo scudo e i furenti – cavalli incita, movendo guerra (quelli per l’aperta pianura – volano avanti al noto e allo zefiro, geme sotto i colpi degli zoccoli la remotissima – Tracia (ultima Thraca) e intorno i volti dell’atra Paura (Formidinis), – dell’Ira (Iraeque) e dell’Insidia (Insidiaeque), corteo del dio, si agitano) – …” (XII, 331-336). Facile notare, qui, come Virgilio riprenda il collegamento omerico della Tracia con Marte e con altre divinità guerriere, collegamento che ricorre anche nel passo in cui, per l’unica volta, l’Eneide enuncia il nome dei Traci (Thraces, con la vocale finale breve, che riproduce la quantità del corrispondente nominativo greco (1). È il passo in cui Enea rievoca l’approdo della flotta degli esuli troiani alle foci dell’Ebro: “Lontano (procul), sacra a Marte (Mavortia), è abitata una terra dalle vaste pianure – (l’arano i Traci), su cui regnò un tempo il crudele Licurgo, – ospizio antico per Troia, stanza di Penati alleati, – finché durò la fortuna” (III, 13-16).

Comune a questi due passi è il tema della lontananza della Tracia, tema che ritorna – con l’aggettivo supremus, -a, -um – nel punto in cui Clauso di Curi, progenitore della gens Claudia, atterra sei guerrieri traci del seguito di Enea: “tre Traci (Threicios) della stirpe remota di Borea (Boreae de gente suprema) – e tre che il padre Ida e la natale terra di Ismaro hanno mandati” (X, 350-351). Borea, figlio di Astreo e di Eos, che spira dalla Tracia ed è il più violento fra tutti i venti, è dunque il capostipite di un clan di quella regione. Altrove Borea è detto “edonio”  (XII, 365), con epiteto che rimanda agli Edoni, popolazione tracia stanziata lungo lo Strimone.

La lontananza della Tracia spiega, in Virgilio, quella “indifferenza per la precisione geografica” (2) che emerge laddove le Amazzoni, pur essendo “tracie” (Threiciae) (XI, 659), vengono tuttavia connesse col fiume Termodonte, che tracico non è, in quanto scorre in Cappadocia. A parte ciò, la figlia cacciatrice di Arpalico, re della popolazione tracica degli Amimnei, viene correttamente collegata col principale fiume della Tracia: “sfianca i cavalli la tracia – Arpalice (Threissa Harpalice) e nella corsa supera l’Ebro volante” (I, 316-317).

Tracio è Orfeo, del quale Virgilio ha già cantato la storia nel IV delle Georgiche. Il mitico vate, che “poté richiamare l’anima della sposa – fidando nelle corde canore della tracica cetra (Thraeicia cithara)” (VI, 119-120), ci viene presentato per primo tra tutte le anime che dimorano nei Campi Elisi: “E in lunga veste il sacerdote tracio (Thraeicius sacerdos) – modula il canto in ritmo per gl’intervalli delle sette note – ed or con le dita or con l’eburneo plettro le tocca” (VI, 645-647). L’insistere di Virgilio sulla connotazione tracica di Orfeo sembra voler contraddire quelle raffigurazioni in cui il cantore appariva con un aspetto integralmente greco.

Tracia è la ninfa Opis, la vigile ancella di Diana che vendica su Arrunte la morte di Camilla: “la tracia (Threissa) un’alata saetta dall’aurea – faretra estrasse e rabbiosa tese l’arco di corno, – traendo indietro la freccia, finché, curvati, si unirono – i due capi tra loro e con le mani in linea essa toccò – la punta di ferro con la sinistra e la mammella col nervo e con la destra” (XI, 858-862).  Una faretra simile è quella che Enea mette in palio per chi arriverà secondo nella gara della corsa a piedi: “una faretra amazzonica colma di frecce – tracie (sagittis Threiciis), circondata da un’ampia cinghia d’oro – e agganciata mediante una fibbia adorna di una splendida gemma” (V, 311-313).

Nell’immagine dei Traci come popolo bellicoso non manca il tradizionale elemento dei cavalli da guerra d’origine tracia. Un cavallo tracio (Thracius equos) pezzato di bianco è quello montato da Turno, “di cui il furor è la più intima caratteristica” (3), allorché, impaziente di incrociare le armi, l’eroe rutulo marcia verso l’accampamento dei profughi troiani (V, 49-50). Pure di razza tracia è il destriero su cui cavalca il fanciullo Priamo nel ludus Troianus: “un tracio – cavallo (Thracius ecus) pezzato di macchie bianche, che bianche sopra lo zoccolo – le zampe e bianca la fronte ostenta superbo” (V, 565-567). Qui l’aggettivo Thracius non è puramente esornativo, ma sottolinea l’origine traco-troiana del giovinetto, destinato a propagare nel Lazio la schiatta dell’avo, ultimo re di Troia (4). Funzione analoga svolge il medesimo epiteto in un altro brano del medesimo canto, quando Enea premia Aceste, vincitore nella gara del tiro alla colomba, dicendogli: “Dello stesso vegliardo Anchise tu avrai questo dono: – il cratere cesellato, che un giorno il tracio – Cisseo (Thracius Cisseus) come dono prezioso al genitore Anchise – aveva dato, perché lo portasse come memoria e pegno del suo affetto” (V, 535-538). Cisseo, re di Tracia, era il padre di Ecuba (cfr. Eurip. Hec., 3), sicché il passaggio del cratere nelle mani di Aceste intende evidenziare simbolicamente la connessione fra i Traco-Troiani e la nuova Troia che sarebbe sorta sul territorio dell’Italia.

Ma il rapporto fra l’Italia e la Tracia è molto più antico. Secondo la storia tramandata dagli Aurunci e riferita dal re Latino ai profughi troiani, Dardano, il fondatore di Troia, era giunto “alle città idee della Frigia – ed alla tracia Samo, che ora è detta Samotracia (Threiciamque Samum, quae nunc Samothracia fertur)” (VII, 207-208), partendo dall’Italia, “dalla sede tirrena di Corito” (Corythi Tyrrhena ab sede) (VII, 209). “Sede tirrena”, cioè etrusca.

1. R. D. Williams, Aeneidos liber tertius, Oxford 1962.

2. Cinzia Bearzot, voce Tracia in Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. V, Roma, 1990,  p. 224.

3. Ettore Paratore, La scomparsa e il ritorno di Turno, in: AA. VV., Virgilio nel bimillenario, Herder, Roma 1985, p. 10.

4. Ettore Paratore, Commento a: Virgilio, Eneide, trad. di L. Canali, canti V-VI, vol III, Fondazione Lorenzo Valla, Mondatori, Milano 1979, p. 173.

Gli Etruschi nell’Eneide

Nell’Eneide l’aggettivo di forma greca Tyrrhenus, -a, -um e il corrispondente nome etnico Tyrrheni, -orum sono usati, rispettivamente, come sinonimi degli aggettivi di forma latina Tuscus, -a, -um e dei nomi Tusci, –orum ed Etrusci, –orum.  Tirreno (Tyrrhenus, XI, 612) è anche il nome di un guerriero etrusco alleato di Enea. Significato analogo hanno i termini Lydi, -orum, Lydius, -a, -um e Maeonidae, -arum, poiché Virgilio segue la tradizione erodotea (Herod. I, 94) secondo cui gli Etruschi sarebbero originari della Lidia, i cui abitanti si chiamavano un tempo Meoni (Herod. I, 7); e ciò risulta molto chiaramente dal riferimento alla città di Agilla (Agylla, poi Caere, l’odierna Cerveteri), “dove un tempo la lidia – gente (Lydia gens), illustre in guerra, s’insediò sui colli etruschi (iugis Etruscis)” (VIII, 478-479).

Il fatto che Dardano fosse partito dalla sede “tirrena”, cioè etrusca, di Corito (l’odierna Cortona) e che i fati abbiano indotto il discendente di Dardano a ritornare a Corito e in Italia (Corythum terrasque requirat Ausonias, III, 170) giustifica l’alleanza dei Troiani con gli Etruschi, i quali sono divenuti parte integrante dell’Italia da quando vi si sono insediati. “L’intenzione di Virgilio – scrive il Pallottino – di sottolineare la pertinenza degli Etruschi all’Italia, nonostante la loro provenienza esotica del resto immaginata molto lontana nel tempo, è comprovata in modo esplicito e implicito in diversi passi, a cominciare dalle Georgiche (2, 533), dove la crescita della fortis Etruria s’inserisce nel quadro idilliaco dei primordi dei popoli italici” (1). A proporre ad Enea l’alleanza con gli Etruschi è il re della piccola città di Pallanteo, l’arcade Evandro, il quale – vale la pena ricordarlo in questo contesto – porta ai piedi i caratteristici “calzari etruschi” (Tyrrhena vincula, VIII, 457). Tutta l’Etruria (omnis Etruria, VIII, 493) si è sollevata in armi per far giustizia dell’empio tiranno Mezenzio (contemptorque deum Mezentius, VIII, 7, cfr. VII, 648), che, scacciato dal suo regno di Agilla, ha trovato rifugio presso Turno. Gli Etruschi, ai quali un oracolo impedisce di combattere agli ordini di un duce italico, si sono rivolti ad Evandro, ma questi è troppo vecchio e suo figlio Pallante ha una madre sabina (matre Sabella, VIII, 509). Il capo straniero vaticinato dall’oracolo sarà dunque Enea, il quale avrà accanto a sé, oltre alla cavalleria arcade, tutte le forze etrusche. La colonna guidata da Enea si inoltra così nelle selve, finché giunge nei pressi di Agilla, vicino al luogo in cui è accampato l’esercito etrusco guidato da Tarconte (Haud procul hinc Tarcho et Tyrrheni tuta tenebant – castra locis, VIII, 602-603), “dove dovrebbe immaginarsi Tarquinia” (2).

Dopo che Enea e Tarconte hanno stipulato il patto di guerra, “la gente lidia s’imbarca, per ordine divino – affidandosi a un duce straniero” (classem conscendit iussis gens Lydia divum, externo commissa duci, X, 155-156). Il catalogo delle trenta navi (X, 163-214) ci offre la rassegna delle forze etrusche alleate dei Troiani. Massico guida mille arcieri di Chiusi e di Cosa; Abante (torvos Abas, X, 170) porta con sé seicento guerrieri di Populonia e trecento dell’Elba; Pisa, “città alfea per origine, – ma etrusca per suolo” (alpheae ab origine Pisae, urbs Etrusca solo, X, 179-180), fornisce mille uomini armati agli ordini dell’aruspice Asila (hominum divumque interpres Asilas, X, 175; Asture (pulcherrimus Astyr, X, 180) ha al suo seguito trecento uomini provenienti da Cere, dai campi del Mugnone, da Pirgo e da Gravisca (qui Caerete domo, qui sunt Minionis in arvis, et Pyrgi veteres intempestaeque Graviscae, X, 183-184); un contingente di Liguri è condotto da Cinira e da Cupavone (CinyraCupavo, X, 186); cinquecento armati sono guidati da Ocno, il quale, figlio dell’indovina Manto e del fiume etrusco, ha chiamato col nome materno la città da lui fondata, Mantova, che dalla stirpe etrusca deriva il proprio vigore (fatidicae Mantus et Tusci filius amnis, qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen, – (…) Tusco de sanguine vires, X, 199-203); infine, con un seguito non precisato, viene Auleste (gravis Aulestes, X, 207), che una leggenda vuole fondatore di Perugia (Serv. ad Aen. 10, 198), anche se Virgilio qui non ne riferisce la città di provenienza e altrove (XII, 290) lo dice semplicemente “re etrusco” (rex Tyrrhenus).

Perugia, dunque, non viene menzionata, così come non vengono menzionate importantissime città dell’Etruria quali Arezzo, Fiesole, Veio, Vetulonia, Volsinii, Volterra, Vulci, né Felsina o Spina. Non è menzionata nemmeno Tarquinia, nonostante la parte di grande rilievo assegnata al suo fondatore eponimo Tarconte, capo di tutti gli Etruschi. A spiegazione di ciò sono state ipotizzate varie ragioni (3), tra le quali il fatto che la spedizione degli alleati etruschi è essenzialmente marittima, sicché, mentre coinvolge località portuali minori quali Pirgo e Gravisca, deve per forza escludere le città dell’entroterra; oppure, che Virgilio ha trascelto le città etrusche di fondazione pelasgica; o che avrebbe intenzionalmente escluso quelle città che, come Veio, Tarquinia e Volsinii, ebbero poi un rapporto conflittuale con Roma. Fatto sta che l’Etruria di Virgilio, come ha osservato il Pallottino, “coincide soltanto approssimativamente con l’estensione dell’Etruria VII regione augustea compresa fra il Mar Tirreno, il Tevere e l’Appennino tosco-emiliano” (4).

Il Tevere infatti è ben presente in Virgilio come elemento geografico caratteristico dell’Etruria: il Tuscus Tiberis delle Georgiche (I, 499) nell’Eneide è Tuscus amnis (VIII, 472; XI, 316), Tyrrhenus Thybris (VII, 242), Tyrrhenum flumen (VII, 663), Lydius Thybris (II, 781-782). La forma usata nell’Eneide, Thybris, rimanda ad un re leggendario (etrusco per alcuni, albano per altri) che, secondo il racconto di Evandro, giunse nella Saturnia tellus prima degli Arcadi: “l’aspro Tevere (Thybris) dal corpo immane, – dal quale noi Itali in seguito il fiume col nome di Tevere (Thybrim) – chiamammo” (VIII, 329-331).

Per quanto riguarda i personaggi etruschi dell’Eneide, oltre a quelli che abbiamo già ricordati (Mezenzio, Tarconte, i duci del catalogo) deve essere citato il subdolo Arrunte, il quale, dopo avere atteso l’occasione propizia per colpire Camilla, uccide la regina e poi si affretta a nascondersi tra le file dei compagni (XI, 759-815). Il nome di Arrunte (Arruns, Aruns), tipicamente etrusco, richiama quello del figlio di Tarquinio il Superbo; e l’ultimo re di Roma, figura col lucumone Porsenna sullo scudo di Enea: “E Porsenna ordinava che l’espulso Tarquinio – accogliessero e premeva l’urbe con grande assedio: – gli Eneadi correvano alle armi in difesa della libertà” (VIII, 646-648). D’altronde l’anima di Tarquinio, insieme con quelle degli altri due re etruschi di Roma (Tarquinios reges, VI, 817), è già stata vista da Enea nella valle del Lete.

Vi sono poi personaggi del campo rutulo che recano nomi etruschi: Volcente (IX, 367 ss.), Tàrquito (X, 550), Tolumnio (XI, 429; XII, 258 ss.). Per quanto riguarda Turno, “esiste una discussione aperta circa la possibilità che la sua figura leggendaria possa in qualche modo ricollegarsi originariamente al mondo etrusco” (5).

Ci si è ovviamente domandato da quali motivi Virgilio sia stato indotto “a far d’Enea un etrusco e ad assegnare agli Etruschi tanta parte dell’impresa d’Enea” (6). Certo, fin da epoca remota gli Etruschi esercitarono sul Lazio la loro egemonia e Dionigi d’Alicarnasso (I, 29) ci informa che alla stessa Roma veniva attribuita un’origine etrusca. Ma nemmeno è da trascurare il fatto che Virgilio, oltre a recare un nomen gentilicium e un cognomen probabilmente etruschi, fosse originario di una città che dal sangue etrusco traeva il proprio vigore: Tusco de sanguine vires. “Ma quel che più conta, – è stato affermato – egli aveva anima etrusca; la quale si rivela in quella profonda religiosità che pervade il poema delle origini di Roma, onde tutti gli avvenimenti, in apparenza fortuiti, sono interpretati come segno e manifestazione della volontà degli dèi” (7).

1. Massimo Pallottino, voce Etruschi in Enciclopedia Virgiliana, cit., vol. II, p. 412).

2. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 413.

3. J. Gagé, Les Etrusques dans l’Enéide, “Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École Française de Rome” (Paris), 46, 1929, p. 123 ss.; B. Rehm, Das geographische Bild alten Italiens in Vergils Aeneis, Leipzig 1932, p. 10 ss.; G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, “Arc. Class.” 32, 1980, p. 159 ss.

4. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

5. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

6. Bruno Nardi, L’Etruria nell’Eneide, Il Basilisco, Genova 1981, p. 30.

7. Bruno Nardi, op. cit., p. 32.

Relazione presentata al Convegno “Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia” – Tarquinia, Sala Consiliare del Comune, sabato 10 ottobre 2009.

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Minaccia di ripresa del conflitto in Europa: una Grande Albania patrocinata dall’occidente

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Fonte: Mondialisation.ca 10 Ottobre 2009 Stop NATO

L’Europa potè essere appollaiata sul precipizio del suo primo conflitto armato dopo i 78 giorni di bombardamenti della guerra della NATO contro la Jugoslavia, nel 1999 e l’invasione armata della Macedonia, lanciata due anni dopo, a seguito dell’occupazione della NATO del Kosovo.

Con l’adesione formale, nel mese di aprile, dell’Albania alla NATO come membro a pieno titolo e la rielezione (almeno formale) che ne seguì del Primo Ministro della nazione, Sali Berisha, il teatro è pronto per il progetto per una nuova riconfigurazione dei confini dell’Europa sud-orientale, alla ricerca di una grande Albania.

I passaggi precedenti, in questa direzione, sono stati la guerra combattuta dagli Stati Uniti e della NATO contro la Repubblica federale di Iugoslavia, un decennio fa, a nome del cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo (AKL, in albanese UCK) e di collusione con esso, una violazione del diritto penale internazionale che si è conclusa con la separazione della provincia serba del Kosovo dalla Serbia e dalla Jugoslavia.

50000 soldati della NATO riversati in Kosovo nel giugno 1999, accompagnati dai dirigenti e dai combattenti dell’UCK, basato in Albania, sotto l’egida della risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, tra gli altri, ha condannato gli atti “terroristici commessi da entrambe le parti “e” [ribadito] l’impegno di tutti gli Stati membri per la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale di Jugoslavia e degli altri stati della regione, secondo l’Atto finale di Helsinki e l’allegato 2“.

Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO non avevano intenzione di rispettare la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite e hanno dimostrato il loro disprezzo per un documento che essi stessi avevano firmato, riarmando i combattenti del KLA, che per anni avevano aggredito, sequestrato e ucciso civili di tutte le etniche, e trasformando l’ex gruppo armato separatista nel Kosovo Protection Corps.

La risoluzione 1244 delle Nazioni Unite ordinò espressamente che il KLA ed i suoi affiliati teppisti dovevano essere disarmati, ma le potenze della NATO hanno aggirato tale requisito con un gioco di prestigio, fornendo nuove uniformi, nuove armi e un nuovo nome all’UCK. Ma non un nuovo comandante. Chi è stato scelto per questo ruolo è stato Agim Ceku, comandante dell’esercito croato durante la brutale campagna dell’Operazione Tempesta del 1995: “la più grande offensiva terrestre europea dopo la seconda guerra mondiale” [1] – e capo di stato maggiore dell’UCK durante la guerra in comune con la NATO contro la Jugoslavia, quattro anni dopo.

Incoraggiato dal sostegno militare dell’Occidente nel raggiungere il suo programma separatista, l’UCK ha scatenato i suoi affiliati contro il sud della Serbia e la Macedonia: l’Esercito di liberazione di Presevo, Bujanovac e Medveda nel primo caso, dal 1999, e l’Esercito di Liberazione Nazionale nel secondo, che nel 2001 ha iniziato gli attacchi all’interno della Macedonia, dalla sua base in Kosovo.

Solo la capitolazione del governo della Serbia, dopo l’ottobre 2000 e un accomodamento simile, sotto pressione – pressione occidentale – del governo della Macedonia nel 2001, hanno soddisfatto le aspettative di molti estremisti armati pan-albanesi in entrambe le nazioni, dell’eventuale unificazione che attraversi i diversi confini nazionali, con il sostegno degli Stati Uniti e dei loro alleati della NATO.

La conferma decisiva del sostegno occidentale è venuta nel febbraio 2008, con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza delle forze separatiste in Kosovo. L’ex capo del KLA e protetto americano Hashim Thaci, allora Primo Ministro provvisorio, ha dichiarato la secessione dalla Serbia, e la maggior parte dei paesi della NATO si affrettò a gratificare l’entità illegale del riconoscimento diplomatico.

Venti mesi dopo, oltre i due terzi del mondo, compresa la Russia, la Cina e l’India, non hanno legittimato col riconoscimento questo abominio, ma l’Occidente è rimasto fermo nel suo disprezzo per la legge e nel suo sostegno internazionale agli estremisti violenti in Kosovo, che hanno ambizioni più grandi verso l’intera regione, ambizioni incoraggiate dal sostegno consistente degli USA e della NATO, e dalla convinzione che l’Occidente continuerà questo supporto in futuro.

L’Albania è oggi uno Stato membro della NATO e, come tale, è sotto la protezione della clausola relativa alla reciproca assistenza militare dell’articolo 5 della Alleanza, e gli appelli a una Grande Albania, a scapito della territorio di diversi altri paesi europei, sono diventati più forti e più aspri.

In risposta alla crescente campagna per estendere il modello del Kosovo nella Serbia meridionale, in Macedonia, in Montenegro e anche in Grecia (Epiro), due mesi fa il Ministro degli affari esteri russo, Sergei Lavrov, ha ammonito le nazioni che considerano di riconoscere la statualità del Kosovo, consigliando loro di “pensarci molto attentamente prima di prendere questa decisione molto pericolosa, che può portare a risultati imprevedibili, e che non ha nulla di buono per la stabilità dell’Europa.” [2]

Nove giorni dopo, il Primo Ministro albanese Berisha ha affermato senza mezzi termini che “il progetto di unità nazionale di tutti gli albanesi dovrebbe essere un faro per i politici in Albania e in Kosovo.” Ha detto con enfasi che, “l’Albania e il Kosovo non devono in alcun modo vedersi come degli Stati esteri.”[3]

Un commentatore russo ha risposto a questa dichiarazione affermando che “ogni tentativo di attuare l’idea di una Grande Albania è simile a quello dell’apertura del vaso di Pandora. Questo potrebbe destabilizzare la situazione nei Balcani e provocare un guerra sul continente, simile a quella della fine degli anni ‘90“. [4]

Parlando del “progetto di una cosiddetta Grande Albania, che abbraccia tutti i territori dei Balcani abitati da albanesi, compreso il Kosovo, parti della Macedonia, Montenegro e di molti altri paesi“, l’analista politico russo Pyotr Iskenderov ha detto che “la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo e il riconoscimento di questo atto illegale da parte degli Stati Uniti e dei membri chiave dell’Unione europea, hanno stimolato la realizzazione dell’idea di una cosiddetta Grande Albania.”[5]

Anche il resto della Serbia ne è colpita – nella valle di Presevo nel sud della nazione, dove Serbia, Kosovo e Macedonia confinano – e, analogamente, la Grecia, se dobbiamo credere a un rapporto del 2001. All’epoca, Ali Ahmeti, il fondatore e comandante dell’UCK, e poi capo del National Liberation Army (DLA), che aveva cominciato a lanciare attacchi mortali contro la Macedonia, dalla sua base nella città di Prizren, in Kosovo, è stato indicato come capo glorioso dell’Esercito di Liberazione di Chameria, nella regione dell’Epiro, nel nord-ovest della Grecia, un esercito dotato di un impressionante arsenale di armi.

La bandiera nazionale introdotta dal febbraio 2008, contiene un profilo del Kosovo, con sei stelle bianche sopra di esso. Ciò che non è stato riconosciuto, per ovvi motivi, è che le stelle sono chiamate a rappresentare le nazioni con popolazione di etnia albanese come Kosovo, Albania, Serbia, Macedonia, Montenegro e Grecia.

L’addestramento militare e la capacità di combattimento dei gruppi separatisti e irredentisti pan-albanesi sono aumentati ad un livello superiore, rispetto al passato, grazie ai grandi paesi della NATO. Nel marzo la Kosovo Force guidata dalla NATO (KFOR) ha cominciato a riorganizzare il Corpo di Protezione del Kosovo, che è una copertura dell’Esercito di liberazione del Kosovo, in un embrionale esercito nazionale, la Forza di Sicurezza del Kosovo, il cui capo di stato maggiore è il tenente generale [Generale di Corpo d’armata] Sylejman Selimi, in transizione diretta dal comando del Corpo di protezione del Kosovo. Un simpatico reportage dello scorso dicembre, ha descritto più precisamente la sua nuova posizione di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito della Repubblica del Kosovo. [6]

La Forza di Sicurezza in Kosovo (FSK), come il Corpo di Protezione del Kosovo, prima che fosse vantato dai circoli occidentali come una presunta forza di polizia multietnica, non è né etnica, né una forza di polizia, ma un esercito alle prime armi, un esercito che il sedicente presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, a giugno ha definito come “una forza moderna, che è costruita in conformità con gli standard della NATO“. [7]

Nello stesso mese, la NATO ha annunciato che l’esercito prototipo del Kosovo sarebbe stato pronto a settembre, e “che la NATO dovrebbe aumentare la sua capacità di monitoraggio all’interno del FSK, al fine di garantirne una migliore efficienza“. [8]

Una precedente relazione del Kosovo ha dimostrato, inoltre, che le nuove forze armate dell’entità illegittima sarebbero niente più che un accessorio militare della NATO: “La forza di sicurezza deve essere addestrata da funzionari dell’esercito inglese, le divise sono state fornite dagli Stati Uniti ed i veicoli sono stati forniti dalla Germania. “La forza di sicurezza in Kosovo deve essere conforme agli standard della NATO.” [9]

A febbraio, per tale procedimento, l’Italia ha annunciato di voler donare 2 milioni di euro e la Germania avrebbe dato 200 veicoli militari per l’esercito. Il Comandante supremo alleato della NATO in Europa, al momento, il generale John Craddock, ha viaggiato per il Kosovo per iniziare la creazione della Forza di Sicurezza in Kosovo e ha visitato il campo nazionale di addestramento del FSK, a Vucitrn, un viaggio durante il quale ha detto: “Sono soddisfatto dei progressi fatti fino ad oggi. Alla fine della prima fase di reclutamento, abbiamo 4.900 candidati per 300 posti nell’FSK, in questa prima fase d’arruolamento.” [10]

Nel maggio di quest’anno, il Ministero della Difesa britannico ha firmato un accordo con le forze di sicurezza del neonato Kosovo, per “offrire una formazione ai membri del FSK in diverse aree, secondo gli standard della NATO.”

L’ambasciatore britannico in Kosovo, Andrew Sparks, avrebbe detto: “Ci auguriamo che dopo la firma di questo accordo e l’espansione della nostra cooperazione, il Kosovo riuscirà a diventare un membro della NATO.” [11]

Con i soldati albanesi cui la NATO ha portato l’esperienza delle zone di combattimento in Iraq e in Afghanistan, il nuovo esercito in Kosovo sarà, come le forze armate delle altre nuove nazioni della NATO, utilizzato per le guerre all’estero. Un esempio recente, ad agosto, il capo di stato maggiore generale della Macedonia, il tenente-colonnello generale Miroslav Stojanovski, “fa notare che più di un quarto dei componenti delle unità che del servizio combattente delle AMR (Forze Armate Macedoni), 1746 soldati, hanno partecipato alle missioni di pace“, il che significa che sono stati dispiegati dalla NATO. [12] Ma finora sono stati uccisi più soldati macedoni, nel 2001, dalla National Liberation Army, una sigla del KLA, che quelli morti in Afghanistan e in Iraq.

Una relazione informativa del maggio scorso, fornisce ulteriori dettagli sull’ampiezza originale e sull’obiettivo a lungo termine del nuovo esercito in Kosovo: “Secondo la Costituzione della Repubblica del Kosovo, l’FSK dovrebbe essere formato da 3000 soldati, 2000 attivi e 1000 di riserva. Essi sono organizzati in base agli standard della NATO. C’è anche la possibilità del loro impiego all’estero, garantendo la situazione mondiale in futuro.” [13]

Quando il nuovo Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha fatto la sua prima visita con tale carica, in Kosovo, nel mese di agosto, per incontrare il Comandante della KFOR, Giuseppe Emilio Gay, il presidente del Kosovo Fatmir Sejdiu, il primo ministro Hashim Thaci e il Ministro della Forza di sicurezza del Kosovo Fehmi Mujota, “il presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, ha dichiarato che sperava che il Kosovo partecipasse alle operazioni per il mantenimento della pace della NATO all’estero.” [14]

L’Afghanistan è il primo schieramento apparente.

Sei anni prima, Agim Ceku aveva offerto truppe del Corpo di Protezione del Kosovo agli Stati Uniti, per la guerra e l’occupazione dell’Iraq, come corrispettivo per il mantenimento delle truppe NATO in Kosovo.

La NATO ha dispiegato in Afghanistan, i soldati di nazioni come la Georgia, Azerbaijan, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Finlandia, per l’addestramento al combattimento in condizioni realistiche, per poi utilizzarli a casa, una volta rientrati, come è stato ammesso apertamente da parte dei funzionari delle forze armate delle nazioni sopra menzionate. Molte migliaia di soldati provenienti dall’Albania e dal Kosovo, induriti dalle operazioni nella zona di guerra afgana, saranno le formidabili forze che combatteranno nei futuri conflitti nei Balcani.

La distinzione tra le forze armate di Albania e del Kosovo, diventa in gran parte accademica. In agosto, il Primo Ministro albanese Berisha ha rilasciato una dichiarazione inequivocabile, secondo cui “l’idea di unità nazionale è fondata sui principi e gli ideali d’Europa …. Così è per il Primo Ministro del Kosovo Hashim Thaci, e io stesso lavoro per la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono agli albanesi di sentirsi uniti, a prescindere dal luogo in cui vivono“, aggiungendo che “non dovrebbe esserci alcuna amministrazione doganale e l’Albania e il Kosovo non dovrebbero guardarsi come dei paesi stranieri…” [15]

L’Albania è ora membro a pieno titolo della NATO, come l’alleanza stessa potrebbe essere chiamata a rispondere, se le autorità del Kosovo provocassero uno scontro con i vicini, come la Serbia, e insistendo nel dire che la Macedonia, l’Albania e il Kosovo non sono “stranieri“. Se l’Albania interviene, in nome del suo “popolo fratello“, in un conflitto militare con la non-opposizione dell’Alleanza, la NATO ne sarà coinvolta ipso facto.

Nel mese di settembre, i ministri degli Esteri della Russia e della Romania hanno espresso serie preoccupazioni per quanto riguarda gli sviluppi relativi al Kosovo. La Romania è uno dei soli tre paesi membri della NATO che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, gli altri sono la Spagna e la Slovacchia. Tutte e tre le nazioni sono preoccupate del fatto che il precedente del Kosovo contribuirà alla divisione armata del proprio paese.

Il portavoce del ministero degli Esteri russo, Andrei Nesterenko, ha detto che un “significativo potenziale conflitto”, persisterà in Kosovo, e che si aspettava che i rappresentanti della comunità internazionale agiscano in modo imparziale, per evitare “ulteriori provocazioni anti-serbe“.

Egli ha aggiunto che “gli eventi della provincia mostrano un significativo potenziale di conflitto resta, e che i più recenti scontri inter-etnici sono stati il risultato della volontà dei cittadini albanesi in Kosovo a comprimere, a tutti i costi, il territorio dell’etnia serba”, e che “In generale, il problema del Kosovo rimane uno dei problemi più gravi che affliggono la sicurezza regionale.” [16]

Per nulla intimidita, la NATO ha annunciato il 16 settembre, sul suo sito web della KFOR, che la “Kosovo Security Force” (FSK) ha acquisito la capacità operativa iniziale (IOC). “La decisione è stata presa dopo l’esercitazione ‘Lion Agile’, che è stato il culmine di poco più di sette mesi di duro lavoro della KFOR e della FSK nel reclutare, addestrare ed equipaggiare la forza. Il prossimo obiettivo dell’FSK è quello di raggiungere la piena capacità operativa. La KFOR controllerà e sosterrà questo processo, che dovrebbe richiedere da 2 a 5 anni.” [17]

Il giorno prima, il nuovo ambasciatore USA in Kosovo, Christopher Dell, aveva firmato il primo accordo interstatale degli Stati Uniti con l’entità secessionista, dimostrando “l’impegno dell’America per un Kosovo indipendente“, con Fatmir Sejdiu e Hashim Thaci. Il presunto presidente Sejdiu ha dichiarato, nell’occasione: “Questo accordo alza il livello di cooperazione tra il Kosovo e gli Stati Uniti, non solo attraverso vari organismi degli Stati Uniti e del Kosovo, come è stato fino ad ora.” [18]

Ciò che l’estensione del “Kosovo indipendente” suggerisce, è stato indicato alla fine di settembre, quando la polizia serba aveva scoperto un nascondiglio di armi di grandi dimensioni, nella vicina valle di Presevo, alla frontiera di Serbia-Kosovo-Macedonia, e che comprendeva “mitragliatrici, bombe, lanciarazzi, 16 bombe a mano e più di 20 mine e un grosso quantitativo di munizioni” [19], e più tardi, ai primi di ottobre, quando la polizia di frontiera macedone è stata “attaccata con armi automatiche, mentre pattugliava il confine con il Kosovo…” [20].

Ciò che può essere ugualmente nei depositi, è stato rivelato alla fine del mese scorso, quando la Germania ha espulso il primo dei 12.000 Rom (zingari) che rispedisce con la forza in Kosovo. Verso l’esclusione, le persecuzioni, gli attentati e la morte. I Rom che restano rischiano di morire nei rifugi, dove la missione dell’amministrazione provvisoria dell’ONU in Kosovo (UNMIK) li ha abbandonati, dopo l’assunzione del controllo della provincia da parte della NATO e dell’UCK, nel giugno 1999.

I campi, nei pressi di un complesso minerario e metallurgico chiuso, che ospita scorie di materiali tossici per 100 milioni di tonnellate, sono state considerate come una misura temporanea, dopo che un quartiere, che era stato la casa per 9000 zingari, è stato distrutto dagli albanesi, dopo che le forze di sicurezza serbe avevano lasciato la zona, negli ultimi giorni del conflitto in Kosovo, nel giugno 1999.”[21]

A poche settimane prima che la Russia aveva avvertito che sta valutando “fermare la missione dell’OSCE [Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa] in Kosovo istituito per proteggere i diritti delle comunità etniche inaccettabile“.

L’ambasciatore russo presso l’OSCE, Anvar Azimov, ha dichiarato: “Queste misure, sanzionate da nessuno, sono unilaterali e riguardano l’attività complessiva del mandato di questa missione.” [22]

Il 5 Settembre, un notiziario serbo ha riferito che più di 200000 rifugiati provenienti dal Kosovo sono stati registrati in Serbia, comprese l’etnia serba, Rom, Gorani e altri non-albanesi. Questo numero non comprende coloro che non erano iscritti, coloro che erano fuggiti in altri paesi, come la Macedonia, e quelli cacciati dalle loro case, ma rimasti in Kosovo.

Negli ultimi dieci anni, centinaia di migliaia di abitanti del Kosovo, anche di etnia albanese, sono stati uccisi e cacciati dalla provincia. Organizzazioni Rom hanno stimato che il numero di rom, ashkali ed egiziani colpiti arriva alle sei cifre. Serbi, Gorani, turchi, bosniaci, montenegrini e altre vittime del terrore razziale e dello sterminio in Kosovo si contano anche loro a centinaia di migliaia.

I media occidentali hanno detto regolarmente, ormai da dieci anni, che il Kosovo è per il 90 per cento di etnia albanese. Potrebbe anche essere il caso adesso, dopo un provvedimento del genere su larga scala, ma le cifre di cui sopra confutano che fosse così in precedenza, in una provincia di non più di due milioni di abitanti.

Dopo la prima dichiarazione del Primo Ministro albanese, che il suo paese e il popolo del Kosovo e il suo sono uno solo, il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergei Lavrov, ha emesso una condanna su tale dichiarazione e sul forte coinvolgimento dell’occidente: “Siamo molto preoccupati dalla dichiarazione del Primo Ministro dell’Albania. Riteniamo che ci dovrebbero essere risposte adeguate alla dichiarazione – in primo luogo, dall’UE e anche dalla NATO. Non abbiamo avuto tali reazioni. Ci auguriamo che, nonostante il fatto che non ci siano dichiarazioni pubbliche provenienti dalle capitali europee, i negoziati con le autorità albanesi siano in corso.” [23]

Mosca è preoccupata per le dichiarazioni di Tirana sull’’unità essenziale di tutti gli albanesi’.”[24]

A meno che i commenti di Lavrov siano state rigorosamente retoriche, si dovrà aspettare molto tempo prima che i leader di Stati Uniti, NATO e UE facciano qualche dichiarazione, molto meno critiche, sulle affermazioni di Berisha e delle sue controparti in Kosovo e in Macedonia, per una unica Grande Albania (o Grande Kosovo). Le nazioni della NATO hanno armato, addestrato e dotato di supporto logistico l’Esercito di Liberazione del Kosovo, nella sua guerra contro le forze di sicurezza serbe e jugoslave alla fine degli anni ‘90, sono entrati fianco a fianco con l’UCK in Kosovo e l’hanno istituzionalizzato come Corpo di Protezione del Kosovo, nello stesso anno; hanno sottratto l’Esercito di liberazione nazionale da una pesante sconfitta da parte dell’esercito macedone, nel 2001; l’hanno ricreato quest’anno, come nucleo di un futuro esercito nazionale del Kosovo, la Forza di Sicurezza nel Kosovo, e l’anno scorso hanno riconosciuto la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, guidata dal ex leader del KLA, Hashim Thaci.

Non vi è alcuna ragione di credere che Washington e Bruxelles abbandoneranno ora i loro clienti e il loro progetto di sovversione e mutilazione di quattro paesi confinanti, per creare un esteso super-stato Albania-Kosovo etnicamente pulito, in preda alla criminalità, mentre quest’ultimo si avvicina alla sua attuazione.

Il 6 ottobre, Berisha è stato a Pristina, capitale del Kosovo, “a firmare una serie di accordi. Secondo [Berisha], il suo governo lavorerà per completare i progetti di infrastruttura che prevedono l’unificazione dei sistemi economici di Albania e Kosovo, la creazione di vie di comunicazione per il trasporto merci e prevede la migrazione economica della popolazione.” [25]

Un rapporto di fonte italiane della visita, ha detto che “l’Albania ha anche ceduto al Kosovo il porto adriatico di Shendjin (Shengjin), dando ak nuovo Stato indipendente uno sbocco sul mare“. [26]

Nelle parole di Berisha, “il porto di Shengjin è ora l’accesso sul Mare del Kosovo.” [27] L’accesso al mare Adriatico che la Serbia non ha più dal crollo dell’Unione di Serbia e Montenegro, di tre anni fa.

La sua controparte, l’ex capocosca Hashim Thaci, ha fatto eco alla dichiarazione precedente del suo invitato, dicendo: “Gli albanesi vivono in molti paesi, ma siamo una nazione. I paesi della regione hanno due paesi amici nel Kosovo e nell’Albania, paesi partner per la cooperazione, la pace e la stabilità degli investimenti nella regione e per l’integrazione europea“. [28]

Il primo ministro albanese è stato citato, sul sito web del Presidente del Kosovo, il 7 ottobre, promettendo che “l’Albania dovrà assistere il Kosovo in ogni modo possibile. L’Albania è determinata a rinnovare, nel modo più veloce possibile, tutte i suoi collegamenti infrastrutturali con il Kosovo. Nei prossimi quattro anni, la costruzione dell’autostrada Qafe Morine-Scutari è stata completata e darà al Kosovo occidentale un veloce accesso al mare l’anno prossimo, il mio governo attuerà uno studio di fattibilità per sviluppare il progetto di una ferrovia Albania-Kosovo. Molte altre linee ed infrastrutture sono e saranno costruite.” [29]

Berisha ha incontrato anche il comandante della Kosovo Force (KFOR), il tenente generale tedesco Markus Bentler e ha detto: “Le truppe albanesi potrebbero far parte della KFOR”, prima di deporre una corona sulla tomba di Adem Jashari, il primo comandante del KLA. [30]

Il giorno prima della riunione Berisha-Thaci a Pristina, l’accomodante governo del presidente serbo Boris Tadic e del ministro degli Esteri, Vuk Jeremic, si sono dichiarati concordi sulle ragioni per cui le intenzioni della NATO e le intenzioni della comunità Pan-albanese nella regione hanno incontrato poca opposizione. Jeremic, pur dichiarando nella forma che la sua nazione non aderirà alla NATO, nel futuro immediato, (anche se ha aderito al programma di transizione del Partenariato per la Pace) ha dichiarato: “Continuiamo la stretta collaborazione, perché che la NATO è il fattore più importante per garantire la sicurezza nel mondo“.

Un sito d’informazioni russo, riferendo di questa affermazione, ha ricordato ai suoi lettori che “nel 1999 le forze aeree della NATO hanno bombardato Belgrado e altre città della Serbia, per sostenere il separatismo albanese in Kosovo. E più di 3000 serbi sono morti e decine di migliaia di persone sono state ferite. La NATO promuove anche la separazione del Kosovo dalla Serbia…” [31]

Alla fine del mese scorso l’ammiraglio statunitense James Stavridis, capo del Comando Europeo degli USA e Comandante supremo alleato della NATO in Europa, ha partecipato alla riunione sulla Carta Atlantica, che Washington ha firmato con l’Albania, Macedonia, Croazia, Bosnia e Montenegro nel 2003,  di fatto tutti i Balcani, per prepararli all’adesione alla NATO. Stavridis, poi, è partito per la Croazia, per supervisionare le manovre militari multinazionali ‘Jackal Stone 09’, il cui scopo è “migliorare con successo le capacità dei partecipanti nel condurre operazioni di contro-insurrezione.”

Co-organizzato dallo Special Operations Command Europe degli Stati Uniti, il comandante di quest’ultimo, il generale Frank Kisner, ha elogiato il successo di tale operazione: “Questa programmazione ininterrotta ha riunito i rappresentanti di 10 nazioni e ha permesso loro di eseguire efficacemente una moltitudine di compiti in aria, terra e mare.” [32]

‘Jackal Stone 09’ è stata la prima esercitazione militare condotta in Croazia, dopo la sua adesione alla NATO, all’inizio di quest’anno. Funzionari degli Stati Uniti e della NATO hanno ripetutamente detto che dopo la Croazia e l’Albania, la Macedonia, la Bosnia e il Montenegro saranno i primi a divenirne membri a pieno titolo, e che la Serbia e il Kosovo sarebbero stato i prossimi.

Il 2 ottobre, la Bosnia ha presentato al Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, una richiesta formale per un piano d’azione d’adesione alla NATO; una domanda de facto per una piena adesione. Rasmussen ha detto, “Credo che questa domanda sia la strada migliore per una stabilità durevole nell’area euro-atlantica. E’ la mia visione, vedere tutti i paesi dei Balcani occidentali integrarsi nella NATO.” [33]

La NATO ha usato vari pretesti per l’intervento militare nei Balcani, nel corso degli ultimi quindici anni, molte di queste scuse erano contraddittorie, come il Kosovo contro la Repubblica serba di Bosnia e con il Kosovo nel suo insieme contro il nord di Kosovska Mitrovica. La sua intenzione, tuttavia, non è cambiata e rimane: assorbire ogni nazione e pseudo-nazione della regione nei suoi ranghi, e reclutare nuovi membri e partner per le sue guerre più lontane.

Il separatismo armato è stato lo strumento utilizzato per avviare la distruzione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia nel 1992, un processo che ha frammentato questa nazione nelle sue sei repubbliche costituenti quella federale, e nel caso del Kosovo, una provincia strappata a un’ex-repubblica.

Ma la revisione dei confini nazionali, con le perturbazioni e le violenze che comporta inevitabilmente, non è completa.

Il Kosovo è senza dubbio un vaso di Pandora, in fondo a cui non ci attende, necessariamente, la speranza. Resta una scintilla potenziale, in grado di aumentare il pericolo, come osservato in precedenza, di “destabilizzare la situazione nei Balcani e di scatenare una guerra sul continente, simile a quella della fine degli anni ‘90“.


Rick Rozoff è un collaboratore di Mondialisation.ca

Note

1) Wikipedia
2) Black Sea Press, August 6, 2009
3) Voice of Russia, August 20, 2009 3
4) Ibid
5) Ibid
6) New Kosova Report, December 20, 2009
7) Kosovo Times, June 9, 2009
8 ) Kosovo Times, June 8, 2009
9) Kosovo Times, May 27, 2009
10) NATO, Supreme Headquarters Allied Powers Europe, February 18, 2009
11) Southeast European Times, May 21, 2009
12) Makfax, August 17, 2009
13) New Kosova Report, May 20, 2009
14) Focus News Agency, August 13, 2009
15) Sofia News Agency.
16) Tanjug News Agency, September 4, 2009
17) NATO, Kosovo Force, September 16, 2009
18) Beta News Agency, September 15, 2009
19) Tanjug News Agency, September 23, 2009
20) Makfax, October 2, 2009
21) Washington Times, May 3, 2009
22) FoNet, September 11, 2009
23) Russia Today, October 5, 2009
24) Voice of Russia, October 6, 2009
25) Ibid
26) ADN Kronos International, October 6, 2009
27) B92, October 6, 2009
28) B92, Beta News Agency, Tanjug News Agency, October 6, 2009
29) President of the Republic of Kosovo, October 7, 2009
30) Beta News Agency, October 7, 2009
31) Voice of Russia, October 5, 2009
32) United States European Command, September 28, 2009
33) NATO, October 2, 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’indipendenza del Kosovo: la Corte dell’Aia ne stabilirà il diritto

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La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja esaminerà dal 1° dicembre 2009 la questione che l’è stata sottoposta da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “La dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle istituzioni provvisorie dell’amministrazione autonome del Kosovo, è coerente con il diritto internazionale?”[1]
Il deferimento alla Corte da parte dell’Assemblea generale è una procedura rarissima. Mira a stabilire il diritto di sconfessare uno o più membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. È stata finora utilizzata una sola volta, nel 2003-04, per dimostrare l’illegittimità del “muro di sicurezza” costruita dallo Stato di Israele annettendosi dei territori palestinesi. Gli Stati Uniti avevano usato il loro diritto di veto per bloccare qualsiasi condanna di Israele, in quel caso. Beffandosi della Corte, il presidente degli Stati Uniti confermò per iscritto, al Primo Ministro israeliano, di sostenere la politica del fatto compiuto [2].
L’indipendenza del Kosovo è il risultato di un intervento militare della NATO, senza mandato delle Nazioni Unite.
Trentasei Stati hanno depositato memorie scritte alla Corte (in ordine di registrazione: la Repubblica Ceca, Francia, Cipro, Cina, Svizzera, Romania, Albania, Austria, Egitto, Germania, Slovacchia, Russia, Finlandia, Polonia, Lussemburgo, Libia, il Regno Unito, Stati Uniti d’America, Serbia, Spagna, la Repubblica islamica Iran, Estonia, Norvegia, Paesi Bassi, Slovenia, Lettonia, Giappone, Brasile, Irlanda, Danimarca, Argentina, Azerbaijan, le Maldive, Sierra Leone, Bolivia e la Repubblica Bolivariana del Venezuela).
Quattordici Stati hanno presentato osservazioni in merito alla dichiarazioni di cui sopra (in ordine di registrazione: Francia, Norvegia, Cipro, Serbia, Argentina, Germania, Olanda, Albania, Slovenia, Svizzera Bolivia, il Regno Unito, Stati Uniti d’America e Spagna).
La Corte ha invitato le autorità del Kosovo a presentare un breve commento in merito alle altre memorie registrate, e per discutere oralmente nel corso del procedimento.
Copie dei documenti scritti sono state inviate alle differenti parti, ma sono tenute riservate. Spetta al Tribunale renderli pubblici, se vuole, nel corso del processo o durante la pronuncia della sua decisione.
In particolare, in caso di controversie tra i sostenitori dell’indipendenza, raggruppati intorno agli Stati Uniti e ai suoi alleati, Regno Unito e Francia, e gli oppositori dell’indipendenza, la Russia e la Cina. La Corte dovrà stabilire se l’indipendenza unilaterale degli albanesi del Kosovo è una violazione del diritto internazionale o una nuova norma.
I 62 Stati che, su iniziativa degli Stati Uniti, hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, nonostante aver detto in coro che è un caso unico e non doverebbe costituire un precedente giuridico. Vi sono diversi stati non riconosciuti nel mondo (Abkhazia, Repubblica Srebska, Alto Karabash, Ossezia del Sud, Palestina, Somaliland…) pur avendo proprie istituzioni politiche. In aggiunta, vi sono numerosi movimenti separatisti nel mondo (vedi sopra la mappa dei conflitti più importanti in questo settore). La decisione della Corte, pertanto, deborderà ampiamente oltre alla semplice questione del Kosovo.


[1] Risoluzione A/63/L.2 Assemblea Generale, datata 8 Ottobre 2008.
[2] Lettera di George W. Bush ad Ariel Sharon, Réseau Voltaire, 14 Aprile 2004.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Bolivia acquista aeromobili cinesi

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Fonte: UPI 5 ottobre 2009

La Bolivia difende i suoi acquisti di aerei leggeri d’attacco dalla Cina e la linea di credito aperta per l’importazione di hardware militare dalla Russia, sostenendo che le sue acquisizioni di armi sono minori rispetto a quelli di altri paesi sudamericani. Il ministro della Difesa Walker San Miguel ha detto che la Bolivia investe meno dei suoi vicini sulle attrezzature militari e s’è impegnata ai principi della pace e della dissuasione. “Ma non possiamo avere delle forze armate che non hanno accesso alle attrezzature minime per la loro formazione professionale e per l’azione, se necessario“, ha detto San Miguel.

I suoi commenti seguono le recenti dichiarazioni di altri leader sudamericani che ‘criticano l’acquisto di armi dei loro vicini e invita alla moderazione delle spese militari’. L’amministrazione Obama ha detto che è preoccupata per i grandi acquisti di armi da parte delle nazioni che devono indirizzare le loro risorse alla riduzione della povertà.

Il commento del ministro arriva dopo la conferma del governo che la Bolivia avrebbe acquistato sei velivoli K-8 provenienti dalla Cina, per rafforzare le sue operazioni anti-narcotici e i controlli alle frontiere. Il governo del presidente Evo Morales è stato oggetto di forti critiche per aver approvato l’acquisto, del valore 57,8 milioni dollari – critiche che hanno detto che i fondi avrebbe dovuto essere diretti allo sviluppo dello Bolivia. Altri K-8 sono stati acquistati in precedenza dal Venezuela.

Ulteriori critiche hanno seguito la linea di credito aperta per l’acquisto di armi dalla Russia, anche se i dettagli degli acquisti non sono state rivelati.

L’accordo di finanziamento per l’aereo non è chiaro, ma la Cina sta portando avanti una campagna combinata diplomatica ed economica in Sud America per aumentare la sua presenza nella regione, per assicurarsi sia energia e materie prime per la sua fiorente crescita industriale che amici. La Cina ha anche promesso di mettere nello spazio un satellite boliviano.

Il velivolo è stato sviluppato congiuntamente da Cina e Pakistan come biposto d’addestramento, ma in seguito è stato dotato di avionica avanzata e di cannoni per operare come aereo da combattimento. La Cina ha venduto con successo l’aereo a Egitto, Sri Lanka e Zimbabwe, paesi del Sudest asiatico e Filippine, dove è probabile che sostituirà l’addestratore British Aerospace BAe Hawk Mk-53.

San Miguel ha indicato che la Bolivia ha scelto l’opzione cinese per non aver ricevuto risposta positiva da fornitori europei e degli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti non aiutano e l’Europa ha le proprie regole, così siamo andati in Cina“, ha detto. Un acquisto corrispondente dalla Repubblica Ceca non hanno avuto seguito a causa delle obiezioni degli Stati Uniti.

Morales ha detto che la Bolivia non ha, inoltre, potuto ricevere cinque elicotteri in “donazione” dal Brasile, perché quei velivoli avevano componenti degli Stati Uniti e non potevano essere trasferito in Bolivia prima dell’approvazione di Washington. Morales è in disaccordo con le agenzie governative degli Stati Uniti e ha sospeso la cooperazione con Washington, accusando gli agenti della Drug Enforcement Administration di spionaggio.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Alla ricerca di un nuovo ordine mondiale

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A Pittsburg –“la città dell’acciaio”, battezzata così dalla sua storia industriale- si è svolto recentemente un nuovo Summit del G-20, dove si sono date appuntamento le principali potenze del mondo con il proposito di dibattere –in quest’occasione- su tre temi centrali: il recupero economico, la regolamentazione bancaria e i titoli multimilionari. Da questo incontro, il G-20 è diventato il foro per dibattere sulla gestione economica mondiale, concedendo una nota incidenza alle decisioni che espongono le potenze emergenti come nel caso della Cina, l’India e il Brasile, tra altre.

Il Gruppo G-20 era composto dai ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi che integrano il G-8 (Germania, Canada, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone e Russia); un variegato insieme di undici paesi denominati “emergenti” (Arabia, Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sudafrica e Turchia), oltre che l’Unione Europea.

Tutto è iniziato all’Aquila

Agli inizi dell’anno in corso, cinque paesi emergenti conformarono il G-5, con l’obiettivo di configurare una posizione collettiva da presentare al cospetto delle potenze integranti del G-8. Con questo obiettivo, nel luglio scorso, Brasile, Cina, India, Messico, Sudafrica e i paesi ricchi si sono riuniti nella località italiana dell’Aquila (città dell’Abruzzo, capoluogo di regione e provincia), tentando di trovare una strategia di uscita dalle politiche monetarie e fiscali espansive, controllando gli eccessi finanziari come quelli prodotti dalla recente crisi di crediti.

A principi dello scorso mese di settembre, a Londra, le nazioni del gruppo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), hanno sostenuto una riunione con i ministri delle Finanze delle superpotenze, sollecitando una maggiore rappresentazione nel Fondo Monetario Internazionale. Stimolato dalla grave crisi economico-finanziaria, il G-20 ha fatto un importante passo in avanti, contrassegnato da impostazioni rinnovatrici, in particolare, quelle provenienti dal Brasile e dall’India.

Il tramonto del G-8 era iniziato. Al riguardo, è stato molto onesto il parere di John Samuel (Direttore Internazionale di Action Aid e Consigliere dell’ONU per la Campagna degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio), quando ha asserito che “Il G-8 ha affrontato una crisi di credibilità. Ha prodotto un record di frasi fatte e promesse incompiute. Di fronte al collassato nuovo mercato liberale è rimasto senza lavoro e attualmente ha solo una funzione decorativa”. Al presente i paesi del G-20 concentrano un 90% della produzione economica mondiale e due terzi della popolazione mondiale.

I temi esposti a Pittsburg

Nell’ultimo summit del G-8 e, successivamente, quello del G-20 –Pittsburg non poteva essere un’eccezione-, anche se tardivamente, i governanti hanno riconosciuto che le forze destabilizzatrici delle loro rispettive economie sono state incoraggiate dall’eccessivo aumento del credito bancario e dalle “bolle” speculative di alcuni mercati di attivi.

Ancora adesso, la riforma della regolamentazione finanziaria internazionale dista molto dall’essere raggiunta. C’è consenso per quanto concerne che è ancora presto dare per conclusa la crisi bancaria in molti paesi, così come in qualsiasi dei mondi di cui gli economisti sono soliti dividerli.

In questa occasione, i paesi emergenti sono confluiti nel Summit di Pittsburg, cercando di accelerare un processo di riforme del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Così l’ha dichiarato il cancelliere brasialiano Celso Amorím: “Quello cui più teniamo, è la consolidazione delle riforme del FMI e della BM che sono gli strumenti di controllo del sistema finanziario globale”. Per il suo omologo messicano, la priorità radica nell’“… allargare la partecipazione e la voce dei paesi in sviluppo nei processi che riguardano le prese di decisioni e nel consolidamento di norme internazionali: con l’obiettivo di promuovere il rinvigorimento della partecipazione delle economie emergenti nelle istituzioni finanziarie internazionali come il FMI e la BM”. Il ministro argentino, Amado Boudou, ha posto l’accento sulla necessità di un maggiore controllo dei “paradisi fiscali”.

Nel complesso, il gruppo BRIC ha insistito molto sulla necessità che i due organismi multilaterali citati, rendano concreta una utile democratizzazione prima del 2013 e, realisticamente –hanno dichiarato-, nel 2011.

Nel Summit di Pittsburg –secondo l’Istituto El Cano di Madrid- questo incontro presenta un forte contrasto nei confronti di quello svolto a Londra verso la metà del corrente anno, il quale si è caratterizzato da un clima di panico nei confronti dell’espansione della crisi finanziaria e la debilitazione della Banca Internazionale, la contrazione del commercio mondiale, unite alle gravi crisi che sono sorte in molti paesi emergenti.

Se la priorità del Summit di Londra è stata quella di assicurare un compromesso da parte dei governi per quanto concerne la presa di misure che arrestino il deterioro dell’economia mondiale, a Pittsburg si è cercato di gettare le basi per raggiungere una regolare normalizzazione e correggere ed evitare gli errori prima commessi.

Speranze rinnovate

Il G-20, in questa occasione allargato, ha raggiunto il suo Terzo Summit di Capi di Stato e di Governo con la speranza che le riforme esposte e accettate, consentano porre le basi per una crescita robusta, sostenuta ed equilibrata per i nostri tempi e che si consolidi nel futuro.

Vale la pena prendere in considerazione, come previsione, quanto è stato esposto nella dichiarazione finale del Summit: “Nonostante sia iniziata una qualche forma di recupero, non bisogna compiacersi di ciò, ma bisogna avanzare nelle riforme necessarie per raggiungere una crescita sostenuta ed equilibrata. Vogliamo una crescita priva da cicli estremi e mercati che fomentino la responsabilità, no l’avventatezza”.

I governanti, a loro volta, si sono compromessi di finire con gli eccessi nel settore bancario, riconoscendo che la loro precedente avventatezza, accompagnata dall’assenza di responsabilità, sono stati i principali fattori che hanno portato alla crisi che stiamo attraversando. Di fronte a ciò, gli obiettivi devono essere fissati a lungo termine, evitando, allo stesso tempo, la prematura ritirata dai piani di stimolo diretti a incentivare la ripresa economica e lottare contro il protezionismo commerciale.

È indubbio –come abbiamo già dichiarato in un articolo precedente- e, volendo parafrasare a Lula da Silva –nella riunione di Bretton Woods-, da ormai sessantacinque anni il mondo non può più essere guidato con gli stessi codici, norme e valori. La globalizzazione ha provocato una svolta radicale.

Barack Obama ha affermato a conclusione del Summit: “Abbiamo convenuto di avere un sistema di cooperazione globale. Non possiamo affrontare i problemi del secolo XXI con i criteri del secolo XX”. Nella sua analisi fatta a Pittsburg, ha osservato come uno degli avanzamenti fondamentali del Gruppo dei 20 sia quello “… che le economie emergenti abbiano maggiore voce nel Fondo Monetario Internazionale e contribuire così a che le economie emergenti e quelle più vulnerabili escano dalla povertà”.

Nel mese di luglio del 2010, in Canada, si svolgerà un riesame delle regole fissate a Pittsburg, il quale sarà seguito da un altro l’anno dopo in Corea del Sud.

Un nuovo scenario economico mondiale

In termini politici, la situazione sullo scenario mondiale è cambiata e, pertanto, accadono logiche ripercussioni nell’ambito economico. Senza dubbio, la fine è ancora incerta. Ma è anche vero che si sono integrati nel dibattito internazionale, oltre il G-5, anche il BRIC, l’ASEAN+3, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, il G-12 all’interno delle Nazioni Unite e il G-8+G-5+Egitto. In poche decadi, la governabilità del mondo evolverà sempre di più e per trovare soluzioni ai problemi che si sollevano –oltre a quelli che già ci sono-, è necessario trovarsi nel tavolo del grande dibattito. Il Brasile lo sta facendo.

Cosa aspettano i governi sudamericani? Continuare a vivere nel “lontano Occidente”?

(trad. di V. Paglione)


Bernardo Quagliotti De Bellis, segretario generale dell’Associazione Sudamericana di Geopolitica, presiede l’Accademia uruguayana di geopolitica e strategia. facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Obama si impegna a mantenere segrete le armi nucleari di Israele

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Fonte:  http://www.washingtontimes.com/ 2 ottobre 2009

Il presidente Obama ha ribadito la quarantennale intesa segreta che ha permesso ad Israele di mantenere un arsenale nucleare senza aprirlo alle ispezioni internazionali, l’hanno detto tre funzionari a conoscenza dell’intesa.

I funzionari che hanno parlato a condizione di anonimato, perché stavano discutendo di conversazioni private, hanno detto che Obama si è impegnati a mantenere l’accordo quando ha ospitato alla Casa Bianca, la prima volta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a maggio.

Con l’accordo, gli Stati Uniti non hanno fatto pressioni su Israele di rivelare le sue armi nucleari o per firmare il trattato di non-proliferazione nucleare (TNP), che potrebbe richiedere ad Israele di rinunciare al suo arsenale stimato a diverse centinaia di bombe nucleari.

Israele era nervoso per il fatto che Obama non avrebbe continuato l’accordo del 1969, a causa del suo forte sostegno alla non proliferazione e alla priorità d’impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari. Gli Stati Uniti e cinque altre potenze mondiali hanno fatto progressi durante i colloqui con l’Iran, a Ginevra, Giovedi, con l’Iran che siglerebbe un accordo di principio per trasferire del carburante, potenzialmente convertibile in armi, fuori dal paese ed aprire la struttura di recente rivelata al controllo internazionale.

Netanyahu ha lanciato che la notizia della continuazione dell’accordo USA-Israele decisa la scorsa settimana, in un commento che ha attirato poca attenzione. Gli è stato chiesto dal Canale-2 di Israele, se fosse preoccupato che il discorso di Obama, presso l’Assemblea generale dell’ONU, che chiedeva un mondo senza armi nucleari, si applicasse ad Israele.

E’ stato assolutamente chiaro dal contesto del discorso, che stava parlando della Corea del Nord e dell’Iran“, ha detto il leader israeliano. “Ma voglio ricordare che nel mio primo incontro con il presidente Obama, a Washington, ho ricevuto da lui, e ho chiesto di ricevere da lui, un elenco dettagliato delle intese strategiche che esistono da molti anni tra Israele e gli Stati Uniti su tale questione. Non l’ho chiesto per nulla, e non per nulla che l’ho ricevuto [il documento].”

L’intesa di principio sul nucleare è stato raggiunta in un vertice tra il presidente Nixon e il primo ministro israeliano Golda Meir, che ebbe inizio il 25 settembre 1969. Avner Cohen, autore di “Israele e la Bomba” e principale autorità al di fuori del governo israeliano, sulla storia del programma nucleare di Israele, ha detto che gli accordi impongono “agli Stati Uniti di accettare passivamente lo status di Israele di nazione con armi nucleari, finché Israele non svelerà al pubblico la sua capacità o testerà un’arma.”

Non vi è alcuna registrazione formale dell’accordo, né gli israeliani, né i governi statunitensi l’hanno mai pubblicamente riconosciuto. Nel 2007, tuttavia, la Nixon library declassificò una nota del 19 luglio 1969, del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, che si avvicinava ad articolare la politica degli Stati Uniti sulla questione. Il memo dice: “Mentre noi potremmo idealmente fermare l’effettivo possesso (di armi nucleari, ndt) di Israele, ciò che vogliamo veramente, al minimo, sarebbe solo impedire che il possesso d’Israele possa diventare un dato di fatto internazionale.”

Cohen ha detto che la politica risultante era l’equivalente del “non chiedere, non rispondere“.

Il governo Netanyahu ha cercato di riaffermare l’accordo in parte, per la preoccupazione che l’Iran volesse avere informazioni sul programma nucleare israeliano, nei negoziati con gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali. L’Iran ha più volte accusato gli Stati Uniti di avere un doppio standard non opponendosi all’arsenale di Israele.

Mr. Cohen ha detto la riaffermazione e il fatto che Netanyahu ha chiesto e ricevuto un verbale dell’accordo, suggeriscono che “sembra non solo che non vi sia alcuna intesa comune su quanto era stato concordato nel settembre 1969, ma è anche evidente che anche le note dei due leader non esisterebbero più. Vuol dire che Netanyahu ha voluto avere qualcosa per iscritto, che implica l’accordo. Afferma inoltre che gli Stati Uniti sono in realtà un partner nella politica di Israele di ‘opacità nucleare’“.

Jonathan Peled, portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington, non ha voluto commentare, come ha fatto il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca.

L’intesa segreta potrebbe compromettere l’obiettivo dell’amministrazione di Obama di un mondo senza armi nucleari. In particolare, potrebbe pregiudicare gli sforzi degli Stati Uniti nel mettere in vigore il Comprehensive Test Ban Treaty e il trattato per la limitazione della produzione di materiali fissili, due accordi che le amministrazioni degli Stati Uniti, in passato, hanno sostenuto dovesse essere applicato ad Israele. Avrebbero vietato i test nucleari e la produzione di materiale per le armi.

Una collaboratrice del Senato, che ha familiarità con la riaffermazione dell’accordo di maggio, e che ha chiesto l’anonimato a causa della delicatezza della questione, ha detto “che ciò che questo significa è che il Presidente ha assunto degli impegni e che politicamente non aveva scelta, se non mollare per quanto riguarda il programma nucleare israeliano. Però così, si mette in discussione praticamente ogni aspetto  dell’agenda del presidente. Il presidente ha dato ad Israele il nullaosta per non aderire al trattato di non proliferazione.”

Daryl Kimball, direttore esecutivo dell’Arms Control Association, ha detto che il passo è poco dannoso per la politica degli Stati Uniti. “Penso che certamente i due neoleader degli Stati Uniti e d’Israele, volevano chiarire le intese precedenti tra i loro governi su questo tema”, ha detto.

Tuttavia il signor Kimball ha aggiunto, “sarei rispettosamente in disaccordo con Netanyahu. L’indirizzo del Presidente Obama alle Nazioni Unite e la risoluzione 1887 del Consiglio di sicurezza si applicano a tutti i paesi, indipendentemente delle intese segrete tra gli Stati Uniti e Israele. Un mondo senza armi nucleari è coerente con l’obiettivo dichiarato da Israele di volere un Medio Oriente senza armi di distruzione di massa. Il messaggio di Obama è che la proliferazione e le stesse responsabilità del disarmo dovrebbero essere applicati a tutti gli Stati e non solo ad alcuni.”

La dottrina nucleare israeliana è conosciuta come “il lungo corridoio.” Con essa, Israele avrebbe cominciato a prendere in considerazione il disarmo nucleare solo dopo che tutti i paesi, ufficialmente in guerra con essa, avessero firmato i trattati di pace e tutti i paesi limitrofi avessero rinunciato programmi non solo alle armi nucleari, ma anche agli arsenali chimici e biologici. Israele ritiene che le armi nucleari siano una garanzia esistenziale in un ambiente ostile.

David Albright, presidente dell’Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale, ha detto di sperare che l’amministrazione Obama non conceda troppo a Israele. “Si spera che il prezzo di tali concessioni sia l’accordo israeliano al Comprehensive Test Ban Treaty, al trattato per la limitazione della produzione di materiali fissili, e l’accettazione dell’obiettivo a lungo termine di un Medio Oriente libero dalle delle armi di distruzione di massa“, ha detto. “In caso contrario, l’amministrazione Obama avrà pagato troppo, data la sua attenzione a un mondo libero dalle armi nucleari.”

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Spunti di ricerca sul capitalismo manageriale degli USA

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Non sono uno storico di professione, ma più semplicemente un curioso che cerca di indagare sulle origini del capitalismo Usa che, nell’immaginario collettivo, ha saputo esprimere l’età delle rivoluzioni liberali e democratiche, e/o “delle rivoluzioni borghesi” .

Ma  questa rappresentazione ideologica che parte dalla guerra di Indipendenza americano non è in linea, nel senso  della continuità, al pensiero  “Illuminista del ‘700” che chiuse il  secolo con la Rivoluzione Francese. Le origini politiche culturali europee della colonizzazione americana influenzarono soltanto in parte il nuovo mondo americano; la “Guerra di Indipendenza” americana (nei confronti della madre patria Inghilterra) si sviluppò  in un contesto di valori creati dalle popolazioni colonizzatrici che differivano tra di loro oltre che per  religioni ed etnie, quanto e soprattutto per le organizzazioni sociali che divisero il Nord (industriale) dal Sud (agricolo); e tutto questo fino con la “Dichiarazione d’indipendenza,” approvata a Filadelfia il 4 luglio 1776; anche se la vera nascita degli Usa si deve far risalire soltanto alla fine della “Guerra di Secessione” (1865), allorché prevalse il Capitalismo Industriale degli stati unionisti del nord nei confronti degli stati confederali secessionisti del Sud, la cui economia agricola era perfettamente integrata alla madre patria inglese.

Soltanto da qui si può (ri)partire per una interpretazione sul decollo del capitalismo Usa caratterizzato fin dal suo inizio, con una tipologia  particolare rispetto al Capitalismo Borghese europeo; non soltanto nelle sue linee fondamentali dello sviluppo trasformativo delle grandi risorse possedute in materie prime, e/o nella costruzione delle grandi linee di comunicazioni, o infine, nel favorire grandi flussi di immigrazione europea, così da immettere nell’immenso crogiolo americano, la fusione di culture, tradizioni, valori ed energie di tutti i paesi del vecchio continente. Tutto questo non è sufficiente per spiegare la nuova formazione economica-sociale che si andò  delineando, in modo completamente diverso dal Capitalismo Ottocentesco in derivazione  dei vincoli del suo passato medioevale, prima di pervenire ad una completa diffusione del  Capitalismo Borghese. E’cioè la mancanza del tassello fondamentale al mosaico della storia del capitalismo conosciuto, quello Borghese di più antica formazione, che marchiò in profondità il capitalismo Usa, di una tipologia assai diversa  della costituenda formazione sociale proposta da Marx, nella sua “Accumulazione Originaria” del “1° volume del ”Capitale” (nell’abolizione delle “recinzioni delle terre feudali in comune,” come causa primaria  del  pre-capitalismo Borghese).

L’Accumulazione Originaria del primo capitalismo Usa non si indirizzò seguendo le linee dello sviluppo del capitalismo europeo. Nell’immenso territorio americano, decollò  un capitalismo di “tipo nuovo,” non paragonabile  a quello classico europeo, e con una discontinuità storica senza memoria delle strutture sociali precedenti; solo così, il Capitalismo Usa poté diffondersi con una  vigoria improvvisa ed inusitata così come è pervenuto alla nostra conoscenza, attraverso “La conquista del West;” che parafrasando  fu: il “Capitalismo della Colt-Smith-Wesson” che garantì, ”in nome della legge” la sottomissione delle prime colonizzazioni americane insieme alla distruzione di un intero popolo “Indiano”- la prima raccolta forzosa di una Accumulazione Originaria, poi consolidata, al seguito  delle grandi linee di comunicazioni  ferroviarie,  sulla base  di uno sviluppo creditizio “improprio” delle prime Banche d’Affari americane, fin dalla prima metà dell’Ottocento (1).

Il Capitalismo in Usa ebbe una diffusione “asintotica”, in parallelo  al capitalismo borghese europeo,  senza  confondersi in esso, anche perché, nei suoi processi di sviluppo conservava la memoria genetica delle caratteristiche predatorie della sua originaria Accumulazione: un capitalismo ereditato in assenza completa  delle strutture sociali precedenti:  una comparsa improvvisa di una  formazione capitalistica di tipo nuovo, quasi  paracadutata dall’esterno. La stessa storia del confronto (conflitto), tra i due capitalismi (Usa ed Europeo), trova questa conferma di un conflitto ad armi impari; come se il Capitalismo borghese dovesse lottare contro un capitalismo alieno, di cui non  conoscesse le caratteristiche della sua potenza. Del resto, la storia europea dal dopoguerra ad oggi è un po’ la conferma della sua debàcle, allorché da un iniziale controllo finanziario del capitalismo Usa nei confronti delle strutture capitalistiche borghesi, si passò ad una scientifica opera di dissolvimento  dei patrimoni societari europei, svuotandoli nei loro valori.

Su quest’ultimo aspetto, la ricerca storica ha girato a vuoto senza fare il salto necessario ad una analisi più compiuta;  per circa cento anni si è continuato ad equivocare sul  Capitalismo Unico, lasciando in un totale occultamento, l’origine impresentabile ed imperscrutabile del Capitalismo Manageriale Usa, sotto la coperta ideologica della  “Mano Invisibile” del Liberismo Ottocentesco, intrigando sull’origine del Capitalismo Borghese inglese, grazie soprattutto alla sedimentazione culturale dei  marxismi novecenteschi.

Alcuni squarci di verità storica si possono trovare nell’economista inglese John Stuart Mill, nonché filosofo “dell’utilitarismo,” nei suoi “Principi di Economia Politica”(1848), quando  descrisse come l’intera organizzazione sociale  americana  fosse permeata da una filosofia dell’impresa nella forma delle “Società Anonime,” che, per certi aspetti, costituirono il laboratorio sociale di una sedicente democrazia economica di massa: una libertà economica dell’individuo intesa come democrazia (vedi Tocqueville), o del “fare dell’esperienza il criterio dell’esperienza stessa.”

Mill, più di altri economisti, studiò le convenienze politiche-economiche dell’Inghilterra, nella colonizzazione americana. E rilevò che nelle colonie inglesi fondate in Usa, la costituzione di società commerciali aveva un numero così elevato da poter affermare che non c’erano  altri  equivalenti nel resto del mondo: “In questi Stati, la terra è coperta di “società anonime”, per tutti gli scopi possibili e immaginabili. Ogni città è una società per l’amministrazione delle sue strade, dei suoi ponti e delle sue scuole; le quali sono così sotto il controllo diretto di coloro che le pagano, e sono quindi amministrate bene. Accademie e chiese, istituti culturali e biblioteche, casse di risparmio e società fiduciarie esistono in numero proporzionato ai bisogni della gente, e sono tutti in forma di società…Anche le fabbriche sono costituite in tale forma e la loro proprietà è azionaria; e chiunque partecipi all’amministrazione,dei suoi affari, dall’acquisto dei materiali alla vendita del prodotto manifatturato, è un comproprietario della società; mentre tutti coloro che vi sono occupati hanno la prospettiva di divenirne comproprietari…….Il sistema è il più perfettamente democratico che esista al mondo.”

Chi ha maggiormente approfondito la costituenda formazione economica sociale Usa è  J.Burnham, nella sua “La Rivoluzione Manageriale” del 1941(2). L’interesse del testo è soprattutto quello di  avere affrontato in modo scientifico una prima analisi del Capitalismo Manageriale, che si caratterizzò fin dal suo inizio con una diffusione insolita e in una “breve lunghezza storica” rispetto alla durata del primo capitalismo borghese (dei secoli XV° e XVI°).

E’ inoltre  mancata  una più approfondita analisi sui processi capitalistici in corso, nelle analisi fuorvianti del Capitalismo Unico, oltre  ad un ripensamento critico sulla  atipicità dei tempi di transizione, ed in particolare, nelle modalità del pre-dominio del capitalismo Manageriale in sostituzione a quello Borghese; che, si trattò, come del resto conferma Burnham, di una vera e propria rivoluzione capitalistica compiuta tra le due Guerre Mondiali (1914 ed il 1945), fino cioè alla vittoria militare con cui gli Usa affermarono il loro predominio militare sul mondo Occidentale, poi proseguito con quello più prettamente politico, nelle modalità della gestione  degli Organismi Sovranazionali e  Nazionali Usa (vedi Fmi,  Federal Reserv..), veri e propri “ funzionari” permanenti attivi del capitalismo Manageriale Usa.

Burnham tese inoltre a ricalcare i processi di formazione del Capitalismo borghese di Marx, nella prima fase capitalistica dell’Accumulazione originaria, allorché scrisse che: “ La costruzione del predominio borghese cominciò e raggiunge notevole importanza dentro il feudalesimo, mentre la struttura della società aveva ancora un carattere prevalentemente feudale.. Il fatto che la borghesia avesse costruito il proprio predominio sociale, e preso nelle sue mani settori sempre più vasti dell’economia, entro il sopravvivente schema della società feudale, fu, si direbbe una condizione necessaria perché essa potesse presentarsi come la classe dominante nel tipo successivo di società…..Questo non bastava a rivoluzionare la struttura della società e a consolidare la posizione dei capitalisti come classe dominante…Il capitalismo e i capitalisti affrontarono il problema dei poteri statali. Uno Stato borghese controllato dalla borghesia significa uno stato che, nel suo complesso …permette la continuazione del predominio sociale della borghesia.”

Su questa tesi interpretativa,  della classe dominante che diventa tale nella conquista  del potere statale, J.Burnham cercò di delineare nella sua  teoria della “Rivoluzione Manageriale” l’idea di  un predominio dei managers, fondato sulla proprietà statale dei principali strumenti della produzione e con esso, l’identificazione dello statalismo con il Capitalismo Manageriale; un’osservazione nata dalla storia del capitalismo, per come si andò sviluppando fin dai primi del Novecento, ed a ridosso delle prime gravi recessioni capitalistiche, dal 1872 ed a seguire, fino al 1929, le cui  crisi venivano affrontate (senza risolverle) con un maggiore intervento dello Stato, nella contemporanea limitazione della proprietà privata; con la conseguenza  che gli unici  processi capitalistici che si andarono evolvendo, nel “dopo crisi,” furono gli accresciuti controlli governativi (statali) delle imprese pubbliche a scapito di quelle private, e con forti accelerazioni  di formazioni di imprese stataliste, in prossimità delle guerre.

La limitazione  del Capitalismo borghese consentì inoltre l’avanzamento della struttura economica della società manageriale, in derivazione del maggior controllo governativo degli strumenti della produzione, aprendo così la strada  ad  una nuova struttura economica sociale, fino un processo di non ritorno; e del resto, dopo la prima guerra mondiale, poco prima dell’avvento del nazismo e del fascismo, si erano già  caratterizzate tipologie capitalistiche con formazioni sociali organizzate in strutture manageriali; la stessa Rivoluzione russa (1917) richiederebbe un discorso parte,  per un incompiuto capitalismo borghese anche se, nel dopo rivoluzione, le strutture economico sociali assunsero le caratteristiche di un capitalismo di tipo manageriale ( con i funzionari di partito organizzati in veri e propri managers di stato).

Si sarebbe tentati di porre un quesito sul perché il Capitalismo manageriale Usa vinse nei confronti di quello Borghese europeo; un quesito posto e risolto da Burnham quando scrive che gli Usa entrarono in guerra contro la Germania nazista e con tutto il loro potenziale produttivo, estendendo al massimo la loro organizzazione sociale manageriale in tutto il periodo del “New Deal, per sostituirsi a guerra finita all’Impero inglese ormai in declino.

Rimase, nella storia dei capitalismi, l’intuizione più profonda che Burnham intese affermare e dimostrare, nella particolare potenza espansiva del capitalismo Manageriale, in grado di inglobare e dissolvere ogni forma  capitalistica conosciuta, e/o socialmente organizzata in ideologie nazionaliste:  “Il nazionalismo è uno stratagemma che serve al consolidamento sociale.. La Germania (nazista) dapprincipio si è consolidata mediante le formule della <patria tedesca>,  o del <popolo tedesco>, oggi allarga queste formule con estrema facilità e parla di <Europa ed europei> o di <razza ariana>  o di <lavoratori>… i managers sono in grado di risolvere il problema del nazionalismo capitalista e, di fatto, sono proprio oggi occupatissimi a risolverlo…La struttura manageriale è già in moto per spezzare per sempre questo sistema politico e per sostituirvi un piccolo numero di grandi aree sovrane: i superstati;” un aspetto quest’ultimo di Burnham  alquanto predittivo  nel delineare nella forma di superstato, l’area geografica europea, completamente dominata, a tutt’oggi, dal Capitalismo Manageriale Usa.

1) L’Accumulazione Originaria Usa si affermò anche con la prima generazione capitalistica dei “robber baron,” letteralmente “grandi rapinatori.” Varrebbe la pena di raccontare quella storia che ha origine a partire dagli anni ’30 dell’Ottocento, nella creazione delle prime banche di investimenti, cioè le prime Banche d’affari private Usa che potevano utilizzare il proprio capitale per le operazioni finanziarie senza alcuna autorizzazione statale; il principio su cui tali banche si svilupparono rapidamente e crebbero fino ai giorni nostri è in fondo semplice oltre che banale, vecchio come il mondo: la truffa. In pratica si vendevano titoli senza la copertura finanziaria dell’acquisto, si vendevano titoli non acquistati.” Tutta la storia economica americana è fatta di queste truffe che dettero comunque grande impulso alla nascente economia, con grandi risorse finanziarie messe a disposizioni per nuovi investimenti da cui ebbero origine le moderne Banche d’Affari Usa.

2) si confronti l’articolo del sottoscritto sulla “ La Rivoluzione manageriale” di J. Burnham apparso  sul sito Ripensaremarx, nel gennaio 2008.

ottobre ’09

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Accelerare sul South stream

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Sulla visita personale del Presidente del Consiglio italiano al Primo Ministro russo, in occasione del compleanno di quest’ultimo, festeggiato nella splendida dacia tra Mosca e San Pietroburgo, non è trapelato molto.

Si conoscono a grandi linee i dossier discussi dai due leaders (con la partecipazione in videoconferenza anche del premier turco Recep Erdogan, il cui interesse per il gasdotto South Stream è in forte risalita). Gasdotti, joint venture, collaborazioni industriali e commerciali, investimenti, crisi economica, situazione geopolitica, c’era sicuramente tutto questo nell’inventario dei temi affrontati dai premier russo e italiano.

Ma pare che l’argomento principale sia stata la posizione dell’Italia sullo scacchiere geopolitico mondiale, con Putin che ha chiesto a Berlusconi di fare una precisa scelta di campo. Insomma, si è trattato di vertice semisegreto per organizzare una difesa contro gli attacchi incrociati di questi mesi partiti dagli Usa e dagli organi di governo dell’UE che richiede, da parte dei due partner, l’approntamento di alternative politiche più stringenti e meno “felpate”.

Certo, l’Italia non è nella posizione più vantaggiosa per affrontare a muso duro l’antico alleato d’oltreatlantico ma la fase impone che su determinati elementi strategici i tentennamenti siano quasi del tutto eliminati. Ovverosia, si può andare avanti oppure retrocedere di qualche passo ma non si può temporeggiare oltre, pena il deterioramento delle intese appena siglate. E’ anche la crisi economica, che sta attanagliando la Russia più dell’Italia, a poter far precipitare la situazione, con conseguente dispersione delle energie sul fronte interno (a causa dello scoppio di gravi conflitti sociali), e relativo rallentamento delle ambizioni internazionali dei due stati.
Da Berlusconi Putin ha preteso maggiore chiarezza e la garanzia che non ci saranno esitazioni rispetto agli accordi presi sulla politica energetica e su quella estera, con entrambe che costituiscono al momento le direttrici principali di un proficuo riavvicinamento tra le due nazioni, in una fase di profondo rimescolamento degli equilibri geostrategici. Anzi, il leader russo invita ad accelerare l’entrata del gigante energetico Gazprom sul mercato italiano per la vendita diretta di gas ai consumatori, sanzionando con questo atto una partnership organica e fidelizzante con Mosca. Al Cavaliere la cosa non dispiace e potrebbe costituire un ottimo viatico per una uguale penetrazione dell’Eni, con lo sviluppo di nuove attività, sul gigantesco mercato russo. Come dire, gli interessi reciproci si intrecciano e si rafforzano solo se viene garantito, dal potere politico, un canale privilegiato anche dal punto di vista economico.

Ma per sostenere questo programma Berlusconi ha bisogno che il gasdotto South Stream diventi subito una realtà, chiudendo repentinamente il contenzioso con gli Usa. Questi dovranno trovarsi il più presto possibile di fronte al fatto compiuto mentre sono ancora impantanati su altri teatri geopolitici, non avendo così il tempo di mettere altri ostacoli sulla strada della pianificazione nel settore energetico di italiani e russi.

Quindi l’uomo di Arcore esige a sua volta dall’establishment di Mosca che il gasdotto dove ENI-Gazprom sono soci al 50% (con forse l’acquisto di un 10% di partecipazioni da parte dell’EDF francese) sia completato prima del North Stream. Questo è anche ciò che sostiene Andrea Greco sul Sole di ieri (26 ottobre 2009), pur se con motivazioni diverse dalle nostre.

L’occhio deve essere pertanto mantenuto fisso sulle difficoltà internazionali degli Usa. Se quest’ultimi dovessero riuscire a far pendere a proprio favore, con qualche soluzione ad oggi non ancora preventivabile, la situazione sul fronte afghano e pakistano tornerebbero presto ad insidiare, con maggiore intensità, la Russia e la sua sfera d’influenza (in ricostruzione).

Tutto ciò sarebbe un danno anche per l’Italia la quale vedrebbe venir meno quelle circostanze favorevoli che, seppur lentamente, stavano contribuendo ad allentare la morsa atlantista sulle sue scelte strategiche.

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Secondo Forum “Ligue des Cités Cananéennes, Phéniciennes et Puniques”

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Sous le Haut Patronage de l’UNESCO/ Secteur de la Culture

Programme du Forum II

« Ligue des Cités Cananéennes, Phéniciennes et Puniques »

Vendredi 30 Octobre 2009

Auditoire St Jean-Marc/vieille ville, Jbail- Byblos

9:15 Accueil et Enregistrement

10:00  Allocutions de bienvenue

Coordinatrice : Madame Marie-Thérèse Achkar Malezet : Présentation du Forum

*   Monsieur Henri Zogheib, au nom de la Fondation Tyr 

*    Dr Joseph Chami, Maire de Jbail-Byblos 

*    Mme Rodi Kratsa, Vice-présidente du Parlement Européen

*    Mme la Sénatrice Anne-Marie Lizin, Ancienne Présidente du Sénat de Belgique

*    Monsieur Jean Leclant : Secrétaire Perpétuel de l’Académie des Inscriptions et des Belles Lettres, Paris.

Président de l’Association Internationale pour la Sauvegarde de Tyr

10: 40  Table Ronde I : «ECHANGES ET DIALOGUES INTERCULTURELS»

Commission Culture et Education

Modérateur : Madame Samar Makki Haïdar, Architecte, Urbaniste, Paysagiste, Professeur adjoint à l’Université Libanaise

*   Professeur Joseph Mifsud : « EMUNI, a Beacon For the Union for the Mediterranean »

Président de l’EMUNI (Université Euro-méditerranéenne)

*   Dr Farouk Ismaïl:الممالك الكنعانية خلال عصر العمارنة القرن 14 ق.م. Les Royaumes des Cananéens au XIV av J-C

Historien de langues anciennes du Proche- Orient, Professeur à l’Université d’Alep, Syrie

*   Monsieur Côme Carpentier de Gourdon: « Mare Nostrum , une Notion Phénicienne »

Ecrivain conférencier, co-fondateur et Directeur adjoint de l’Euro-Asia Institute, New-Delhi/ Editorial Advisory Board, World Affairs Journal/ Consultant, New Delhi, India.

*   Docteur Ahmed Ferjaoui : « Carthage et la Gouvernance de l’Empire »

Directeur de Recherches à l’Institut National du Patrimoine, Ministère de la Culture, Tunis

*   Maître Alexandre Najjar : « Tyr la Phénicienne »

Avocat, Ecrivain et Historien

11:45  Table Ronde II : « LE DIALOGUE BLEU: FAIRE FRUCTIFIER LES ATOUTS »

Commission Tourisme Culturel

Modérateur : Madame Lina Hamdan, Consultant Média et Communication

*   Madame Elizabeth Fontan: « Les Figurines de Bronze des Montagnes du Liban: une Production Controversée » / Conservateur du département des antiquités orientales, Musée du Louvre

*      Monsieur Henri-Christian Schroeder : « Mers Phéniciennes, Lien Intemporel »

Commodore du Trophée du Bailli de Suffren, Secrétaire Général du Marenostrum Racing Club, St -Tropez

*   Docteur Manuel Munōz Gambero : «El Ritual de los Depositos Votivos Punicos Del Cerro de la Tortuga » / Archéologue et Ecrivain, Fondation Malaga, Espagne

*   Dr Salem Salem : « Régate Phénicienne»

Médecin Endocrinologue, Représentant du «Lebanese Yachting Club »

13 :00  Déjeuner offert sur place


14 :30 Table Ronde III : « SOURCES ET RESSOURCES »

Commission Environnement

Modérateur: Mme Nina Zeidan, Architecte, Urbaniste, Chef de Département Paysage à l’Université Libanaise

*   Docteur Ioanna Siokou-Frangou: « Changement Global et Ecosystèmes Marins »

Directrice de Recherche au Centre Hellénique de Recherche Marine (HCMR), Grèce.

*   Professeur Frédéric Briand : La Biodiversité Marine en Méditerranée: Menaces et Défis »

Directeur Général, Commission Scientifique Méditerranéenne (CIESM)

*   Docteur Nicolas Carayon : « Géoarchéologie et Géomorphologie des Ports Phéniciens et Puniques» (co-auteurs : Dr N. Marriner et Prof C. Morhange) Laboratoire du CEREGE (CNRS)

*   Docteur Marie Abboud Abi-Saab: «Recherches sur la Morphologie et la Biologie de la Côte Libanaise »

Directeur de Recherche CNRS, Conseil National de la Recherche Scientifique/Centre National des Sciences Marines, Batroun, Liban.

16:00 Table Ronde IV: « COMPETENCE et SOLIDARITE »

Commission Artisanat et PME

Modérateur : Madame Eva Atallah, Architecte d’Intérieur, Paysagiste, Professeur à l’Université Libanaise

*   Dr Patrick McGovern: « Two Luxury Items of the Canaanites and Phoenicians: Royal Purple and Wine » Directeur Scientifique du Laboratoire Archéologique Biomoléculaire, Professeur-adjoint, Anthropologie, Musée de l’Université de Pennsylvanie, USA

*    Professeur Eric Gubel : « Evolution du Motif Phénicien »

Archéologue, Directeur du Département des Antiquités aux Musées Royaux d’Art et d’Histoire, Bruxelles

* Monsieur Pierre Chevalier: «La Formation et la Promotion des Métiers d’Art »

Président d’Honneur de la Société d’Encouragement des Métiers d’Arts, Paris

* Mme Reem Chalabi: « Artyr Design: Neo-Phoenician, History of a Competence »

Directrice des ateliers « Artyr Design », Ameublement, Art de Table, Artisanat d’inspiration phénicienne

17:15

Séance Solennelle : Adoption de la Déclaration pour la Ligue en présence des Ambassadeurs  Modérateur : Madame Marie-Thérèse Achkar Malezet

*   « Lecture de la ville de Jbail-Byblos : Superposition et Juxtaposition », Prof Emile Al-Akra, Conseiller Municipal, Jbail-Byblos

*   Lecture des Recommandations par S.E.M Bernard Dorin, Ambassadeur de France

*   Intervention des Maires présents

*   Signature de la Charte

18:30  Discours de clôture par S.E.M. Paul Blanc, Ambassadeur de France

19:00  Fin de Séance

20:00  Concert: Chapelle St Jean-Marc, vieille ville, Jbail-Byblos

20:30  Dîner de la Municipalité de Jbail-BYBLOS / vieux port

Samedi 31 Octobre 2009

Centre Culturel / Jbail- Byblos

9 :30 – 11 :00  Réunion de Travail des Maires des Cités de la Ligue (LCCPP)

Président d’honneur : le Maire de Jbail-Byblos

Dr Joseph Chami

Séance de Travail pour les Maires des Cités LCCPP

Modérateur : Monsieur Rachid Mackeh, Directeur de la Fondation Tyr

  • Approbation et adoption par les Maires et leurs conseillers de:

la Déclaration, du règlement interne et du plan d’action.

  • Nomination des membres des quatre commissions de la Ligue.

Date et lieu du Forum III / 2010 : prochaine Métropole de LCCPP

11 :30   Visite de la vieille ville de Jbail-Byblos /// conférence de presse au centre culturel

13 :00   Déjeuner en l’honneur de la presse : « Al-Bahr », port de Jbail-Byblos

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Cina e India d’accordo a lavorare sulla questione delle frontiere

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AFP 24 ottobre 2009 – Il premier cinese Wen Jiabao ha concordato con il suo omologo indiano Singh, per lavorare a ridurre le differenze sulle questioni di confine tra le due nazioni. Wen ha raggiunto l’accordo con Manmohan Singh a margine di un vertice regionale in Tailandia dell’ASEAN e altri paesi, afferma l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua.

Pechino ha espresso opposizione a una recente visita di Singh nell’Arunachal Pradesh, uno stato indiano al centro della controversia del confine, e per una visita prevista del Dalai Lama, leader spirituale tibetano in esilio. “Le due parti hanno convenuto di proseguire i colloqui, con l’obiettivo di eliminare gradualmente le barriere a una soluzione che sia equa e accettabile per entrambe le parti“, dice il rapporto. Wen e Singh hanno inoltre convenuto che avrebbero cercato di garantire la pace e la stabilità nella zona di frontiera contesa, affermando che ciò possa contribuire a risolvere le questioni di confine e promuovere la cooperazione bilaterale.

I giganti regionali Cina e India, che insieme contengono più di un terzo della popolazione mondiale, recentemente si sono scambiate accuse per queste questioni territoriali. I due Paesi hanno combattuto una guerra di confine nel 1962, in cui le truppe cinesi sono avanzate in profondità Arunachal Pradesh e inflitto pesanti perdite alle forze indiane. L’India dice che la Cina occupa 38.000 chilometri quadrati del suo territorio himalayano, mentre Pechino reclama tutto l’Arunachal Pradesh, che copre 90.000 chilometri quadrati.

Funzionari indiani non hanno confermato l’accordo con la Cina. Hanno detto che le questioni territoriali non sono state discusse nel corso del loro incontro di 45 minuti nella località tailandese di Hua Hin. “Singh ha sottolineato che nessuna delle due parti dovrebbe lasciare che le nostre differenze agiscano come un ostacolo alla crescita della cooperazione tra i due paesi“, secondo sito web del ministero degli affari esteri indiano.

Il premier indiano ha anche concordato con le osservazioni di Wen che l’apertura di buoni rapporti tra i due paesi è “nell’interesse della regione e del mondo intero.” Il ministero ha detto che Wen ha “rilevato che, per fare diventare il secolo asiatico una realtà, è importante che l’India e la Cina vivano in armonia e amicizia e godano della prosperità“. Una delegazione ufficiale del governo indiano ha detto all’AFP, che Wen e Singh hanno anche cercato dei colloqui che “costruiscano fiducia e comprensione”, aggiungendo che l’incontro è stato “produttivo”. Nonostante le loro differenze, la Cina e l’India hanno firmato un accordo quinquennale per cooperare sui cambiamenti climatici, che porterà ai colloqui cruciali di Copenaghen.

L’incontro di sabato è l’ultimo di una serie di incontri ad alto livello tra India e Cina. Singh ha incontrato il presidente cinese Hu Jintao ai margini del Brasile-Russia-India-Cina (BRIC), riunitosi a Ekaterinburg a giugno, e la settimana scorsa, il ministro del petrolio indiano, Murli Deora ha incontrato Wen durante un viaggio a Pechino. Al vertice di Hua Hin, 16 nazioni asiatiche hanno discusso dei piani per incrementare la cooperazione economica e politica e la possibile formazione di un comunità in stile UE.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Russia andrà avanti con i missili all’Iran

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UPI 23 ottobre 2009 – Mentre gli Stati Uniti e i loro alleati contrattano con l’Iran sul suo programma nucleare, Mosca ha alimentato il disagio occidentale con i suoi legami militari con Teheran, impegnandosi a continuare a vendere armi alla Repubblica islamica. Ciò ha sollevato la speculazione che potrebbe spazzare via le accese obiezioni degli Stati Uniti e d’Israele che l’offerta all’Iran degli avanzata missili superficie-aria S-300PMU, può aumentarne notevolmente le difese contro le incursioni aeree.

I russi, che hanno respinto la proposta di irrogazione delle sanzioni economiche contro l’Iran, definendole “controproducenti”, stanno mantenendo le acque torbide, con dichiarazioni contraddittorie e ambigue per quanto riguarda gli S-300.

L’agenzia di stampa russa Interfax, citando una fonte del governo russo, ha riferito che Tehran non ha ancora versato a Mosca i soldi per un contratto del 2005 del valore di 800 milioni, perché Mosca non ha ancora dato la sua approvazione finale all’accordo.

“Il contratto è stato congelato a tempo indeterminato a causa di una serie di circostanze. Subito dopo è stato firmato”, avrebbe detto la fonte. “Molto dipende da una serie di circostanze politiche sul presente contratto, che ha cessato di essere semplicemente un affare commerciale.” Tuttavia, il giorno seguente, il servizio federale russo per la cooperazione tecnica e militare ha dichiarato: “La Federazione russa attua i piani ulteriori della cooperazione tecnico-militare con la Repubblica islamica dell’Iran, in stretta conformità con la normativa vigente e i suoi obblighi internazionali.”

Secondo Interfax, se la vendita ottiene l’approvazione finale da parte del Cremlino, la consegna può iniziare immediatamente, visto che i missili sono stati preparati per la spedizione nei depositi del Ministero della Difesa. L’accordo prevede cinque batterie di missili S-300PMU1 – 40-60 lanciatori ciascuna con quattro tubi lanciamissili, con radar e unità di controllo del tiro. Secondo l’Eurasia Daily Monitor pubblicato dalla Jamestown Foundation, un think tank di Washington, tutti i missili destinati all’Iran sono stati tratti dall’arsenale del Ministero della Difesa.
Intanto, il Cremlino non fa capire agli statunitensi e ai loro alleati israeliani ciò che farà. La RIA-Novosti, citando un non identificato funzionario del ministero della Difesa afferma che, poiché gli S-300 sono “armi da difesa”, Mosca non aveva alcun obbligo internazionale a sospendere il contratto. Ha affermato che la Russia avrebbe subito gravi perdite finanziarie se decideva di far saltare il contratto degli S-300.

L’analista militare russo Konstantin Makiyenko, ha detto che rinnegare il costoso contratto di Mosca, avrebbe subito la perdita di circa 1 miliardo di dollari in profitti, più 300/400 milioni di dollari in multe e sanzioni. Tuttavia, è stato ampiamente riportato che l’Arabia Saudita ha offerto di acquistare armi dalla la Russia per un valore di circa 2,8 miliardi dollari, se Mosca annulla la vendita degli S-300 e altri avanzati sistemi di armamenti all’Iran.

La Russia ha da tempo deciso di entrare altamente remunerativo mercato delle armi del golfo, ma ha anche sviluppato legami stretti con la difesa della Repubblica islamica, dove si sta costruendo un reattore nucleare nei pressi del porto settentrionale nel Golfo di Bushehr.
L’S-300PMU1, designazione NATO SA-20 Gargoyle, è un sistema mobile progettato per abbattere velivoli e missili da crociera fino a una gittata a 75 miglia. E’ apparentemente immune da jamming elettronico e può colpire obiettivi multipli contemporaneamente. L’ultima versione, l’S-300PMU2 Favorit, ha una gittata di 120 miglia. La famiglia degli S-300 è considerata uno dei più efficaci sistemi di difesa aera del mondo, paragonabile a quella del sistema MIM-104 Patriot degli Stati Uniti. Esperti militari occidentali dicono che l’S-300, che operano accanto al sistema di difesa aerea a breve raggio Tor-M1, già fornito all’Iran dalla Russia, l’Iran avrebbe reso gli impianti nucleari virtualmente immuni dagli attacchi aerei e missilistici di Stati Uniti o di Israele, o per lo almeno estremamente costosi per qualsiasi malintenzionato.

Senza l’S-300PMU1, l’Iran non ha una efficace difesa aerea per la propria infrastruttura nucleare, in modo presumibile, Tehran farebbe di tutto per mettere le mani su questi missili.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’Ucraina rassicura la Russia sullo scudo antimissile

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Mosca (AFP) 23 ottobre 2009 – L’alto diplomatico ucraino ha rassicurato la Russia che Kiev non è in trattative con Washington per il nuovo piano USA dello scudo antimissili, cercando di ricucire i rapporti eroso da una serie di crisi. “Nessuno ha trascinato l’Ucraina nell’iniziativa sulla difesa missilistica“, ha detto il ministro degli Esteri ucraino, Petro Poroshenko, dopo aver detto che i colloqui con il suo omologo russo sono stati “molto costruttivi”. “Ad oggi, non vi sono motivi per una tale discussione“, ha detto, parlando alla radio Eco di Mosca.

La Russia, all’inizio di questo mese, s’è detta preoccupata per le proposte degli Stati Uniti per il piano di un rinnovato scudo antimissile per l’Europa, in seguito a indicazioni che potrebbero coinvolgere l’Ucraina.

Poroshenko detto che lui e il suo collega russo, Sergei Lavrov, hanno discusso l’eventuale uso in comune “delle alte potenzialità dell’elettronica e dell’aerospazio dell’Ucraina”, aggiungendo che altri paesi sono stati invitati ad unirvisi in una fase successiva. Il primo vice ministro della difesa dell’Ucraina, Valerij Ivashchenko, parlando a Sofia ha indicato che l’Ucraina è pronta a concedere l’accesso degli USA al suo impianto d’allarme radar, per la protezione contro le minacce missilistiche dell’Iran. Gli Stati Uniti a settembre hanno accantonato il piano d’installare le infrastrutture della difesa antimissile in Repubblica Ceca e la Polonia, che preoccupavano Mosca. Tuttavia Washington sta proponendo un nuovo sistema, sostenuto da Praga, Varsavia e Bucarest.

Poroshenko era a Mosca per una missione per riparare i legami, diventando il più alto rango ufficiale ucraino a visitare la Russia dopo che il Cremino, nel mese di agosto, ha promesso di non fare accordi con la sua attuale leadership. Poroshenko ha detto a Lavrov che l’Ucraina vuole lasciarsi il passato alle spalle. “L’Ucraina è pronta per la ripresa del dialogo a tutti i livelli, compreso quello più alto”. “Vi posso assicurare che tutti i rami del potere, senza eccezioni – il presidente, il primo ministro, il Parlamento e l’opposizione – sono oggi interessati a che l’Ucraina sia un effettivo partner strategico nei confronti della Russia“, ha detto ai giornalisti dopo i colloqui.

Nel mese di agosto, il presidente russo Medvedev ha accusato la sua controparte ucraina, ferocemente filo-occidentale, Viktor Jushchenko di perseguire politiche “anti-russe“, affermando che la Russia non poteva avere rapporti normali con l’Ucraina fino a quando egli rimane al potere. I colloqui per dare all’Ucraina cinque miliardi di dollari di prestiti, che aveva chiesto, sono stati congelati. Medvedev ha snobbato Jushchenko all’inizio di questo mese, rifiutandosi di incontrarsi con lui a margine di un vertice della Comunità degli Stati Indipendenti, in Moldavia.

Lavrov ha offerto una misurata lode dei colloqui di Venerdì, indicando tuttavia che una serie di questioni rimane in sospeso.

“… Abbiamo convenuto che la soluzione dei problemi, compresi gli aspetti controversi che possono insorgere in un modo o nell’altro, devono essere tenuti sulla base del dialogo, dei colloqui, in modo tranquillo, senza politicizzazioni non necessarie“, ha detto Lavrov.

Poroshenko ha detto che i due paesi hanno deciso di riprendere la cooperazione economica e anche di riprendere regolari consultazioni a livello di vice ministri, anche per quanto riguarda “le questioni della sicurezza europea“.

Il compito di migliorare i legami con la Russia è affidata a una figura conosciuta come il “re del cioccolato“, per le sue fabbriche di dolciumi. Poroshenko, che non ha alcuna esperienza diplomatica e che in precedenza supervisionava la Banca centrale ucraina, è stato nominato ministro degli Esteri dal Parlamento, il 9 ottobre. La visita arriva pochi mesi prima che l’Ucraina elegga un nuovo presidente, in una votazione che, dicono gli esperti, Jushchenko non ha alcuna possibilità di vincere.

(nella foto i min’stri degli esteri della Russia Lavrov (ds) e del’Ucraina Poroshenko (sin)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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