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La questione palestinese oggi

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Venerdì 30 ottobre, alle ore 18.00 presso la sede dell’Associazione culturale “Maksim Gor’kij” in Via Nardones 17, Napoli, si è tenuta la conferenza “La questione palestinese oggi”. Sono intervenuti in qualità di relatori:
* Sirio Conte, presidente dell’Associazione per la Pace
* Tiberio Graziani, direttore di “Eurasia”
* Shafik Kotram, presidente della Comunità palestinese di Napoli
* Luigi Marino, presidente dell’Associazione per i rapporti culturali con l’estero “Maksim Gor’kij”.
L’evento rientra nel Ciclo 2009-2010 dei Seminari di Eurasia, l’organizzazione è stata di: “Eurasia, rivista di studi geopolitici”, Associazione “Maksim Gor’kij” e “Naša Gazeta / La Nostra Gazzetta”.

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ALBA abbandona il dollaro e sta valutando un’alleanza militare contro gli Stati Uniti

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Fonte: http://www.voltairenet.org/ 17 ottobre 2009

I 13 capi di Stato e di governo dei paesi membri dell’Alleanza Bolivariana delle Americhe (ALBA), riunitisi a Cochabamba (Bolivia), hanno firmato un trattato che istituisce una moneta comune elettronica, il Sucre.

Questa valuta, in onore del generale Antonio José de Sucre, il compagno di Simon Bolivar ed eroe della lotta di liberazione americana contro l’imperialismo spagnolo, è destinato a sostituire il dollaro statunitense in tutti gli scambi tra gli Stati membri.

In realtà, come spiegato dal presidente dell’Ecuador Rafael Correa, dato il valore artificiale il dollaro USA permette a Washington di accaparrarsi la ricchezza degli altri.

Proponendo il prossimo obiettivo degli Stati Bolivariani, il presidente del Venezuela ha chiesto la creazione di un’alleanza militare tra gli Stati membri, per difendersi dagli Stati Uniti.

Hugo Chávez ha sottolineato che solo una organizzazione del genere potrebbe proteggerli dal bellicismo degli USA. Tanto più che il “Nobel per la Pace” Barack Obama ha organizzato un colpo di stato in Honduras e installa basi militari in Colombia. Egli ha anche sottolineato che una tale alleanza potrebbe essere estesa ad altri paesi del Sud, oltre l’America, così come aveva detto il leader libico Muammar Gheddafi, in occasione del recente vertice Africa-America Latina.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Solana: “Israele è un membro dell’Unione europea”

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Fonte: http://www.voltairenet.org/ 22 ottobre 2009

Per il secondo anno consecutivo, il presidente di Israele, Shimon Peres, ha convocato una conferenza di grandi dimensioni, Facing Tomorrow (Gerusalemme, 20-22 ottobre 2009). Più di 3 500 persone vi si sono iscritte.

Tra i relatori, ci sono gli inglesi ambientalisti David Mayer Barone di Rothschild, il presidente di Skype Josh Silverma, il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, il maestro spirituale indiano Sri Sri Ravi Shankar (che ha insegnato meditazione trascendentale ai leader iracheni), e il direttore di Publicis, Maurice Levy.

La lista dei relatori include anche politici come Susan Rice (Ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite), Ivanov Gjorgjie (presidente della Macedonia), Stjepan Mesic (presidente della Croazia), Radoslaw Sikorski (ministro degli Affari Esteri polacco), José María Aznar (ex Primo Ministro spagnolo) Tony Blair (ex Primo Ministro del Regno Unito), Leonid Kuchma (ex presidente dell’Ucraina). La Francia è rappresentata da Anne-Marie Idrac (Ministro del commercio con l’estero).

È stata la tavola rotonda “Cambiare la crisi in un’opportunità“, cui ha partecipato lo specialista in intelligenza artificiale Raymond Kurzweil (membro della U. S. Army Science Advisory Board), il saggista francese Bernard-Henri Levy, l’avvocato Ruth Gavinson (ex membro della Commissione Winograd) e il diplomatico Javier Solana (ex Segretario generale della NATO e attuale Alto Rappresentante dell’Unione europea), che ha suscitato sorprese.

Il signor Solana, in grande forma, ha detto: “Israele, permetterei di dire, è un membro dell’Unione europea, senza essere un membro delle sue istituzioni“. Solana ha continuato, osservando che Israele ha “partecipato a tutti i programmi dell’Unione europea” e apporta un’alta esperienza nelle tecnologie avanzate. Ha sottolineato che nessuno degli Stati in corso di adesione all’Unione ha simili rapporti stretti, come Israele con l’Unione, anche se questo stato non è mai stato candidato ad aderire all’UE. Ha assicurato il pubblico che Bruxelles ha fatto tutto il suo possibile con il dossier Iran. Infine, ha concluso che la lentezza del processo di pace israelo-palestinese non era imputabile ad Israele, ma è semplicemente un problema di metodo.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Abkhazia 2009. Chi governerà il “gioiello del Mar Nero”?

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La campagna elettorale per le elezioni presidenziali in Abkhazia è entrata nel vivo ormai da tempo, e per il 12 Dicembre prossimo, data del primo turno elettorale, i media locali hanno previsto una forte affluenza alle urne.
Il favorito sembra essere l’attuale Presidente Sergej Bagapsh, principale promotore della trattativa che ha portato Dmitrij Medvedev a firmare il documento con cui la Russia riconosce l’indipendenza dell’Abkhazia; vincendo le elezioni, Bagapsh avrebbe la possibilità di governare il paese per altri 5 anni.
Altri due candidati, sostenuti da gruppi di iniziativa popolare, saranno Vitalij Bganba e soprattutto Raul Khadzhinba, ex-Vice Presidente dell’Abkhazia e personaggio politico molto noto, apparentemente in grado di contendere la massima carica politica a Bagapsh.
Sono attesi anche altri candidati, tra i quali quelli proposti dal Partito Popolare e dal Forum dell’Unità dei Popoli d’Abkhazia, che potranno iscriversi alla competizione fino al 2 Novembre.
Il Direttore della Commissione Elettorale Centrale, Batal Tabagua, ha calcolato un numero di potenziali elettori di poco superiore alle 129.000 unità, sulla base dei registri compilati per le consultazioni parlamentari del 2007. I seggi elettorali dovrebbero essere ben 186, con l’aggiunta di altri 2 seggi all’estero a Mosca, presso la sede diplomatica abkhaza nella Federazione russa, ed a Cherkessk (Repubblica di Karachaj Circassia).
Questi dati, emersi in diversi comunicati stampa del governo locale, indicano piuttosto chiaramente l’intenzione di organizzare elezioni professionali e trasparenti su tutto il territorio nazionale; l’Abkhazia peraltro ha già dato prova buona organizzazione elettorale, come testimoniato dalle consultazioni parlamentari svoltesi due anni orsono.
Nel 2007 le elezioni parlamentari non vennero riconosciute dall’Unione Europea, tuttavia è possibile che questa volta, dopo avere promosso in prima persona i colloqui di pace tra Georgia, Russia, Abkhazia ed Ossezia del Sud, l’Europa sarà “costretta” ad osservare con più attenzione il progresso delle istituzioni democratiche e della società civile in Abkhazia.
L’indipendenza del paese è fortemente osteggiata da Tbilisi, tuttavia nessun abitante dell’Abkhazia intende tornare sotto il controllo della Georgia, e di questo l’Unione Europea dovrà tenere conto se vuole far valere la propria presenza diplomatica nel Caucaso: è paradossale che i politici europei continuino a parlare solo della Georgia e della Russia senza accorgersi della presenza e del ruolo fondamentale dei governi di Abkhazia ed Ossezia del Sud nel mantenimento della pace della regione. Così in Europa, i due popoli più colpiti dalla guerra sono definiti volgarmente “separatisti”, come se Abkhazi ed Osseti non avessero una dignità di popolo da rispettare.
L’Europa non può ignorare il cammino percorso da questi popoli; in tale contesto sarebbe logico attendersi da Javier Solana dei discorsi maggiormente corrispondenti alla realtà dei nuovi equilibri geopolitici internazionali.
L’Unione Europea dovrebbe insomma assumere una posizione responsabile, ma chiara e conciliante, soprattutto in considerazione dell’impegno della missione E.U.M.M. che oggi pattuglia le frontiere georgiane con Abkhazia ed Ossezia del Sud.
Come è noto, la diplomazia europea non si muove certo con grande velocità ed autonomia decisionale, così l’Abkhazia non può certo attendersi un riconoscimento ufficiale degli Stati dell’Unione Europea; va detto tuttavia che tale riconoscimento non appare assolutamente fondamentale per lo sviluppo del paese. La vita continua a Sukhum, ed anche la politica fa altrettanto, dando prova di una crescita importante della società civile attraverso numerose iniziative culturali, sportive e politiche. Ad esempio in Ottobre si è riunito in congresso il “Partito dello Sviluppo Economico” guidato da Beslan Butba; nello stesso mese si è tenuto il congresso di “Abkhazia Unita” di Daur Tarba, partito fedele al Presidente Bagapsh. Quindi, senza voler dimenticare i gravi ostacoli diplomatici con la Georgia riguardanti ad esempio l’espulsione di molti Georgiani dall’Abkhazia durante la guerra, dobbiamo notare che diversi segnali positivi lasciano ben sperare sui progressi attuali e futuri della società civile in Abkhazia.
Le elezioni imminenti, importantissime per determinare il futuro politico del paese, avranno anche il compito di presentare l’immagine dell’Abkhazia alla comunità internazionale. Recentemente il Portavoce del Parlamento, Nugzar Ashuba, ha dichiarato che le elezioni del 12 Dicembre, le prime dal riconoscimento ufficiale della Russia, rappresenteranno una grande prova di responsabilità per la tutta la società abkhaza: “Dobbiamo dimostrare al mondo intero che la nostra società è democratica e civilizzata”, ha ricordato lo stesso Ashuba.
Tutta la campagna elettorale per la presidenza dell’Abkhazia, il “gioiello del Mar Nero”, appare decisamente più serena rispetto al 2004, quando la popolazione locale fu chiamata a scegliere il successore del “Primo Presidente” Vladislav Ardzinba.
Cinque anni fa a raccogliere i maggiori consensi fu Sergej Bagapsh, che grazie anche al sostegno di Khadzhinba poté governare efficacemente il paese negli anni più difficili dopo la conquista armata dell’indipendenza. Forte del consenso popolare, l’attuale Presidente può ancora guardare alle prossime elezioni con buone possibilità di vittoria.

* Luca Bionda è redattore di “Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici”

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AFRICOM avanza a grandi passi

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Fonte: http://byebyeunclesam.wordpress.com

Nel suo ultimo Rapporto Anti-Impero l’analista politico William Blum scrive: “La prossima volta che sentirete che l’Africa non può produrre buoni dirigenti, persone impegnate per il benessere della maggioranza dei loro popoli, pensate a Nkrumah ed al suo destino. E ricordatevi di Patrice Lumumba, rovesciato nel Congo del 1960-1 con l’aiuto degli Stati Uniti; e dell’angolano Agostinho Neto, contro il quale Washington fece guerra negli anni settanta, rendendogli impossibile l’introduzione di cambiamenti in senso progressista; del mozambicano Samora Machel contro cui la CIA sostenne una contro-rivoluzione negli anni settanta-ottanta; e del sudafricano Nelson Mandela (adesso sposato con la vedova di Machel), che ha trascorso 28 anni in prigione grazie alla CIA”.
Blum si riferisce ad una serie di guerre per procura sostenute dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO (e per certi versi anche dal Sud Africa dell’apartheid e dal regime di Mobutu in Zaire) a partire dalla metà degli anni settanta e per tutti gli anni ottanta, armando ed addestrando il Fronte Nazionale per la Liberazione dell’Angola (FNLA) e l’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA), la Resistenza Nazionale Mozambicana (RENAMO), i separatisti eritrei in Etiopia così come l’invasione somala del deserto etiope dell’Ogaden nel 1977.
Ma in tutto il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, in Africa c’era stato soltanto un intervento militare americano di tipo diretto, il bombardamento aereo della Libia nell’aprile 1986, la cosiddetta Operazione El Dorado Canyon.
Mentre nella seconda metà del secolo scorso conduceva guerre, bombardamenti, interventi militari di varia natura ed invasioni vere e proprie in America Latina e nei Caraibi, nel Vicino e Medio Oriente, e recentemente nell’Europa sudorientale, il Pentagono ha lasciato il continente africano relativamente indenne. Tutto ciò è destinato a cambiare dopo l’istituzione del Comando statunitense per l’Africa (AFRICOM) l’1 ottobre 2007 e la sua attivazione nell’anno successivo.
Gli Stati Uniti avevano intensificato il loro impegno militare in Africa nei precedenti sette anni con progetti quali l’Iniziativa Pan Sahel, nell’ambito della quale sono stati dispiegate le Forze Speciali dell’esercito in Mali, Mauritania ed altri luoghi. Ancora oggi, personale militare statunitense è impegnato nelle attività di controguerriglia contro i ribelli Tuareg in Mali ed in Niger.
Alla fine del 2004, l’Iniziativa Pan Sahel è stata sostituita dall’Iniziativa Trans-Sahariana contro il Terrorismo che prevede l’assegnazione di personale militare USA in undici Paesi africani: Algeria, Burkina Faso, Libia, Marocco, Tunisia, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal.
Tre anni fa, un sito del Pentagono riferiva che “i funzionari del Comando statunitense per l’Europa (EUCOM) spendevano tra il 65 ed il 70% del loro tempo ad occuparsi dell’Africa”. L’allora comandante EUCOM, James Jones, affermò che “l’istituzione di un gruppo di esperti militari in Africa occidentale poteva anche servire a convincere le aziende statunitensi che investire in molte zone dell’Africa fosse una buona idea”.
Durante gli ultimi mesi del suo doppio incarico di comando presso EUCOM e la NATO, Jones ha trasferito l’Africa dal controllo di EUCOM a quello di AFRICOM, al contempo aumentando le responsabilità della NATO nel continente.
Nel giugno 2006, l’alleanza ha lanciato la sua Forza di Reazione Rapida (NATO Response Force – NRF) con una esercitazione militare in grande stile al largo delle coste di Capo Verde, nell’Oceano Atlantico ad ovest del Senegal.
La prima operazione della NATO in Africa è stata, nel maggio 2005, il trasporto delle truppe dell’Unione Africana in Darfur per la relativa operazione di mantenimento della pace. Da allora, l’alleanza ha dispiegato unità navali nel Corno d’Africa e nel Golfo di Aden, l’anno scorso nell’ambito dell’operazione Allied Protector, ora in quella denominata Ocean Shield. Queste operazioni non consistono unicamente in attività di sorveglianza e scorta del traffico commerciale ma includono anche regolari abbordaggi a mano armata, l’impiego di cecchini ed altri usi della forza armata, spesso in modo letale. Ad esempio, lo scorso 22 agosto un elicottero olandese del contingente navale appartenente all’operazione gemella Atalanta, condotta dall’Unione Europea, ha attaccato un’imbarcazione di cui hanno poi preso il controllo soldati sbarcati da un’unità navale norvegese.
Del resto, tre anni or sono, sempre l’attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale James Jones – relativamente a quale fosse al tempo la sua maggiore preoccupazione in tema di “sicurezza nazionale” – aveva ipotizzato lo scenario in cui la NATO assumesse un ruolo nel combattere la pirateria al largo del Corno d’Africa e del Golfo di Guinea, specialmente quando questa mettesse in pericolo le rotte di rifornimento energetico verso i Paesi occidentali.
In aggiunta alle nazioni già prese di mire come la Somalia, il Sudan e lo Zimbabwe, anche un devoto alleato militare statunitense come la Nigeria potrebbe trovarsi oggetto dell’ostilità del Pentagono. Essa è la maggior potenza appartenente alla Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali, che negli scorsi nove anni ha dispiegato le proprie trupppe in Sierra Leone, Liberia e Costa d’Avorio. Altri delegati militari per conto USA nel continente sono l’Etiopia e Gibuti nell’Africa nordorientale, il Ruanda in quella centrale ed il Kenia in entrambe, e prospettive analoghe esistono per Sud Africa, Senegal e Liberia.
Sin dalla sua istituzione, AFRICOM ha impiegato poco tempo a mettere il proprio marchio sul continente. Ancor prima della sua effettiva attivazione, il Pentagono ha condotto un’esercitazione militare denominata Africa Endeavour 2008 che ha coinvolto una ventina di Paesi africani e… la Svezia.

Se fino al mese di ottobre del 2008 l’Africa era l’unico continente insieme all’Oceania a non avere un Comando militare statunitense dedicato, il fatto che esso sia stato istituito indica che l’Africa rappresenta una rilevante posta strategica per il Pentagono ed i suoi alleati.
Un’analisi delle cause di questa crescente rilevanza strategica è stata elaborata da Paul Adujie in un commento sul New Liberian dello scorso 21 agosto: “AFRICOM, in termini concettuali e nella sua attuale realizzazione, non è inteso a servire i migliori interessi dell’Africa. E’ soltanto successo che è aumentata l’importanza geopolitica e geoeconomica dell’Africa per gli Stati Uniti ed i suoi alleati. L’Africa è sempre stata allineata. C’erano, ad esempio, rapporti di come l’esercito americano, agendo teoricamente in collaborazione o cooperazione con quello nigeriano, avesse letteralmente preso possesso del quartier generale della Difesa nigeriana. (…) AFRICOM è lo strumento mediante il quale i governi occidentali perseguono la loro ostentata influenza globale economica, politica ed egemonica a spese degli Africani così come una porta di servizio attraverso la quale gli occidentali possono avvantaggiarsi con i rivali della Cina e forse anche della Russia”.

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A proposito di Isole Curili, propaganda giapponese e “pudore” di Stalin

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Fonte: Strategic Culture Foundation

Se qualcuno degli analisti russi s’era fatto illusioni che il nuovo partito al governo del Giappone sarebbe stato più realista riguardo la questione delle Isole Curili Meridionali, quest’illusione sarebbe svanita dopo il 17 ottobre, allorché il Ministero del Territorio, Infrastrutture e Trasporti Seiji Maehara definì le isole “territori illegalmente occupati”. Osservando le isole russe da una motovedetta della guardia costiera Maehara ha detto: “Ho visto quelle isole e ho capito che sono un nostro territorio da tempo immemorabile!”

Dopo una protesta del Ministro degli Esteri russo Maehara disse che il suo ragionamento riguardo lo status delle 4 isole Curili era assolutamente coerente con il corso della politica estera del nuovo Primo Ministro Yukio Khatoyama. Possiamo interpretarlo come segue: Mosca non si può aspettare che con il Partito Democratico al governo il Giappone diventerà maggiormente cooperativo. È dalla Russia che ci si aspetta maggior cooperazione.

I politici giapponesi stanno tentando molto insistentemente di riottenere “i territori settentrionali”. Per più di 20 anni hanno tentato di influenzare l’opinione pubblica in Russia per giustificare il trasferimento delle Isole Curili al Giappone. Con quali motivazioni? Un sacco. La prima argomentazione – Guarda, quant’è grande la Russia e quant’è piccolo il Giappone! Perché la Russia ha bisogno di queste quattro piccole isole alla sua periferia? Niente petrolio, niente gas. Restituitele al Giappone e basta. In cambio riceverete il pieno di investimenti da parte delle compagnie giapponesi. E finalmente stipuleremo l’accordo di pace, il ché non è una cosa secondaria. Ai tempi del Governo Gorbacev il quotidiano Izvestia era solito ricevere lettere da cittadini russi che sostenevano l’idea di restituire le isole al Giappone. Una delle lettere era stata addirittura inviata da un operaio che era stato membro del Partito Comunista dal 1956.

Anche alcuni scienziati russi orientali sostengono l’idea. Costoro erano soprattutto quelli scienziati che erano dipendenti dagli aiuti che ricevevano dalle fondazioni scientifiche giapponesi allorché lo stato sovietico smise di finanziare la scienza. Scienziati e diplomatici stanno scavando più a fondo di un comune minatore e se ne escono con argomenti giuridicamente fondati a favore del considerare le Curili Meridionali in guisa di territorio giapponese. In definitiva ne abbiamo un’immagine siffatta: il Giappone è la vittima e l’Unione Sovietica è l’aggressore, che si è preso territori su cui non ebbe mai alcun diritto. La posizione ufficiale di Tokio è diventata dominante nei circoli scientifici e pseudoscientifici russi. Addirittura l’ampio uso della definizione “Territori Settentrionali” porta acqua al mulino del nuovo imperialismo giapponese poiché questa definizione era stato preso dal linguaggio dell’avversario che guida la rimodulazione della coscienza di coloro che lo presero.

La storia della sovranità sulle isole di Iturup, Kunashir, Shikotan ed Habomai è controversa e la si può interpretare diversamente a seconda del punto di vista. Uno degli argomenti a favore del Giappone in questa disputa territoriale è la sua pretesa che fu il popolo giapponese a scoprire le isole. Questa versione è debole e non molto convincente per convalidare i diritti del Giappone a governare le Isole Curili Meridionali.

Effettivamente i giapponesi furono i primi ad avere informazioni riguardo le isole durante le loro spedizioni nel 1653 all’isola di Hokkaido che a quel tempo era quasi lo stesso che il Selvaggio West per gli Stati Uniti. All’epoca il Giappone non prese il controllo completo di Hokkaido e fu per colpa del conflitti con gli indigeni che la spedizione giapponese non riuscì a raggiungere le Isole Curili. I giapponesi scoprirono solamente che le isole esistevano.

I primi stranieri che visitarono le isole contese furono dei cercatori d’oro olandesi della spedizione di Maarten Gerritsen de Vries. Esplorarono il piccolo anello delle Curili nel 1643 e fecero una mappa dettagliata dell’area. Gli olandesi fallirono nella ricerca d’oro e vendettero la mappa al Giappone. Avendo tale mappa a loro disposizione i Giapponesi stanno tentando di provare che essi furono i primi su queste isole. Quest’argomento è più che controverso. Gli olandesi avrebbero potuto annettere le isole ai Paesi Bassi e poi cederle al Giappone. Ma non ne fecero parte del proprio paese, sicché non poterono cederle affatto al Giappone. Ed i marinai giapponesi non misero piede sulle isole.

Dopo gli olandesi i primi viaggiatori che vennero sulle isole furono russi. Accadde nel 1738-1739 durante la spedizione di Martyn Shpanberg. La sua imbarcazione navigò lungo l’anello delle Curili sopra Hokkaido. Shpanberg fece una mappa dell’area e fece prestare ai governanti locali giuramento di alleanza allo Zar russo. Da allora le Curili Meridionali sono state territorio russo.

Però in seguito il Giappone divenne più forte e più potente e decise che avrebbe potuto comandare la regione dell’Estremo Oriente come desiderava. Nel 1845, l’Impero giapponese proclamò unilateralmente la sua sovranità non solo sulle quattro isole dell’anello delle Curili, ma su tutte le isole Curili e l’isola di Sakhalin. Lo zar russo Nicola I era furioso, ma a quel tempo la situazione in Crimea stava peggiorando e lo zar russo dovette concentrarvi tutte le forze. La guerra di Crimea non consentì alla Russia di compiere passi efficaci per restaurare la propria sovranità sui territori dell’Estremo Oriente. Tuttavia la Russia non riconobbe affatto la sovranità giapponese su questi territori.

Il primo accordo russo-giapponese per definire lo status di Sakhalin e delle Isole Curili fu il trattato di Shimoda del 1855. Secondo il trattato il confine fra Russia e Giappone doveva correre fra le isole di Etorofu e Uruppu e l’isola di Sakhalin/Karafuto doveva restare sotto il condominio russo-giapponese. Etorofu apparterrà interamente al Giappone così come le isole di Kunashiri, Shikotan e le isole Habomai.

In tutte le dispute diplomatiche i diplomatici giapponesi si riferiscono sempre al trattato di Shimoda che per primo fissò le relazioni ufficiali fra Russia e Giappone. Presso il popolo giapponese il 7 febbraio è celebrato ogni anno come il Giorno dei Territori Settentrionali.

In un susseguente Trattato di San Pietroburgo del 1857 Russia e Giappone s’accordarono affinché il Giappone rinunciasse a tutti i diritti su Sakhalin e in cambio la Russia rinunciasse a tutti i diritti sulle Isole Curili a favore del Giappone. Questo trattato ebbe valore sino al 1905 quando dopo la guerra russo-giapponese il Trattato di Portsmouth dette la metà meridionale dell’Isola di Sakhalin al Giappone. Nonostante Sergius Witte, che era allora il Presidente del Consiglio dei Ministri, affermasse che ciò contrastava col Trattato di San Pietroburgo, il Giappone rispose “La guerra cancella tutti i trattati. Voi avete perso la guerra quindi affrontate la nuova realtà”. Fu molto difficile per la Russia mantenere la parte settentrionale dell’isola di Sakhalin.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, gli Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina sottoscrissero la dichiarazione del Cairo. La dichiarazione non menzionava esplicitamente le Isole Curili, ma stabiliva: “Il Giappone verrà espulso da tutti quei territori che ha preso con violenza e avidità”.

L’accordo di Yalta stabilì che le Isole Curili sarebbero state date all’Unione Sovietica. La Dichiarazione di Potsdam definì che la sovranità giapponese sarebbe stata ridotta alle isole di Honshu, Hokkaido, Kyushu, Shikoku ed alcune isole minori che venivano indicate. Le isole dell’anello delle Curili non venivano menzionate nella dichiarazione.

Nell’agosto 1945, l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone e a settembre liberò le Isole Curili Meridionali comprese le 4 isole che il Giappone ha cercato di farsi restituire. Nel 1951 il Giappone ed i suoi ex nemici nella Seconda Guerra Mondiale firmarono il Trattato di Pace di San Francisco. In base a tale Trattato il Giappone rinunciò ai diritti su Sakhalin meridionale e le Isole Curili. A quel tempo l’URSS e gli USA erano già in uno stato di Guerra Fredda e l’Unione Sovietica non firmò il trattato per una serie di ragioni. In seguito il Giappone contestò il fatto che Kunashiri, Etorofu, Shikotan e gli isolotti Habomai non fanno tecnicamente parte delle Isole Curili e perciò non erano interessate dalle disposizioni del Tratatto di San Francisco e pertanto non aveva rinunciato alle sue rivendicazioni nei loro confronti.

Nel 1956 l’URSS ed il Giappone sottoscrissero una dichiarazione, che concludeva lo stato di guerra fra loro e restaurava le relazioni diplomatiche. In questa dichiarazione l’URSS espresse la volontà di restituire le isole di Shikotan e Habomai al Giappone appena il Trattato di pace veniva sottoscritto, ma in cambio si aspettava che il Giappone diventasse uno stato neutrale e chiedesse agli USA di ritirare le truppe dal suo territorio. Però gli USA, che volevano mantenere la tensione vicino al confine orientale sovietico, minacciarono il Giappone affermando che se il Giappone rinunciava ai suoi diritti su Iturup e Kunashir gli USA non avrebbero restituito Okinawa. Perciò Tokyo respinse le proposte sovietiche. Poco dopo Usa e Giappone firmarono un accordo militare che poneva fine ai progetti di rendere il Giappone uno stato neutrale. E l’URSS ritirò le sue proposte.

Considerando tutto ciò, possiamo ben dire che la Russia abbia solide basi per possedere Iturup, Kunashir, Shikotan e Habomai.

Primo: i primi stranieri a por piede sul territorio dell’isola erano marinai russi. Essi fecero anche prestare agli autoctoni giuramento di alleanza con lo zar russo.

Secondo: il Trattato di Shimoda, con il quale la Russia riconobbe la sovranità giapponese sulle isole e cui il Giappone è incline a farci riferimento, è legalmente inefficace da un bel po’ di tempo. Il primo punto del Trattato recita: D’ora in poi ci saranno pace e sincera amicizia (fra Russia e Giappone). Il Giappone spezzò questo accordo nel 1904. A prescindere dal fatto che ammettere che il Trattato di Shimoda sia ancora in vigore metterebbe a rischio l’appartenenza alla Russia dell’isola di Sakhalin, il ché è inaccettabile.

Terzo: il Giappone intraprese una guerra d’aggressione contro la Russia. A quel tempo appartenevano al Giappone tutte le isole Curili e sotto il nome di Isole Curili si trovavano sia le isole ricevute in base al Trattato di San Pietroburgo sia le quattro isole che sono ora contese. Non venne fatta nessuna divisione fra queste isole. Nel corso della guerra il Giappone prese anche Sakhalin meridionale e allora la Russia dovette rinunciarvi poiché non era in grado di continuare la guerra. In seguito, quando la Russia divenne nuovamente forte, ossia nel 1945, era giunto il tempo per ottenere una compensazione dell’occupazione. L’URSS chiese le Isole Curili e il fatto che dal 1855 Russia non le avesse possedute non significa che non potessero venire assegnate all’URSS. La Prussia orientale non fu mai territorio russo ma in base agli accordi di Yalta e Potsdam fu assegnata all’URSS. Non si discute quindi riguardo le isole che erano state parte dell’Impero russo.

Per farla breve nel 1945 l’URSS avrebbe potuto chiedere Hokkaido tranquillamente poiché il danno derivante dall’occupazione giapponese fu enorme e i vincitori avevano il diritto di fissare le condizioni (La guerra cancella tutti i precedenti accordi). Tuttavia ora invece di essere grati a Stalin per il suo “pudore”, i politici giapponesi stanno ancora cercando di far sì che la comunità internazionale dimentichi le lezioni della storia.

Traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni

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Incontro RIC – Russia, India, Cina parlano di sicurezza energetica

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Fonte: Itar-Tass 27 ottobre 2009

Bangalore: Russia, India e la Repubblica popolare di Cina hanno deciso di coordinare le strategie adottate per garantirsi una solida sicurezza energetica, ha detto il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, mentre commentava i risultati della riunione trilaterale dei ministri degli Esteri di Russia, India e Cina.

Abbiamo deciso di coordinare i nostri sforzi volti a creare un sistema più democratico, sia nel settore delle finanze che nel settore della sicurezza. Abbiamo concordato di coordinare il nostro approccio al dibattito internazionale per garantire una solida sicurezza energetica e ai problemi del cambiamento climatico“, ha detto.

Secondo Lavrov, i ministri sono stati unanimi nell’affermare che la crisi finanziaria mondiale è il risultato delle differenze tra l’architettura globale, creata dopo la seconda guerra mondiale, e la situazione attuale. Lavrov ha detto anche che i partecipanti alla conferenza Russia-India-Cina avevano discusso la situazione nella penisola coreana e dell’Iran. “Abbiamo approcci coincidenti per quanto riguarda le vie diplomatiche nel risolvere la situazione nella penisola coreana ed il programma nucleare iraniano“, ha detto Lavrov.

Lavrov ha ricordato che questa è stata la nona riunione de gruppo Russia-India-Cina (RIC). “Si potrebbe affermare che il RIC è diventata un format internazionale e un fattore importante nella formazione della struttura multipolare“, ha detto.

Secondo queste informazioni, una comunicato congiunto è stato adottato nel corso della riunione, che ha registrato nei dettagli gli approcci dei tre paesi verso i problemi internazionali regionali.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Israele aumenta la sua presenza militare in America Latina

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Fonte: http://www.voltairenet.org/ 2 Novembre 2009

Global CST ha firmato un contratto da 10 milioni di dollari con il governo peruviano di Alan García, per addestrare e supervisionare l’esercito peruviano nella lotta contro Sendero Luminoso. In aggiunta, Global CST ha già venduto all’esercito peruviano, per un valore di 3 milioni di dollari, apparecchi per la visione notturna.

Global CST, che nega qualsiasi rapporto di subordinazione al governo di Tel Aviv, è un elemento essenziale del complesso militare-industriale d’Israele. Si tratta di una struttura leggera, che impiega una manciata di individui, ma collegato al gruppo Mikal (marchi: Soltam, Saymar ITL), la seconda compagnia privata di armi israeliana. Presieduto da Avraham (Miko) Gilat, Mikal vende una vasta gamma di prodotti che vanno dai pezzi d’artiglieria ai blindati, passando per l’Optronica.

Global CST è diretta dal generale Israel Ziv (ex capo delle operazioni dell’esercito israeliano), che fallì contro Hezbollah, nel 2006.

Nel 2008, Global CST effettuò la liberazione di Ingrid Betancourt, in Colombia, (Operazione Jaques) e, contemporaneamente, pianificò l’attacco georgiano contro l’Ossezia del Sud (un’operazione che ha causato diverse migliaia di morti).

Il dispiegamento di Global CST in Colombia e in Perù, deve essere visto in prospettiva con l’insediamento della giunta honduregna da parte di altre società militari “private” d’Israele.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Obama nomina i co-presidenti del Comitato Consultivo dell’Intelligence

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Fonte: http://www.voltairenet.org/ 2 Novembre 2009

Il presidente Obama ha nominato gli ex senatori Chuck Hagel e David Boren co-presidenti del Comitato Consultivo dell’intelligence (President’s Intelligence Advisory Board).

Chuck Hagel è un repubblicano, ma di sinistra. Si ribellò contro la politica avventurosa dell’amministrazione Bush in Iraq. Si era personalmente legato al senatore democratico Barack Obama durante i loro viaggi parlamentari in Afghanistan e in Iraq (2007), e poi si rifiutò di sostenere la campagna per il suo vecchio amico John McCain, a causa delle loro divergenze sull’Iraq. Sua moglie s’era apertamente mostrata con Michelle Obama, durante la campagna presidenziale.

Chuck Hagel è coinvolto in molte organizzazioni: è un membro del Council on Foreign Relations e del Gruppo Bilderberg, direttore della American Security Project e membro della Aspen Strategy Group. Ha sostituito il generale Jones, a capo del Consiglio Atlantico ed è già stato nominato da Robert Gates Presidente del Comitato Consultivo della Difesa.

David L. Boren è l’erede di una lunga dinastia politica dell’Oklahoma e suo figlio siede alla Camera dei Rappresentanti. È un democratico, ma di destra, al punto che parecchie volte ha tentato di creare un nuovo partito, prima con Ross Perot, poi con Michael Bloomberg. Bill Clinton aveva esitato nel farne il suo segretario alla difesa, ma aveva preferito mantenere le sue funzioni parlamentari di presidente del comitato di controllo dell’intelligence. Come tale, ha gestito un vasto programma per finanziare le università, per metterle al servizio della CIA (National Security Education Act). L’agenzia aveva imposto i temi di ricerca e utilizzato degli studenti statunitensi all’estero, per missioni di intelligence.

Dopo aver lasciato il Senato, Boren giunse a fare nominare il suo ex capo del personale, George Tenet, capo della CIA. Egli stesso è diventato preside della University of Oklahoma, dove ha continuato il suo lavoro di formazione del personale docente dell’Agenzia. E’ anche amministratore della Texas Instruments.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Turchia: un ruolo maggiore nella nuova “mappa energetica” d’Europa

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Fonte: Mondialisation.ca, RIA Novosti – 23/10/2009

I Primi ministri di Russia, Italia e Turchia hanno discusso, il 22 ottobre, del progetto del gasdotto South Stream. I dettagli completi dei negoziati non saranno probabilmente resi noti a gran parte dell’opinione pubblica. Ma i loro risultati suggeriscono che il gasdotto South Stream sarà diretta verso la Turchia, bypassando la Bulgaria.

Pochi giorni prima di questi negoziati, il 20 ottobre, la Danimarca è diventato il primo paese a dare il via libera alla costruzione di un altro gasdotto – il North Stream – nelle sue acque territoriali. La diversificazione delle forniture di gas russo verso l’Europa si avvera.

South Stream Pipeline

Ricordiamo che il progetto del gasdotto South Stream prevede di fornire il gas russo passando sul fondale del Mar Nero, nel sud-est dell’Europa. I suoi partecipanti principali sono la russa Gazprom e il consorzio italiano ENI. Dopo i negoziati a San Pietroburgo, l’area del Mar Nero del gasdotto South Stream si dirigerà dalla costa russa verso la costa turca, e non bulgara, come era previsto in precedenza. Poi South Stream seguirà due percorsi: uno attraverso la Grecia, e passando sul fondale del mare Adriatico, verso l’Italia, e l’altro passando in Grecia, Serbia e Ungheria verso l’Austria. La capacità massima prevista del gasdotto è di 63 miliardi di m3 all’anno. La prima sezione deve essere messa in servizio prima della fine del 2015. L’importo degli investimenti nel progetto è stimato in 8-25 miliardi di euro.

Il primo ministro russo, Vladimir Putin, e il suo omologo italiano, Silvio Berlusconi, hanno avuto il 22 ottobre una riunione di lavoro a San Pietroburgo, e hanno preso atto della dinamica “positiva” del progetto South Stream. Hanno potuto parlare di questo gasdotto doppio con il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan.

Pochi giorni prima di questo incontro tra i tre primi ministri, il 19 ottobre, a Milano, il ministro dell’Economia turco, Taner Yildiz, ha dichiarato di aver trasmesso al Vice Primo Ministro russo, Igor Sechin, responsabile del complesso energetico e dei combustibili russo, tutti i documenti necessari per autorizzare la costruzione del gasdotto South Stream attraverso il territorio della Turchia.

I turchi non sono disinteressati, in cambio vogliono la partecipazione della Russia nella costruzione del gasdotto Samsum-Ceyhan, dalle sponde del Mar Nero a quelle Mediterranee della Turchia. Si tratta di un cambiamento significativo nella politica energetica russa degli ultimi tempi.

Finora, la Russia aveva scommesso, in questa regione, sulla Bulgaria. Erano le sue coste che avrebbero “agganciato” la sezione del Mar Nero del gasdotto South Stream. Inoltre, la Russia e la Bulgaria avevano condotto lunghe trattative per la costruzione di un oleodotto dalla città bulgara di Burgas alla città greca di Alexandroupolis, con cui il petrolio russo sarebbe stato consegnato, scavalcando gli stretti molto intasati turchi del Bosforo e dei Dardanelli.

Tuttavia, il nuovo governo bulgaro pro-occidentale ha deciso di rivedere i suoi impegni nel settore energetico. Si è unito al progetto del gasdotto Nabucco, tramite cui l’Europa dovrebbe essere rifornita di gas non Russo. I bulgari hanno richiesto ulteriori diritti nel progetto del gasdotto South Stream. Inoltre, il governo bulgaro ha nuovamente deciso di rivedere le condizioni della pipeline Burgas-Alexandroupolis.

In queste condizioni, al fine di non trascinare le cose, la Russia ha orientato il gasdotto South Stream verso la Turchia ed ha sostenuto la costruzione dell’oleodotto Samsun-Ceyhan, dove partecipa anche il consorzio italiano ENI. Questa decisione della Russia è stata accolta con grande favore dalla Turchia, perché nulla può alimentare il Samsun-Ceyhan, se non il petrolio russo. Da parte sua, la Russia ha anche promesso alla Turchia di costruire una raffineria di petrolio a Ceyhan.

Naturalmente, è un peccato che la pipeline russo-bulgara Burgas-Alexandroupolis, che è stata a lungo considerata come un oleodotto-fantasma, non possa diventare realtà. Ma le leggi della politica energetica sono severe.

Il 20 ottobre, la Russia ha confermato che non si limiterà a portare il South Stream solo verso la Turchia, la Grecia e l’Italia. Il secondo ramo di questo oleodotto sarà costruito anche nei Balcani. Durante il vertice russo-serbo di Belgrado, il CEO di Gazprom, Aleksej Miller, ha annunciato la firma di un memorandum per la costruzione del settore serbo del gasdotto South Stream e le infrastrutture necessarie. La Serbia diventerà un importante centro di distribuzione del gas nei Balcani.

North Stream pipeline

Un’altra deliziosa notizia, per i sostenitori per la diversificazione delle forniture di gas russo verso l’Europa, è arrivata il 20 ottobre. La Danimarca è diventata il primo paese ad autorizzare la costruzione del gasdotto North Stream nelle sue acque territoriali e nella sua zona economica esclusiva.

Come sappiamo, il gasdotto North Stream collegherà la Russia alla Germania attraverso il fondale del Mar Baltico. Si prevede di costruire la prima sezione, con una resa di 27,5 miliardi di m3 di gas all’anno, per la fine del 2011, la seconda sezione dalla performance simile, nel 2012. Il costo di questo progetto è stimato a 7,4 miliardi di euro. Nel North Stream AG, operatore del progetto, la russa Gazprom detiene il 51% delle azioni, le tedesche E.On e BASF detengono ciascuna il 20% e l’olandese Gasunie, il 9%. La francese GDF SUEZ potrebbe presto unirsi a questo progetto.

Restano da ottenersi le autorizzazioni della Russia, Germania, Finlandia e Svezia per la costruzione dei settori sottomarini di North Stream. Il processo di ottenimento delle autorizzazioni già dura da quattro anni.

Il gestore del progetto riflette gli interessi di tutti i paesi interessati. Ha cambiato due volte il tracciato del gasdotto, ha rinunciato alla centrale di compressione ed ai cavi in fibra ottica inizialmente previsti dal progetto. North Stream AG spera di ricevere i permessi nei quattro paesi entro la fine di quest’anno.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Turchia: Un nuovo accordo per la politica globale

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Fonte: Mondialisation.ca 28 ottobre 2009, blog di Eva-R Siston (http://r-sistons.over-blog.com/)

Casualmente, senza il rumore dei media, un grande evento in termini di geopolitica, con pesanti conseguenze per l’equilibrio del mondo, è appena accaduto. La Turchia si stanca…

Si è a lungo parlato dell’ ingresso della Turchia nell’Unione europea. Ma alcuni stati sono particolarmente riluttanti, in particolare Francia e Germania che, tuttavia, ospitano una grande comunità turca (1). E le cose si trascinano, gli anni passano, la Turchia molla. Tuttavia, Erdogan ricorda costantemente che è interesse dell’Unione europea includere la Turchia tra i suoi membri, in modo che tenda un ponte tra il mondo musulmano di oltre 1,5 miliardi di persone, e, attraverso l’Europa, il resto del mondo (2). Niente da fare.

L’Europa è l’architetto dello spostamento della Turchia

Il 29 gennaio al World Economic Forum di Davos, Erdogan sbatte la porta, criticando gli organizzatori per non aver potuto rispondere a Shimon Peres, nel corso del dibattito sul Medio Oriente. Per il primo ministro turco, l’ultima operazione militare israeliana a Gaza, “Piombo fuso”, particolarmente mortale, era insostenibile (3).

Segurono una serie di decisioni e dichiarazioni: “Erdogan ha appena alzato un altro tassello nelle sua accuse contro Israele. In un congresso a Istanbul, ha chiesto a Israele “di porre immediatamente fine al blocco imposto alla Striscia di Gaza, perché ciò che accade lì non è inferiore a una cosa terribile che non si può fare passare sotto silenzio”. “Il primo ministro turco ha voluto precisare” che non ha reagito perché è musulmano, “ma semplicemente perché è un essere umano.” Poi ha lanciato l’accusa più grave: “Da un punto di vista giuridico, il blocco di Gaza è un crimine contro l’umanità, e la comunità internazionale deve intervenire per farlo finire, perché è una tragedia umana.” Ha anche accusato Israele di “impedire la ricostruzione delle zone distrutte durante l’Operazione ‘Piombo forgiato’, che vieta il passaggio di materiali nella Striscia di Gaza.” (4)

La Turchia marca sempre più la sua indipendenza

Inoltre, la Turchia ha recentemente sospeso la partecipazione della sua aviazione nelle esercitazioni militari congiunte con la NATO, in Anatolia (5). Chiaramente, il paese non ha digerito l’operazione israeliana contro la Striscia di Gaza, né i traccheggi dell’Europa nei suoi confronti. Non volge più le sue critiche allo Stato di Israele, e si avvicina all’Iran e alla Siria, la riannodando le sue radici orientali, compresa la conclusione di diversi accordi di partnership con Baghdad e con Damasco (6). Erdogan è stato anche uno dei primi a congratularsi con Ahmadinejad dopo la sua rielezione, lo scorso giugno (7).

Dopo aver indurito la sua posizione nei confronti di Israele (8), in particolare ha sostenuto la relazione Goldstone che, ecco una nuova tappa, la Turchia si avvicina sempre più all’Iran. Sull’arsenale nucleare del regime israeliano, il Primo Ministro turco chiede un dibattito internazionale (9). Egli non supporta più il trattamento preferenziale accordato allo Stato ebraico, ha denunciato la parzialità dell’occidente verso l’Iran e il suo programma nucleare: “In un’intervista al quotidiano britannico ‘The Guardian’, Erdogan ha detto che le accuse occidentali mosse contro l’Iran, sospettato di voler costruire una bomba nucleare, sono basate sulla ‘calunnia’.” Ha detto che “qualsiasi attacco militare contro gli impianti nucleari iraniani sarebbe una follia (…) Da un lato si dice di volere la pace nel mondo, ma dall’altra si ha un approccio distruttivo verso uno Stato che ha 10.000 anni di storia“, ha detto… (10).

Riavvicinamento con l’Iran

La crisi cova tra Israele e la Turchia, una crisi ancora sorda, ma può diventare acuta, mentre con l’emergere di un intervento contro l’Iran Israele, giustamente, avrebbe tanto più la necessità della benevola neutralità della Turchia, per condurre le proprie operazioni militari, mentre è sempre più isolata nella regione e posta di fronte alla disapprovazione dell’opinione pubblica internazionale (11).

Nuovo test per Israele, Erdogan ha visitato Teheran in compagnia di 200 politici ed economici turchi, tra cui i ministri del commercio, degli affari esteri e dell’energia, oltre a 18 deputati (12) e il primo ministro turco ha definito il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, un amico, in attesa di accordi commerciali con colui che l’Occidente demonizza.

Il presidente Ahmadinejad ha accolto positivamente le pese di posizione del suo nuovo amico, dicendo che le sue dichiarazioni hanno avuto effetti positivi nel mondo. Ha detto: “Il regime sionista minaccia tutte le nazioni e fa di tutto in modo che non vi sia nessun’altra potenza nella regione. Prendiamo atto che l’uso della forza nella Striscia di Gaza non gli è sufficiente, e attacca anche Gerusalemme la Santa“. I due leader hanno parlato di relazioni più strette tra i loro paesi ed hanno discusso la questione nucleare iraniana. Ahmadinejad ha detto che “l’Iran e la Turchia hanno interessi comuni e affrontano minacce simili. Se collaboriamo, possiamo superare tutti i nostri problemi per il bene dei nostri due popoli“. Per quanto riguarda il ministro israeliano Lieberman, Erdogan l’ha accusato anche di aver minacciato di usare armi nucleari contro Gaza. (13)

Un punto di svolta decisivo, nel lungo termine

Questo cambiamento d’indirizzo nella politica turca apporterà, a lungo termine, importanti modifiche nel partenariato US-israeliano, e alla comunità in generale. Infatti, la Turchia occupa una posizione strategica sulla scena internazionale, al crocevia di due mondi, Oriente e Occidente, cristiano e musulmano. Alle tergiversazioni dell’UE, Erdogan risponde chiaramente giocando la carta dell’Oriente, riavvicinandosi all’Islam e al passato ottomano. Sarà in grado di alzare la posta in gioco e di influenzare le decisioni internazionali, in modo da danneggiare gli interessi atlantisti nella regione. Come? Per esempio vietando il sorvolo della sua regione in tempi di conflitto, di guerra. O rifiutando di aiutare la NATO nello svolgere i suoi programmi in Medio Oriente.. Basti dire che l’Occidente, probabilmente, sta perdendo una carta vincente in questa parte del mondo. E questa incarnazione della politica imperiale può avere conseguenze molto gravi, soprattutto se Ankara rafforza i legami con l’Iran, nemico dichiarato dalla coalizione occidentale.

Nessuna rottura improvvisa, certo, ma dei piccoli passi inquietanti, in una direzione che ha tutto per preoccupare la NATO nel momento, senza dubbio, in cui si prepara l’offensiva contro l’Iran. Il campo dei non allineati si rafforza, e non abbiamo finito di vederne le conseguenze, se non a breve termine, almeno nel lungo termine.

Note e Riferimenti:

(1) Tra i leader europei, alcuni, come in Francia o in Germania, hanno pregiudizi nei confronti della Turchia. Sotto Chirac, abbiamo avuto rapporti molto buoni [con la Francia] ed è stato molto positivo nei confronti della Turchia. Ma sotto Sarkozy non è la stessa cosa. http://www.actu.co.il/2009/10/erdogan-accuse-israel-de-%C2%AB-crimes-contre-l%E2%80%99humanite-%C2%BB

(2) E’ un atteggiamento sleale. L’Unione europea sta violando le proprie regole. Essere nell’UE ci permetterebbe di costruire ponti tra il mondo musulmano, che ha 1,5 miliardi di persone, e il resto del mondo. Devono rendersene conto. Se l’ignoreranno, indeboliranno l’Unione europea. http://www.actu.co.il/2009/10/erdogan-accuse-israel-de-%C2%AB-crimes-contre-l%E2%80%99humanite-%C2%BB

(3) http://www.wikio.fr/video/806835, http://www.lepost.fr/article/2009/01/29/1405525_gaza-davos-erdogan-le-1er-ministre-turc-claque-la-porte-a-shimon-peres.html, ecc.

(4) http://www.actu.co.il/2009/10/erdogan-accuse-israel-de-%C2%AB-crimes-contre-l%E2%80%99humanite-%C2%BB/

(5) Israele incassa un colpo diplomatico molto grave. La Turchia, l’unico paese musulmano legato da un accordo di cooperazione militare con lo Stato ebraico, ha posto il veto alla partecipazione di aerei israeliani alle manovre che avranno luogo questa settimana, nel suo spazio aereo (…) Per i funzionari israeliani, questa iniziativa è un fischio d’allarme. Fino ad ora, la Turchia è stata infatti considerata un alleato strategico di primaria importanza (…) a questo quadro, si devono aggiungere gli scambi tra servizi di intelligence e la vendita di armi israeliane alla Turchia (…) Ma questi rapporti sono, tuttavia, “fratturati”. Negli ultimi mesi, Recep Tayyip Erdogan, primo ministro e leader del partito islamico, ha indurito i toni. Ma finché la cooperazione militare non è stata alterata, gli israeliani non s’adombravano. L’annullamento della partecipazione di Israele nelle manovre, invece, sembra segnare un cambiamento nelle regole del gioco.

http://www.lefigaro.fr/international/2009/10/13/01003-20091013ARTFIG00301-la-turquie-annule-des-man339uvres-militaires-avec-son-allie-israelien-.php

(6) http://chiron.over-blog.org/article-avant-son-voyage-erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-occident-contre-teheran-38308279.html; http://www.alterinfo.net/Avant-son-voyage,-Erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-Occident-contre-Teheran_a38465.html

(7) http://chiron.over-blog.org/article-avant-son-voyage-erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-occident-contre-teheran-38308279.html;

http://www.alterinfo.net/Avant-son-voyage,-Erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-Occident-contre-Teheran_a38465.html

(8) C’è stata successivamente la campagna contro l’ambasciatore Edelman, degno del Stürmer e della Pravda. Poi le massicce ristampe di Kavgam, la traduzione turca di Mein Kampf, seguite da Hitler’in Liderlik Sirlari (le qualità di leadership di Hitler), e Metal Firtina (Metal Storm), un romanzo di fantapolitica che descrive l’aggressione militare americana contro la Turchia (450000 copie vendute in meno di un anno). Poi Kurtlar Vadisi (La Valle dei Lupi), una serie televisiva in cui l’operazione americana in Iraq è presentata come un genocidio anti-turco, dove gli ebrei e gli americani sono già coinvolti nel traffico di organi, un argomento che sarà ripreso nel 2009, da un giornale svedese di grande tiratura. E infine, il recente film del primo canale della televisione pubblica turca, sulle cosiddette atrocità israeliane a Gaza.

(http://www.rebelles.info/article-turquie-la-regression-erdogan-37970885.html)

(9) Il primo ministro turco chiede un dibattito internazionale sull’arsenale nucleare del regime israeliano. Recep Tayyip Erdogan ha detto, Sabato, al II Congresso del suo partito, “Giustizia e Sviluppo” che se la questione nucleare iraniana è stata discussa sulla scena internazionale, si deve farlo anche per le armi nucleari del regime israeliano. “La Turchia chiede una politica basata su una maggiore giustizia nel mondo, e se parliamo di armi di distruzione di massa, dobbiamo anche ricordare le bombe al fosforo usate dal regime israeliano a Gaza”, ha detto. Il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan, ha affermato l’opposizione del paese alla proliferazione delle armi nucleari in Medio Oriente, aggiungendo che il regime israeliano è l’unico paese della regione che possiede armi nucleari. Erdogan ha detto che il mondo dovrebbe essere equo, se desidera la pace, sottolineando che l’Iran non ha fatto nulla, mentre il regime israeliano ha commesso crimini a Gaza. Ha descritto come follia qualsiasi azione militare contro l’Iran, dicendo che dovrebbero imparare dall’invasione statunitense contro l’Iraq, dove un’intera civiltà è stata distrutta e più di un milione di iracheni sono stati uccisi. Fonte: http://www.soueich.info/article-37020166.html (IRNA)

(10) http://www.alterinfo.net/Avant-son-voyage,-Erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-Occident-contre-Teheran_a38465.html

http://chiron.over-blog.org/article-avant-son-voyage-erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-occident-contre-teheran-38308279.html

(11) La minaccia di una crisi acuta con la Turchia, preoccupa al punto più alto i funzionari israeliani, nel momento in cui la neutralità “benevola” di Ankara sarebbe la benvenuta nella prova di forza nei confronti dell’Iran. Israele si trova sempre più isolato nella regione. Le relazioni con l’Egitto e la Giordania, gli unici paesi arabi mantenere relazioni diplomatiche con Israele, si sono notevolmente raffreddate. Barack Obama, nonostante tutti i suoi sforzi, non è riuscito a convincere i paesi del Golfo ad accettare di fare un qualsiasi gesto nei confronti di Israele. Sul fronte palestinese, George Mitchell, inviato speciale statunitense, è partito all’inizio della settimana a mani vuote. In breve, ancora non c’è nessuna ripresa in vista …

http://www.lefigaro.fr/international/2009/10/13/01003-20091013ARTFIG00301-la-turquie-annule-des-man339uvres-militaires-avec-son-allie-israelien-.php

(12) http://www.alterinfo.net/Avant-son-voyage,-Erdogan-denonce-les-calomnies-de-l-Occident-contre-Teheran_a38465.html

(13) http://www.actu.co.il/2009/10/erdogan-accueilli-a-bras-ouverts-a-teheran/

http://r-sistons.over-blog.com/article-turquie-lettre-ouverte-aux-38318294.html

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Italia – Kazakistan: incontro tra imprenditori presso l’ICE

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In occasione della visita di Stato in Italia del Presidente della Repubblica del Kazakhstan, Nursultan Nazarbayev, accompagnato da una delegazione di imprenditori, si terrà presso l’ICE, un incontro di presentazione della realtà economico-commerciale del Kazakhstan.

L’incontro si svolgerà il 4 Novembre 2009, presso la “Sala Pirelli” dell’ICE, Via Liszt, 21 – Roma, con inizio alle ore 11,00.

La presentazione rappresenta un’occasione per conoscere direttamente dalle autorità Kazake i Progetti di Sviluppo del Paese e le opportunità di collaborazione economico-industriale tra imprese italiane e imprese kazake, in particolare nei seguenti settori: Energia, Finanza, Costruzioni, Infrastrutture, Agricoltura, Aerospazio, Tessile, Engineering, Abbigliamento, Attrezzature Mediche/Odontoiatriche, Turismo e Ristorazione.

Nel pomeriggio potranno essere organizzati, su richiesta, incontri bilaterali con i rappresentanti della delegazione kazaka.

Le Aziende interessate sono pregate di confermare la partecipazione inviando la scheda di partecipazione allegata al seguente indirizzo mail: coll.industriale@ice.it e per conoscenza a esterne.internazionali@unioneindustriali.roma.it.

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La difficile preparazione del viaggio di Obama in Giappone

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Fonte: http://www.voltairenet.org/ 3 novembre 2009

Il nuovo governo giapponese cerca di riformulare la politica estera nipponica, soprattutto cerca di affrancarsi dalla tutela dell’antica potenza occupante, gli Stati Uniti d’America.Per evidenti ragioni storiche, Washington, dalla fine della Seconda Guerra mondiale, cura le relazioni con Giappone tramite il Dipartimento della Difesa, invece che con il Dipartimento di Stato. Hillary Clinton vorrebbe approfittare della volontà d’emancipazione manifestata dai Giapponesi per recuperare al proprio ministero tale competenza.

Ahinoi! Il nuovo ministro giapponese degli Esteri Katusya Okada (a destra nella foto), vuole però prima di tutto porre termine alla base aerea militare statunitense di stanza a Futenma (Okinawa) e quindi intende proseguire per il momento il dialogo con Robert Gates
Mentre il presidente Obama sarà ricevuto la prossima settimana a Tokyo, la riunione preparatoria prevista tra Hillary Clinton e Katusya Okada è stato cancellata sine die, su iniziativa di quest’ultimo.

Washington prende la cosa alla leggera, assicurando che il rinvio mostra l’indecisione – e quindi la debolezza – del governo di Yukio Hatoyama (a sinistra nella foto).

A meno che non sia il contrario,  e che il nuovo primo ministro voglia alzare l’asticella molto più in alto nel faccia a faccia con il presidente Obama. Si tratterebbe,  allora, di abrogare i trattati segreti imposti al Giappone negli anni ’60.

Traduzione a cura di O.S.

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Beatrice Nicolini, L’Oceano Indiano Occidentale. Scorci di Storia

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Il libro

L’oceano Indiano è il terzo oceano del mondo per dimensioni e le sue acque toccano numerosi continenti alcuni dei quali ‘sfiorati’ in questa raccolta di studi che ho ritenuto rappresentativi sia di aree geografiche, sia di tematiche che consentano di percepire gli spazi culturali di questo vastissimo mare come globali, seppur non globalizzati; le divisioni in tre percorsi di una ‘navigazione virtuale’ dall’Asia, all’Arabia, all’Africa sono finalizzate a una ripartizione sia geografica sia tematica. Pochi sono gli studi in italiano sulla storia dell’oceano Indiano occidentale, ma molti sono gli ‘sguardi’, e cioè le prospettive dall’Europa, dall’Asia, dall’Arabia e dall’Africa che modificano radicalmente le tematiche affrontate e le relative conclusioni. Così come le scelte, obbligate o meno, di privilegiare il mare, le prospettive marittime, o la terra, le terre, e le relative problematiche terrestri possono alterare considerevolmente i percorsi di ricerca. Documentazioni d’archivio, ricerche bibliografiche, partecipazioni a convegni e a conferenze internazionali, spesso come unica partecipante italiana, e indagini sul territorio sono alla base dell’intento di riportare qui brevi scenari che consentano di ‘avvicinarsi’ di più alla storia di alcune popolazioni e di alcune aree che furono influenzate dall’oceano Indiano, così come lo influenzarono.

L’autore

Beatrice Nicolini si è laureata in Scienze politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove insegna Storia e istituzioni dell’Africa. Diplomata in Relazioni Internazionali e Diritto Comparato all’Università di Harvard, USA, ha iniziato le sue ricerche in Asia sud-occidentale per poi ampliarle all’Africa orientale sub-sahariana. Vincitrice del Premio della Society for Arabian Studies di Londra per il volume Makran, Oman and Zanzibar (2004), si occupa di storia dell’oceano Indiano e ha al suo attivo circa settanta pubblicazioni, la maggioranza su riviste internazionali.

ISBN 978-88-7699-167-7
Pagine, 236, anno 2009

POLIMETRICA
International Scientific Publisher

Corso Milano 26
20052 Monza Mi
http://www.polimetrica.com/

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La Francia aumenta le vendite di armi in America Latina

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Fonte: UPI – AFP – 3 novembre 2009

La Francia sta portando avanti ulteriori vendite di armi in America latina, dopo la sua vasta trattativa di armi con il Brasile, e spera di convincere l’Argentina a diventare il suo prossimo grande cliente.

Il ministro della Difesa francese, Hervé Morin, attualmente in viaggio in America Latina, ha detto ai capi del governo argentino, nel corso di una visita nella capitale francese, che potrebbe aiutare il paese a ritrovare la sua supremazia attraverso una più stretta cooperazione militare con Parigi. Tuttavia, le offerte francesi di trasferimento di tecnologia militare e di altre forme di assistenza, sono state espresse con dichiarazioni prudenti. L’Argentina finora è rimasta vaga, ma ha accettato l’offerta francese di inviare una delegazione che valuterà le esigenze della difesa argentina.

Analisti hanno detto che la Francia ha incoraggiato l’Argentina a seguire l’esempio del Brasile, che ha intrapreso un programma di modernizzazione militare di svariati miliardi di dollari, e una parte importante di esso avviene attraverso la cooperazione con la Francia e gli acquisti dalla Germania. A differenza del Brasile, che ha mostrato una robusta crescita economica negli ultimi anni, l’economia argentina è stata colpita dai conflitti politici e dagli scioperi dei lavoratori. Da alcuni anni, l’esercito argentino vorrebbe un radicale ammodernamento delle infrastrutture e attrezzature, ma s’è tirato indietro per la carenza di liquidità.

Analisti hanno detto che la Francia sembra pronta ad offrire all’Argentina sia il suo equipaggiamento militare che il trasferimento di tecnologia, a condizioni favorevoli, per ottenere un punto d’appoggio tra la continua avversione argentina alla ricostruzione dei legami militari con gli Stati Uniti. Morin ha incontrato il suo omologo, Nilda Garre, e il Ministro degli Esteri, Jorge Taiana, e più tardi ha dichiarato che l’Argentina potrebbe raccogliere la volontà politica per ricrearsi un suo ruolo regionale e una presenza internazionale, allo stesso modo del Brasile.

Per gli analisti argentini, pur riconoscendo le ragioni di Morin nel confronto tra l’Argentina e il Brasile, la Francia avrebbe bisogno di gestire la sensibilità argentina con maggior cura. Morin ha elogiato il Brasile come l’ottava più grande economia mondiale e ha evidenziato la sua rigenerazione militare e la sua crescente influenza internazionale. L’Argentina, inoltre, dovrà riconsiderare la sua posizione internazionale e militare, “in questa fase la Francia può essere utile“, ha detto Morin.

Il Ministero della Difesa argentino in un comunicato a seguito della riunione, ha indicato che, sebbene l’Argentina non abbia previsto l’acquisto di materiale militare, ha acconsentito a una visita, l’anno prossimo, di una delegazione Ministero della Difesa francese. La dichiarazione afferma che l’Argentina è uno dei paesi della regione che ha più drasticamente ridotto il budget per la difesa – da 9,2 miliardi dollari del governo militare nel 1980 a 2,8 miliardi. Il dato precedente era pari al 4,4 per cento del prodotto interno lordo dell’Argentina, rispetto al 0,8 per cento del PIL attuale. Tuttavia, i militari argentini sono desiderosi di trovare alternative alla cooperazione militare statunitense, in particolare nel rinnovamento degli aeromobili e delle navi da guerra invecchiate, e di trovare pezzi di ricambio o sostituire le scorte esistenti, e di sostituire il materiale obsoleto.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha recentemente visitato il Brasile, per garantire i contratti per la fornitura di aerei e sottomarini, in particolare la costruzione congiunta di un sottomarino a propulsione nucleare.

In corso i colloqui Brasile-Francia sul caccia

AFP 3 novembre – Il Brasile e la Francia continuano i colloqui sul programma di Brasilia per acquistare 36 caccia francesi Rafale, ha detto il ministro della Difesa francese Herve Morin. Tuttavia Morin, parlando dopo un incontro con il suo omologo brasiliano Nelson Jobim, a Rio de Janeiro, ha rifiutato di dire se il Brasile andrà avanti nell’acquisto.

Il Rafale, realizzato dalla Dassault, è considerato in vantaggiato nella gara d’appalto che vede la partecipazione anche del Gripen NG, della svedese Saab, e del caccia F/A-18 aggressivamente promosso dalla società statunitense Boeing.

Lo status di favorito è stato rafforzato ai primi di settembre, quando il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, hanno annunciato che il Brasile aveva iniziato trattative per acquistare i Rafale. Successivamente, però, e sotto la pressione dei militari brasiliani, che vogliono considerare meglio l’offerta, la decisione finale è stata lasciata in sospeso, per ammorbidire le offerte.

L’accordo è stimato avere un importo compreso tra quattro e sette miliardi di dollari, a seconda delle particolarità degli armamenti, della manutenzione e del coinvolgimento industriale. Il Brasile potrebbe anche acquistare altri 100 jet da combattimento dal fornitore, a lungo termine. “Le discussioni proseguono in un clima di fiducia“, ha detto Morin. “Siamo ora in attesa della valutazione da parte delle forze armate brasiliane e, quindi, del processo decisionale politico“, ha detto ai giornalisti.

Il Brasile ha fatto del trasferimento di tecnologie la priorità principale della gara, in modo che possa essere in grado di produrre aerei da caccia da sé e di rafforzare la propria industria aeronautica. La Francia ha offerto un accesso quasi totale alla sua tecnologia. Saab e Boeing hanno entrambe insistito che renderanno disponibile le tecnologie ‘chiave’. Il Brasile ha una relazione strategica con la Francia, e ha già siglato altre offerte militari con Parigi, per un valore di circa 11 miliardi di dollari, per acquistare quattro sottomarini e 50 elicotteri.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
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Cina-Myanmar: importante accordo

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Fonte: http://www.cnpc.com.cn/

Il 31 ottobre, ha avuto luogo a Kyaukryu, nella costa occidentale del Myanmar, la cerimonia che ha dato l’avvio al progetto sino-birmano per la realizzazione di un oleodotto, il Myanmar-Cina Crude Pipeline.

Il progetto di costruzione del nuovo oleodotto è stato congiuntamente annunciato dal generale di brigata, Lun Thi, attuale ministro l’Energia del Myanmar e dal vicepresidente della Compagnia cinese del petrolio (CNPC), Liao Yongyuan.

Il Myanmar-Cina Crude Pipeline si estenderà per 771 chilometri; partirà dal porto Kyaukryu ed arriverà a Ruili, nella provincia cinese dello Yunnan.

L’oleodotto, che in una prima fase trasporterà circa  12 milioni di tonnellate, è stato progettato per un flusso di petrolio pari a 22 milioni di tonnellate.

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Appuntamenti italiani con Daniel Estulin, autore de Il Club Bilderberg

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Il Club Bilderberg
La Storia Segreta dei Padroni del Mondo

Daniel Estulin in Italia
per quattro esclusivi appuntamenti

dal 26 al 29 Novembre 2009

Bologna, Milano, Cesena, Roma

Ingresso gratuito

Il potere agisce nel buio. Lontano dagli occhi dei più.
Dal 1954 – e una sola volta l’anno – un gruppo ristretto di persone si ritrova per decidere segretamente il futuro politico ed economico dell’umanità: è il cosiddetto Club Bilderberg, il più potente e segreto organo decisionale del mondo.

Dal 26 al 29 novembre il giornalista investigativo Daniel Estulin – che da oltre quindici anni, indaga i misteri del Club Bilderberg – sarà in Italia per quattro imperdibili date:

BOLOGNA
Giovedì 26 novembre, alle 20,45
Sala del Baraccano
Via Santo Stefano, 119

MILANO
Venerdì 27 novembre, alle 20,30
Libreria Esoterica Galleria dell’Unione, 2

CESENA
Sabato 28 novembre, alle 21
Sede del Gruppo Editoriale Macro
Via Bachelet, 65

ROMA
Domenica 29 novembre, alle 17,30
Città dell’Altra Economia
Testaccio
Largo Dino Frisullo
(all’interno del Campo Boario dell’ex Mattatoio)

L’esplosivo scrittore renderà pubblico come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nei maggiori misteri della storia recente: dal Piano Marshall allo scandalo Watergate e farà i nomi delle prestigiose cariche italiane che appartengono a questa élite, a partire da Romano Prodi fino ad arrivare a Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia.

Da questo Club emergono infatti le figure chiave dello scacchiere internazionale – presidenti USA, direttori di agenzie come CIA o FBI, vertici delle maggiori testate giornalistiche – e proprio da questi incontri nascono le linee guida della globalizzazione … Il pubblico non ha forse il diritto di sapere di che cosa parlano i loro capi politici quando incontrano i più ricchi leader del mondo degli affari delle loro rispettive nazioni?

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Arriva finalmente anche in Italia il libro che racconta la vera storia del più potente e segreto organo decisionale del mondo: “ Il Club Bilderberg – La storia segreta dei padroni del mondo “, scritto dal giornalista investigativo spagnolo Daniel Estulin dopo 15 anni di indagini serrate e pericolose. Tradotto in 50 lingue e diffuso in oltre 70 Paesi, è diventato in poco tempo un bestseller internazionale, di cui è prevista a breve la versione cinematografica.

Il 29 maggio del 1954 presso l’Hotel Bilderberg, a Oosterbeek, una piccola cittadina dei Paesi Bassi, su iniziativa del principe olandese Bernhard e di David Rockefeller, si riunirono le maggiori personalità del mondo politico, economico, industriale e militare; da quel momento, ogni anno, per un fine settimana, questa conferenza si è riunita in gran segreto con lo scopo di dettare le linee guida della globalizzazione e, secondo alcuni, instaurare il Nuovo Ordine Mondiale. Il gruppo include i dirigenti delle istituzioni, delle aziende e delle organizzazioni più influenti del mondo; ne hanno fatto parte, tra gli altri, Bill Clinton, ex Presidente americano, Jean-Claude Trichet, governatore della Banca Centrale Europea, Juan Carlos di Spagna, Filippo del Belgio, Carlo d’Inghilterra, George Soros, Henry Kissinger, i Rothschild, tanto per citarne alcuni, ma la lista include centinaia di altri nomi conosciuti tra cui diverse personalità ; italiane.

La dettagliata opera di Estulin dimostra come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nei maggiori misteri della storia recente, dal Piano Marshall allo scandalo Watergate e come in questa élite emergano le figure chiave dello scacchiere internazionale, presidenti USA, direttori di agenzie come CIA o FBI, vertici delle maggiori testate giornalistiche. Estulin colpisce questa organizzazione proprio dove fa più male: la priva della segretezza, della discrezione e dell’ombra di cui si è sempre servita e di cui necessita per attuare i suoi piani.

La prova di ciò ce la fornisce lo stesso autore con la frase che fa da intestazione a “Il Club Bilderberg”: « Nel 1996 cercarono di uccidermi, nel 1998 di sequestrarmi, nel 1999 di corrompermi, nel 2000 di arrestarmi e l’anno dopo mi offrirono un assegno in bianco se avessi taciuto una volta per tutte ». Per fortuna, Estulin non ha mai accettato questo assegno e ci svela tutta la verità su questo occulto gruppo di potere.

Indice

Prima parte: il “Bilderberg Group”– i padroni dell’universo
capitolo 1: discesa mortale
capitolo 2: l’immortale, 1992 – l’highlander (1992)
capitolo 3: la fondazione del Bilderberg
capitolo 4: i concubini del Bilderberg
capitolo 5: gli obiettivi del Bilderberg
capitolo 6: i pupazzi del Bilderberg
capitolo 7: il “Caso Watergate”
capitolo 8: il Bilderberg smascherato
Seconda parte: il “Council on foreign relations”
capitolo 9: un episodio del 1999
capitolo 10: incrocio partner
capitolo 11: giornalisti cortigiani?
capitolo 12: disarmo forzato
capitolo 13: l’ufficio di controllo del cfr
capitolo 14: il cfr e le operazioni psico-politiche
capitolo 15: il cfr e il “piano marshall”
capitolo 16: un esempio concreto
Terza parte: la Trilateral Commission
capitolo 17: il confronto (2003)
capitolo 18: ritorno al futuro
capitolo 19: una sofisticata sovversione
capitolo 20: scegliere un presidente
capitolo 21: il sistema del monopolio
capitolo 22: i benefattori dei bolscevichi
capitolo 23: tradimento per il profitto
capitolo 24: sacrificare una nazione
capitolo 25: la detenzione (2004)
Appendice: resoconti del Bilderberg
dietro le porte chiuse: documenti e immagini
lista conferenze Bilderberg dal 1954
la “Trilateral Commission” febbraio 2006
conferenza Bilderberg 31 maggio-3 giugno 2007 Istanbul (Turchia) (tematiche e lista dei partecipanti)
conferenza Bilderberg 14 – 17 maggio 2009 Vouliagmeni (Grecia)
(tematiche e lista dei partecipanti)
conclusione dell’autore
indice dei nomi

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La geopolitica dietro la guerra fasulla degli Stati Uniti in Afghanistan

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Fonte:  http://www.voltairenet.org/ 5 Novembre 2009

Uno degli aspetti più notevoli del programma presidenziale di Obama è che, in tutti gli Stati Uniti, poche persone, nei media o altrove, hanno rimesso in causa l’impegno del Pentagono nell’occupazione militare dell’Afghanistan. Ci sono due ragioni fondamentali, nessuno delle quali può essere apertamente divulgata al pubblico.

Dietro tutti gli ingannevoli dibattiti ufficiali sul numero di truppe necessarie per “vincere” la guerra in Afghanistan, se 30000 soldati sono più sufficienti o se la necessità è di almeno 200000, il vero scopo della presenza militare americana in quel paese pivot dell’Asia centrale viene oscurato.
Durante la sua campagna presidenziale del 2008, il candidato Obama ha anche detto che l’Afghanistan, non l’Iraq, è la regione dove gli Stati Uniti devono fare la guerra. La sua ragione? Perché crede che siccome è lì che Al Qaida si è radicata, lì vi è la “vera” minaccia alla sicurezza nazionale. Le ragioni del coinvolgimento degli americani in Afghanistan sono molto diverse.
L’esercito Usa occupa l’Afghanistan per due motivi: in primo luogo per ripristinare e controllare la più grande fornitura mondiale di oppio per il mercato internazionale dell’eroina; e usare la droga come arma contro i suoi avversari geopolitici, in particolare la Russia. Il controllo del mercato della droga afgano è capitale per la liquidità della mafia finanziaria, in bancarotta e depravata, di Wall Street.

La geopolitica dell’oppio afgano
Secondo un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite, la produzione di oppio in Afghanistan è aumentata considerevolmente, dopo la caduta del regime dei taliban nel 2001. I dati dell’Ufficio sulla Droga e i Crimini delle Nazioni Unite mostrano che vi sono state più coltivazioni di papavero in ognuna delle ultime quattro stagioni di crescita (2004-2007), che in un solo anno sotto i taliban. Vi sono più terreni destinati all’oppio in Afghanistan ora, che per la coltivazione di coca in America latina. Nel 2007, il 93% del mercato globale degli oppiacei era di origine Afgana. Non è una coincidenza.
E’ stato dimostrato che Washington ha scelto con cura il controverso Hamid Karzai, un signore della guerra pashtun, della tribù Popalzai, a lungo al servizio della CIA, e appena tornato dal suo esilio negli Stati Uniti, costruito come un mito hollywoodiano, intorno alla sua “coraggiosa autorità sul suo popolo.” Secondo fonti afgane, Hamid Karzai è oggi il “Padrino” dell’oppio afgano. Non è evidentemente un caso che egli sia stato, e sia ancora, l’uomo preferito di Washington a Kabul. Eppure, anche con l’acquisto massiccio di voti, le frodi e le intimidazioni, i giorni di Karzai come presidente potrebbe essere contati.
Molto tempo dopo che il mondo ha dimenticato il misterioso Usama bin Ladin e Al Qaida, la sua presunta organizzazione terroristica – o si chiede perfino se esistono – la seconda ragione per stabilire l’esercito americano in Afghanistan, apparirebbe come un pretesto per creare una forza di attacco militare permanente degli Stati Uniti, con una serie di basi fisse in Afghanistan. Lo scopo di queste basi non è quello di rimuovere le cellule di Al Qaida che potrebbero essere sopravvissute nelle grotte di Tora Bora o eliminare i mitizzati “taliban” che, secondo i resoconti dei testimoni oculari, sono ora composta in gran parte da comuni cittadini afgani che lottano, ancora una volta, per liberare la loro terra degli eserciti di occupazione, come hanno fatto negli anni ’80 contro i sovietici.
Per gli Stati Uniti, la ragione delle basi afgane è avere nel loro mirino, ed essere in grado di colpire, entrambe le nazioni che nel mondo, insieme, costituiscono oggi l’unica minaccia al loro potere supremo mondiale, la ‘America’s Full Spectrum Dominance’ (Dominio Totale degli Stati Uniti), come il Pentagono lo definisce.

La perdita del “mandato celeste”
Il problema per l’élite di Wall Street e Washington, è il fatto che ora sono impantanate nella più grave crisi finanziaria della loro storia. Questa crisi è fuor di dubbio per tutti, e tutti agiscono per la propria sopravvivenza. Le élite statunitensi hanno perso ciò che è conosciuto, nella storia imperiale cinese, come il mandato celeste. Questo mandato era conferito a un sovrano o a una classe dirigente, a condizione che dirigessero il loro popolo con giustizia ed equità. Quando regnano tirannicamente e come despoti, opprimendo ed abusando i loro popoli, perdono il mandato celeste.
Se l’élite potente e ricca che controllava le politiche chiave, finanziarie ed estere, almeno per la maggior parte del secolo scorso, ha avuto un giorno il mandato celeste, è chiaro che l’ha perso. L’evoluzione interna verso la creazione di uno stato di polizia ingiusto, con i cittadini privati dei loro diritti costituzionali, l’esercizio arbitrario del potere da parte di non eletti, come il ministro delle Finanze Henry Paulson, e ora Tim Geithner, rubando miliardi di dollari dei contribuenti senza il loro consenso, per salvare dalla bancarotta le maggiori banche di Wall Street, banche considerate “troppo grandi per correre”, tutto ciò dimostra al mondo che hanno perso il mandato.
In questa situazione, le élites dominanti sono sempre più disperate dal mantenere il loro controllo sull’impero mondiale parassitario, erroneamente chiamato “globalizzazione” dalla loro macchina mediatica. Per mantenere il loro dominio, è essenziale che gli Stati Uniti siano in grado di interrompere ogni cooperazione economica, energetica e militare, tra le due emergenti grandi potenze dell’Eurasia, che, in teoria, potrebbero costituire una minaccia al controllo futuro dell’unica superpotenza: la Cina alleata alla Russia.
Ogni potenza eurasiatica completa il quadro dei fattori di produzione essenziali. La Cina è l’economia più forte del mondo, ha una enorme forza lavoro giovane e dinamica, e una classe media istruita. La Russia, la cui economia non s’è ripresa dalla dissoluzione catastrofica dell’era sovietica e dai saccheggi durante il cupo periodo Eltsin, ha ancora risorse importanti per l’alleanza. Il deterrente nucleare della Russia e il suo esercito sono l’unica minaccia, nel mondo di oggi, per il dominio militare degli Stati Uniti, anche se questi sono, in gran parte, residui della Guerra Fredda. L’elite dell’esercito russo non ha mai abbandonato questo potenziale.
La Russia detiene anche i più grandi giacimenti al mondo di gas naturale ed enormi riserve di petrolio, di cui la Cina ha urgente bisogno. Queste due potenze stanno convergendo sempre più, attraverso una nuova organizzazione da esse creata nel 2001, nota come l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO). Oltre a Cina e Russia, la SCO comprende i più grandi paesi dell’Asia centrale, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.
Lo scopo presunto della guerra degli Stati Uniti, sia contro i taliban che contro Al Qaida, consiste, in realtà, nel creare un loro potere militare direttamente in Asia centrale, al centro della zona geografica dell’emergente SCO. L’Iran è una diversione. L’obiettivo principale sono la Russia e la Cina.
Ufficialmente, Washington certo dice di aver stabilito la sua presenza militare in Afghanistan dal 2002, per proteggere la “fragile” democrazia afgana. Si tratta di un argomento strano, quando si vede la realtà della sua presenza militare.
Nel dicembre del 2004, durante una visita a Kabul, il ministro della difesa Donald Rumsfeld, ha finalizzato i piani di costruzione di nove nuove basi in Afghanistan, a Helmand, Herat, Nimruz, Balkh, Khost e Paktia. Le nove si aggiungono alle tre grandi basi militari già installate dopo l’occupazione dell’Afghanistan, durante l’inverno del 2001-2002, presumibilmente per isolare ed eliminare la minaccia terroristica di Osama bin Ladin.
Il Pentagono ha costruito le sue prime tre basi negli aeroporti di Bagram, a nord di Kabul, il principale centro logistico militare; di Kandahar nel sud dell’Afghanistan e di Shindand, nella provincia occidentale di Herat. Shindand, la loro base più grande in Afghanistan, è stata costruita a soli 100 chilometri dal confine con l’Iran, ed è a distanza di tiro della Russia e della Cina.
L’Afghanistan è storicamente il cuore del Grande Gioco anglo-russo, la lotta per il controllo dell’Asia centrale, nel 19° secolo e agli inizi del 20°. La strategia britannica era quello di impedire a tutti i costi il controllo russo dell’Afghanistan, cosa che sarebbe stata una minaccia per il gioiello della corona imperiale britannica, l’India.
L’Afghanistan è ancora considerato dai pianificatori del Pentagono come altamente strategico. Costituisce una piattaforma da cui la potenza militare statunitense potrebbe minacciare direttamente la Russia, la Cina, l’Iran e gli altri paesi petroliferi del Medio Oriente. Poco è cambiato nella geopolitica, in oltre un secolo di guerre.
L’Afghanistan è in una posizione estremamente vitale, a cavallo tra l’Asia meridionale, l’Asia centrale e il Medio Oriente. L’Afghanistan si trova anche lungo il percorso proposto per l’oleodotto che va dai giacimenti petroliferi del Mar Caspio verso l’Oceano Indiano, dove le compagnie petrolifere statunitensi, Unocal, Enron e l’Halliburton di Cheney, erano in fase di negoziazione dei diritti esclusivi per il trasporto, via gasdotto, di gas naturale, dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan e il Pakistan, verso l’enorme centrale elettrica a gas naturale della Enron, a Dabhol, presso Mumbai (Bombay). Prima di diventare il presidente fantoccio degli Stati Uniti, Karzai era stato un lobbista per la Unocal.

Al Qaida non è una minaccia
La verità di tutto questo inganno, circa il vero scopo in Afghanistan, diventa chiaro se si esamina più da vicino la supposta minaccia di “Al Qaida”. Secondo l’autore Erik Margolis, prima degli attentati dell’11 settembre 2001, l’intelligence statunitense ha dato assistenza e sostegno sia ai taliban che ad Al Qaida. Margolis afferma che “La CIA ha previsto di utilizzare al Qaida di Usama bin Ladin, per incitare alla ribellione i musulmani Uiguri contro la dominazione cinese, e i taleban contro gli alleati della Russia in Asia centrale.”
Gli Stati Uniti hanno chiaramente trovato altri modi per spingere i musulmani Uighur contro Pechino, lo scorso luglio, grazie al loro sostegno al Congresso mondiale Uighur. Ma la “minaccia” di Al Qaida resta la spina dorsale di Obama, nel giustificare l’intensificazione della guerra in Afghanistan. Ma ora, James Jones, il consigliere della Sicurezza Nazionale del Presidente Obama, un ex generale dei marines, ha fatto una dichiarazione convenientemente sepolta dagli amabili media statunitensi, sull’importanza di valutare il pericolo attuale rappresentato da Al Qaida in Afghanistan. Jones ha detto al Congresso, “La presenza di Al Qaida è molto ridotta. La valutazione massima è inferiore ai 100 militanti nel paese, privi di basi, senza nessuna possibilità di lanciare attacchi contro di noi o i nostri alleati”.
Ai fini pratici, questo significa che Al Qaida non esiste in Afghanistan. Diavolo…
Anche nel vicino Pakistan, i resti di Al Qaida sono difficilmente rilevabili. Il Wall Street Journal indica: “Perseguitata dai droni statunitensi, afflitta da problemi di soldi, e trovando sempre più difficile attirare i giovani arabi nelle montagne brulle del Pakistan, Al Qaida vede ridursi il proprio ruolo, lì e in Afghanistan, secondo i rapporti dell’intelligence e dei funzionari pakistani e statunitensi. Per i giovani arabi, che sono state le principali reclute di Al Qaida, “Non è romantico avere freddo, fame e nascondersi”, ha dichiarato uno degli alti funzionari degli Stati Uniti in Asia meridionale.”
Se riusciamo a capire le logiche conseguenze di questa affermazione, si deve concludere che la ragione per cui i giovani soldati tedeschi, e di altri paesi della NATO, muoiono nelle montagne dell’Afghanistan, non ha niente a che fare con “vincere una guerra contro il terrorismo”. Opportunamente, la maggior parte dei media ha scelto di ignorare il fatto che Al Qaida, nella misura in cui questa organizzazione esiste, è una creazione della CIA degli anni ’80. Ha reclutato e addestrato alla guerra contro le truppe russe in Afghanistan, musulmani radicali di tutto il mondo islamico, come parte della strategia sviluppata da Bill Casey, capo della CIA sotto Reagan, e di altri, per creare un “nuovo Vietnam” per l’Unione Sovietica, portando a una umiliante sconfitta dell’Armata Rossa e al crollo finale della Unione Sovietica.
James Jones, capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale, riconosce ora che Al Qaida non ha quasi nessuno in Afghanistan. Forse è giunto il momento per una spiegazione onesta, da parte dei nostri leader politici, circa la vera ragione dell’invio di altri giovani in Afghanistan, a morire per proteggere i raccolti di oppio.

F. William Engdahl,  giornalista americano, ha pubblicato numerosi libri dedicati alle questioni energetiche e alla geopolitica. Libri recentemente pubblicati in francese: Petrolio, la guerra di un secolo: l’ordine mondiale Anglo-Americano (Jean-Cyrille Godefroy ed., 2007) e GM: i Semi della Distruzione, l’arma della fame (Jean-Cyrille Godefroy ed., 2008)..
Collabora a Eurasia. Rivista di studi di geopolitica; Contributi pubblicati: L’emergente gigante russo (nr. 1/2007, pp. 85-105), La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano” (nr. 2/2008, pp. 127-132), Intervista (nr. 1/2009, pp. 181-186); in corso di pubblicazione, L’AFRICOM, la Cina e le guerre congolesi, (nr. 3/2009).

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La grande deriva geopolitica

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Fonte: http://www.enriquelacolla.com/sitio/nota.php?id=152

Da ormai più di mezzo secolo l’asse degli avvenimenti globali si sta spostando dall’Europa verso l’estremo Oriente. Questo fatto porta in primo piano i pesi massimi della storia: Cina, India e Russia.

Questi ultimi tempi sono contrassegnati dalle crisi delle ideologie e dalla messa in scena delle volontà più sfrenate nell’impiantare un’egemonia globale da parte di un capitalismo che ha esaurito la sua positività storica e che solo sembra indirizzarsi verso la distruzione di tutto e di tutti in onore di un’ingordigia che non si preoccupa di altro se non di concentrare i propri profitti – ubbidendo, in questo modo, alla sua più radicata legge naturale -; in questa realtà caleidoscopica e feroce, si confrontano due grandi principi, i quali a loro volta si agganciano a un nodo esplosivo. Il primo, concerne la persistenza delle grandi correnti di massa che hanno bisogno di essere accostate intorno a qualche bandiera che le rappresenti, in altre parole, che raffiguri l’espressione del loro desiderio di essere, di riconoscersi in un’ideologia vincolante -, e l’altro, concerne le grandi derive geopolitiche che rendono evidente la forza cieca della volontà di potere e della volontà d’imposizione che si colloca sopra qualsiasi altra determinazione che implichi l’esistenza di una volontà estranea al modulo dominante.
La grande corrente che puntava a instaurare la giustizia e l’uguaglianza sociale e che si era manifestata nei fenomeni vincolati alla costruzione collettiva di un mondo migliore partiva, grosso modo, dalla rivoluzione Francese e finì provvisoriamente sconfitta dall’ostilità, ferocia e maggiore duttilità dal capitalismo e dal suo braccio esecutore, la società borghese, che alla fine del secolo XVIII conquistò la pienezza dei suoi poteri, al tempo stesso che costruiva contro il fenomeno che la negava i postulati della libertà, l’uguaglianza e la fraternità. Dobbiamo prendere atto che la sconfitta di quest’ultima corrente fu dovuta ai suoi propri errori e alle sue limitazioni dottrinarie. Ma, nessuno è nato imparato.
Dopo che era diventata evidente questa sconfitta, una buona parte dell’opinione contestatrice che condivideva il progressismo e si opponeva allo status quo, considerò la caduta del Muro di Berlino come un verdetto definitivo contro un proposito insurrezionale che implodeva dovuto alla propria fragilità interna e perché era portatore di valori la cui obsolescenza era (presumibilmente) messa in evidenza dalla sua incapacità d’imporsi. Durante la decade degli anni novanta si osservò in molti settori del progressismo intellettuale, che fino a quel momento aveva rivendicato la rivoluzione, l’avanzata di un diffuso scetticismo, associato a un edonismo assimilabile alla cultura light. È l’epoca de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Questo edonismo, in fondo, era già presente in loro da ormai molto tempo e rispecchiava uno stato d’animo –ragguardevole, soprattutto negli strati intellettuali dei paesi del primo mondo – che prediligeva inserirsi nell’ambito privilegiato dell’Accademia, prima di vedersi presi a calci dai fatti violenti della storia. C’era e c’è in quest’ultima, troppa densità, troppe contraddizioni tra etica, politica, passato, presente e futuro eventuale; era una sfida molto grande da poter essere sorretta da coloro che si sforzarono nel costruire un mondo diverso. Un simile volume di problemi era di molto peso per essere risolto in un’equazione che consentisse ai nostri intellettuali di conservare la loro stanza imbottita nelle cattedre o nelle cappelle culturali ed essere, contemporaneamente, validi campioni delle cause giuste. Allora, cosa c’era di meglio nel considerare la partita come se fosse persa, sentenziare la morte dell’utopia e consentire il godimento senza colpa dei privilegi che sono contenuti in una posizione più o meno confortevole.
Oggigiorno, l’utopia e la rivoluzione sono diventate turpi parole, come fino a non molto tempo fa era accaduto con il vocabolo imperialismo. Solo che, per quanto concerne quest’ultimo, dopo l’11 settembre 2001, partendo dal decreto di Bush junior sulla “guerra infinita” e dalle invasioni dell’Iraq e dell’Afganistan, è diventata impossibile negare la sua presenza, nonostante i mezzi di comunicazione e la Vulgata democratica continui a ignorarlo.
Questo imperialismo, attualmente, dispiega i suoi tentacoli su tutto il mondo. Ma, come la lotta ideologica è passata in secondo ordine, i contorni della situazione globale tendono a manifestarsi dalla crudezza vincolata con la geopolitica. Vale a dire, allo scontro frontale delle volontà di potere, esacerbate dalla mancanza di referenti ideologici affidabili e inserite intorno agli imperativi categorici che si deducono dalla posizione geografica dei paesi che si contendono il possesso delle risorse naturali, e il dinamismo delle potenze che cercano d’imporsi l’una sull’altra, la geopolitica si trova infuocata dal carattere agonico del sistema capitalista, la cui febbre aumenta con l’acutizzarsi della crisi.

Un’epoca pericolosa

Così come esiste un apogeo e un declino delle grandi potenze (Paul Kennedy dixit), esiste anche un apogeo e un declino del sistema economico che ha mantenuto in moto il mondo sin dagli albori della società moderna. Attualmente la sovrastruttura politica manifesta i dolori e le incertezze propri delle epoche di transizione: come ha osservato Gramsci, un mondo muore e quello che dovrebbe rimpiazzarlo non è partorito ancora.
Questa è un’epoca pericolosa, tanto per il potere distruttivo raggiunto dall’uomo in violazione delle leggi della natura, quanto per la gigantesca magnitudine dei rivali che si confrontano per il predominio. Il capitalismo aveva generato collisioni che nel suo grembo avevano, nonostante tutto, una positività innegabile: era troppo quello che si distruggeva, ma ancora di più quello che avanzava. Ad esempio, con la scoperta dell’altro, conseguenza dell’accelerazione della capacità di trasferimento e di continue rivelazioni geografiche e culturali; nella sagacità per scoprire le pieghe della psiche e nella scienza, che potenziava tutti quegli spostamenti e generava senza tregua nuovi orizzonti, si nutriva una grande speranza. La velocità di questa dinamica e la magnitudine dei protagonisti che la rappresentavano non giungevano a scompensare le possibilità di sopravvivenza del globo.
La situazione comincia a cambiare nel secolo XX, quando le grandi potenze industriali si battono le une contro le altre per il controllo delle materie prime in guerre sempre più devastanti e implacabili. Se fino alle guerre napoleoniche la questione si dirimeva tra Stati provvisti da una capacità di distruzione limitata e circoscritta in determinati spazi geografici che, sebbene si disperdessero per il mondo intero, operavano in scenari che incidevano solo nelle frazioni dei cinque continenti. Nel secolo XX, la motorizzazione, la socializzazione delle masse e il potere di distruzione coinvolsero il pianeta in un disordine dalle enormi proporzioni, dal quale nessuno è sfuggito senza essere stato, in un modo o nell’altro, compromesso. Europa e Asia sono state colpite da questo terremoto e il resto del mondo ne risentì, in qualche maniera, il rimbalzo delle onde espansive di questo sisma.
Le guerre religiose, le atrocità commesse durante la conquista dell’America o la colonizzazione dell’Africa, i conflitti per il predominio europeo che contraddistinsero le guerre della monarchia asburgica contro il potere ascendente dell’Inghilterra e della Francia, sono state nulla se comparate con le tattiche di sfinimento in atto nel 1914-1918, la distruzione diffusa dagli eserciti di Hitler ad Auschwitz, il terrorismo sistematico dei bombardamenti “a tappeto” praticati dalla Germania e dal Giappone, e le inclementi politiche di embargo impiegate in forma continuata durante e dopo il ciclo delle guerre mondiali, in certi casi verso piccoli paesi con un’insufficiente capacità di difendersi da quello strangolamento.
Attualmente la situazione si è aggravata. Non perché stanno accadendo avvenimenti così catastrofici come quelli fin qui registrati, ma perché l’asse dei conflitti – in corso o potenziali – si è spostato dall’Europa verso la gigantesca massa continentale euroasiatica, dove gli stati che eventualmente dovranno fare la parte dei protagonisti possiedono delle dimensioni fenomenali, proiettandosi come rivali dell’Occidente a tutti gli effetti, in lotta per il predominio.
Lo scacchiere geopolitico del secolo XXI è oggetto di studi e d’impegno da parte di specialisti in materia. Tra i più conosciuti tra di noi si trovano personalità come Walter Lutwak e Zbigniew Brzezinski, i quali (insieme a una miriade di pianificatori del Pentagono e del Dipartimento di Stato) si sono impegnati a tratteggiare una politica di grande portata diretta ad annullare la Russia, sottraendogli regioni che le erano vincolate da legami atavici, come nel caso dell’Ucraina e, allo stesso tempo, favorendo lo smembramento di tutti quegli Stati che sono strattonati da nazionalismi meschini. Divide et impera. Questo movimento è simultaneo all’assalto perpetrato verso quelle regioni che sono produttrici di materie prime strategiche o grandi riserve di gas o di petrolio, con la pretesa di controllare le vie dove attraversano i vettori attraverso i quali queste materie prime circolano, elaborando strategie che blocchino la Cina e la Russia nell’interferire in questi sviluppi. Che, certamente, tendono a subordinare queste potenze al diktat degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in una reimpostazione delle regole del Grande Gioco che ha al suo centro la polemica tra l’Isola Mondiale (Eurasia) anche denominata Perno del Mondo o Centro del Mondo (l’Heartland) e la periferia esterna a quel “cuore del mondo” composta da una serie di gradazioni che partono dagli Stati “peninsulari” – l’Unione Europea, l’India e il Giappone, i quali si trovano alloggiati nei margini della massa continentale euroasiatica – agli Stati marittimi (Stati Uniti e Gran Bretagna), che si trovano nell’ago della bilancia e che, nel caso degli Stati Uniti, esso si avvantaggia di una condizione sia insulare sia continentale. Le tesi di Sir Halford Mackinder, che aveva concepito questo quadro nella prima metà del secolo scorso, conservano tutta la loro attualità.
Certamente, le coordinate di questa impostazione non implicano l’imposizione di comportamenti invariabili. Le congiunture politiche possono interessarlo e farlo giocare in una maniera imprevedibile. La geografia fisica come fattore determinante della storia non può agire per se stessa: i suoi grandi blocchi o unità in parte sono il risultato dell’attività degli uomini e della loro interazione in termini socio-economici e politici. In questo momento si sta disegnando nella cartina una dialettica dei rapporti di potere che cela un’enorme capacità di destabilizzazione al suo interno. Washington (che crede di essere il Deus ex machina di tutto quello che accade nel mondo) fomenta tali contraddizioni, ma gli effetti di queste possono essere così inaspettati come formidabili.

L’India e l’assedio della Cina

Le pubblicazioni elettroniche e non, nelle quali si sperimentano punti di vista alternativi in materia di politica internazionale (Global Research, Foreign Policy Journal, Asia Times, Reseau Voltaire, eccetera) sono inquiete davanti alla situazione che è in gestazione nel subcontinente indiano e nel nucleo euroasiatico e rendono evidente l’importanza della loro evoluzione. Questa zona, in effetti, raggruppa il grosso della popolazione mondiale, ha enormi risorse ed è militarizzata o si sta militarizzando al massimo. Ospita quattro potenze nucleari – Russia, Cina, Pakistan e India -, si trova vicina alla polveriera del Medio Oriente e in essa si può decidere la sorte del Grande Gioco nel giro di questo secolo. Vale a dire, che in questo posto si può affermare o fare a pezzi la politica egemonica dell’Occidente capeggiata dagli Stati Uniti, il quale tende risolvere la sua crisi impadronendosi dell’enclave e delle risorse che gli consentiranno d’insediare ed eventualmente attaccare la Cina, la potenza che, secondo tutti i pronostici e i calcoli più realisti, si profila come la superpotenza più forte del futuro. La teoria della guerra preventiva o della dissuasione mediante la minaccia militare possiede una lunga storia; non è sorta dopo l’attentato alle Torri Gemelle, è un principio che, nel passato, più che prevenire finì col precipitare i conflitti.
Il Gruppo di Shangai collega Russia e Cina con vari stati dell’Asia centrale e ha come osservatori il Pakistan e l’India. La dislocazione di questo raggruppamento di stati è un obiettivo prioritario per gli Stati Uniti e il blocco occidentale. Questa pretesa attualmente starebbe trovando un’accoglienza molto marcata da parte dell’India che, secondo i termini del teorema di Mackinder, si definisce come parte del flusso esterno o marginale nei confronti dell’area perno euroasiatica e che manifesta profonde rivalità con la Cina e con il vicino Pakistan. Continuare per questa strada, tuttavia, implicherebbe un punto d’inflessione nella politica estera indiana, fin qui capace di rimanere su una linea di neutralità pragmatica tra l’emergente polo eurasiatico e il più consolidato polo periferico.
Ciò sta cambiando. Lungi dall’immagine di raccolta spirituale e di pacifismo, prodotto delle leggende che si sono tessute su questo immenso paese e la personalità di Gandhi, l’India è una nazione che, nonostante le contraddizioni che la percorrono, possiede una ben definita vocazione di potenza. Si è industrializzata vertiginosamente, è diventata un fattore mondiale e si è armata su grande scala. Il pacifismo gandhiano era un espediente per raggiungere l’indipendenza da una posizione di debolezza assoluta nei confronti delle armi dell’impero britannico. In questo momento non è più così, e l’India sa che si trova messa in mezzo agli smisurati contendenti del Grande Gioco, che non le consentiranno di circolare facilmente per il corrimano della neutralità. Deve scegliere o, per lo meno, si deve dotare di un arsenale e di un’attrezzatura scientifica che gli consentano, arrivato il momento, di pesare in forma decisiva sia nella neutralizzazione, sia nella risoluzione del conflitto tra l’Eurasia e il “flusso marginale”.
Ma l’India sembra che stia tendendo piuttosto verso quest’ultima ipotesi. Questo fatto è grave, poiché presuppone finire con la politica di non allineamento del Pandit Nehru e tornare, sotto forma più sottile, alle politiche dipendenti dell’epoca del Raj britannico. Un anello è cominciato a formarsi intorno alla Cina. Sotto questa inquadratura l’India si è unita tacitamente agli Stati Uniti, Giappone e Australia, configurando una coalizione a quattro che punta contro la Cina. Lo sviluppo della marina india che per il 2014 progetta introdurre una flotta di portaerei con il fine di controllare l’oceano indiano in concomitanza con la flotta americana, è sintomo di qualcosa più grande, nel senso che si vede verso dove vuole andare la pianificazione di Nuova Delhi. La conquista di un posto sotto il sole starebbe diventando un obiettivo per la politica estera india.
Ciò non dovrebbe verificarsi sotto forma d’identificazione con i paesi della periferia esterna. Vale a dire, con l’imperialismo globalizzatore della società di mercato. Ma esistono motivi ben concreti che spingono verso questa direzione. La rivalità con il Pakistan e il rischio di una frattura in quest’ultimo paese, la sua vicinanza con l’Afganistan e l’insediamento della NATO nell’area, dove può far pressione verso le frontiere della Cina e dell’Iran, sono tutti fattori che avvertono l’incombere della tormenta. L’India dovrà giocare le sue carte. Il posizionamento dei diversi attori sarà soggetto a molte vicissitudini e al caso della congiuntura, ma le tendenze generali sono fin troppo chiare.
Lo è anche per la Cina. La nuova base di sottomarini nucleari che sta costruendo a Sud dell’isola di Hainan, da poco confermata dalle fotografie satellitari ad alta risoluzione e la sua decisione di costruire alcuni gruppi di portaerei da combattimento (Task Force) che dovrebbero insediarsi nello stesso luogo, ha scompigliato gli alti comandi dell’Armata americana. Il comandante in capo delle forze americane in Asia, l’ammiraglio Timothy King, ha definito come terminali le scelte militari che Cina sta prendendo nei mari che la circondano. In un’intervista concessa in questi giorni alla Voce d’America, ha precisato che il suo paese “ha il fermo proposito di non abbandonare il suo ruolo predominante nel Pacifico”, avvertendo a Pechino che affronterebbe una sconfitta sicura se decidesse di animarsi a sfidare militarmente gli Stati Uniti.
Sembra essere evidente che nei conflitti che si stanno sviluppando, la posizione dell’India non potrà essere passiva. Ma una cosa è avere una presenza e un’altra è gettarsi a favore dell’Occidente. Giocare nei due bandi è l’espediente che ha per il momento, mentre osserva come si organizzano le cose, ma la sua posizione è molto decisiva perché possa evitare il compromesso nel caso in cui la situazione precipiti. In particolare, se si prende in considerazione la lunga rivalità di frontiera con la Cina e la spina inchiodata nel fianco rappresentata dal Pakistan, unico paese musulmano nel mondo provvisto di armi nucleari. La cosa migliore sarebbe che l’India evitasse di diventare la punta dilancia americana contro Cina e potesse agire come l’ago della bilancia nel caso in cui si diffondesse un conflitto. Ma non ci sono indizi che ciò accadrà.
Quale ruolo giocheranno le masse in questo processo? La domanda ci riporta all’impostazione iniziale. Le masse – non solo quelle dell’India, ma anche quelle di tutto il mondo – sprovviste d’ideologia, potranno recuperarla per scappare dal tornio che le opprime tra l’imperativo geopolitico e l’appetito di potere delle elite? La concentrazione di denaro del capitalismo senile sta perfino annullando il senso e la ragione di essere della borghesia. Le elite finanziarie e del mondo della comunicazione sono sempre più anonime e sempre più astratte. E, di conseguenza, sempre più elusive e difficili da fissare come obiettivo. Forse c’è bisogno di uno scuotimento della catastrofe, affinché i popoli comincino di nuovo a camminare nella ricerca di una strada.

(trad. di Vincenzo Paglione)

Enrique Lacolla, scrittore, giornalista e docente. Escritor, periodista y docente. Dal 1962 al 1975 è stato membro dei Servizi di Radiodiffusione dell’Università di Nazionale la Universidad Nacional de Córdoba. Tra il 1975 e il 2000 ha fatto parte del gruppo de La Voz del Interior, cui ha seguitato a collaborare fiono ad aprile del 2008. Professore ordinario di Storia del cinema presso la Scuola del Cinema dell’Università di Córdoba dal 1967 al 2002, eccetto durante il periodo della dittatura.
Nle 2005 ha ricevuto il Premio Consagracion de Cordoba
Ultimi libri pubblicati :
El Cine en su Época – Aportes para una historia política del filme (2003)
El Siglo Violento – Una lectura latinoamericana de nuestro tiempo (2005)
Apuntes de Ruta (2006)

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L’Ucraina provoca la Russia

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Fonte: ripensaremarx

L’Ucraina non ha ancora imparato la lezione e con l’arrivo della stagione invernale ha ricominciato a provocare la Russia sul gas che pretende di acquistare a prezzi “fuori mercato” e con rateizzazioni a lungo termine, contravvenendo così agli accordi già stipulati.

Il presidente Yushchenko, forte del credito morale che raccoglie nella famigerata comunità internazionale, la quale lo ha investito del ruolo di sacerdote filo-occidentale e di garante dei principi liberali nel suo paese ,contro il fantomatico pericolo rappresentato dall’avanzata del modello autoritario russo, cerca di prendere tempo e di ritardare nuovamente i pagamenti verso Gazprom. Putin però, non essendo più disposto ad accettare le furberie ucraine, ha anticipato le mosse dell’avversario e si è rivolto direttamente all’Europa, definitasi più volte la santa protettrice della “democrazia” di Kiev, perché sia essa a mettere mani al portafogli. Il capo di Stato ucraino si sente forte degli appoggi internazionali e della posizione strategica occupata dal suo paese nelle direttrici di transito dei dotti che dalla Russia, attraversando appunto l’Ucraina, raggiungono l’Europa. E si può permettere anche di far pressione sull’UE alla quale – sebbene con tono melodrammatico ed invocando come causa dei problemi nazionali la crisi economica e finanziaria in atto – ha chiesto di saldare, al suo posto, le bollette energetiche in arretrato, pena il fallimento dello Stato.

Ma dietro questo low profile si nasconde la minaccia di una nuova interruzione del flusso del gas a danno dei consumatori europei, come procurato in passato. Già dal 2006 infatti, di fronte all’atteggiamento di Kiev di sottrarsi agli impegni contrattuali, Gazprom si vide costretta a ridurre le quantità che transitavano nei dotti di competenza ucraina, proprio per la misura che il paese si rifiutava di pagare. In tutta risposta, le autorità ucraine sottrassero il gas di passaggio sul loro territorio interrompendo i rifornimenti agli europei, i quali invece i conti li avevano a posto.

Se Yushchenko si sente totalmente al riparo dalle reazioni russe e dai flebili mugugni delle autorità comunitarie è anche perché gode del sostegno statunitense orientato a porre un argine alla potenza russa in recupero di egemonia sui propri vicini prossimi.

Questa volta però, presidenza e governo ucraino non potranno premere troppo sull’acceleratore delle pretestuose accuse di strangolamento economico, più volte lanciate al potente vicino. Yushchenko ha, difatti, già ottenuto dalla Russia un trattamento di favore. Mosca, come segno di distensione delle relazioni tra i due paesi (ne abbiamo parlato in un articolo di qualche mese fa), ha versato in anticipo i diritti di attraversamento dell’area ucraina fino al 2010, rimpinguando le casse dell’ex satellite sovietico di 2,5 mld di dollari.

Evidentemente, questo aiuto non è bastato a risolvere i problemi di liquidità di Kiev che, come messo in evidenza, attraversa una situazione finanziaria a dir poco disastrosa. Tuttavia, rispetto al recente passato, Putin può ora contare su rapporti meno tesi con i partner occidentali, coinvolti, grazie ad una serie di accordi bilaterali, nei nuovi progetti di gasdotti che a breve dovrebbero rifornire l’Europa.

Il riferimento è ovviamente ai progetti South Stream e North Stream, il primo che vede la partecipazione di Italia e Francia ed il secondo quella di Germania e altri paesi nordici. Probabilmente, questa situazione sta indispettendo oltremodo i vertici ucraini che si sentono traditi dopo aver svolto diligentemente il loro utile lavoro di sbirri pro-occidentali per conto di americani ed europei. Purtroppo per Yushchenko il clima geopolitico è profondamente mutato e non spira più quel vento in poppa “da occidente” che aveva fatto viaggiare a vele spiegate le rivoluzioni colorate e con esse i traditori nazionali che fungevano da traghettatori di quegli interessi. L’Europa, questa volta, non potrà fare il doppio gioco richiamando entrambi i disputanti ad un atteggiamento di responsabilità e sarà anzi costretta a pagare quanto richiesto da Putin (probabilmente 1 mld di euro). Quest’ultimo ha avuto l’astuzia di denunciare prima di un’altra possibile crisi la situazione in corso, per non essere così accusato delle eventuali conseguenze che ne deriveranno. In queste condizioni non vale davvero la pena di far deteriorare quei legami positivi che finalmente si sono stretti con la Russia. Tutto ciò ha un senso per l’Europa (politicamente ed economicamente) ma che senso ha, invece, continuare a sostenere regimi inetti come quelli alla Yushchenko che fanno solo danni economici e che procurano problemi politici?

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