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Attentati di Madrid: l’ipotesi atlantista

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Fonte:  http://www.voltairenet.org/ 6 novembre 2009

Dopo gli attentati di Madrid (2004) e dopo quelli di Londra (2005), la giustizia ha respinto la tesi Al-Qaida e ha affermato che i crimini sono stati perpetrati da terroristi islamici autonomi. La metà della stampa spagnola ha contestato il verdetto ed esplorato varie piste interne. Mathieu Miquel, che aveva tracciato i fatti, l’inchiesta giudiziaria e il processo in un precedente articolo, esplora qui l’ipotesi di una operazione delle reti stay-behind della NATO.
Tutto suggerisce che la versione ufficiale degli attacchi dell’11 Marzo 2004 a Madrid, secondo cui si sarebbe trattato di un attacco esterno dell’islamista Al-Qaida, sia una bufala [1]. Ciò solleva la questione dei veri colpevoli. Un’indagine approfondita dovrebbe adottare un approccio sistematico: elenco completo delle piste, e quindi seguire ogni ricerca di indizi e moventi. Lo scopo di questo articolo, è quello di esaminare una di queste ipotesi: che l’operazione sia una montatura sotto falsa bandiera dei servizi segreti atlantista. Prima di ciò, introdurremo brevemente tutti le piste che dovrebbero essere esplorate, se l’inchiesta sarà riaperta.

L’opinione pubblica conosce, in genere, due ipotesi circa gli autori dell’attacco: Al-Qaida, incriminata nei discorsi ufficiali, e l’ETA, che Jose Maria Aznar accusava per giustificare la sua politica basca. Les journalistes espagnols ont exploré au moins quatre autres pistes, portant sur des services secrets qui auraient monté l’opération sous faux drapeaux. La stampa spagnola ha esplorato almeno quattro altre piste, sui servizi segreti che avrebbero montato l’operazione sotto falsa bandiera. Le sei ipotesi sono le seguenti:

1. Islamisti: la tesi è accettata da tutti i media mainstream, con l’eccezione di alcuni, come in Spagna, da El Mundo. In francese, il libro principale disponibile sull’attentato è La Manipolazione: Madrid, 11 marzo, riprende questo punto di vista [2]. Si noti che il suo autore, Jean Chalvidant, è un membro del comitato editoriale della rivista neoconservatrice The Brave New World [3], esplicitamente realizzata in collaborazione con la Fondazione per la Difesa delle Democrazie [4], per fungere da portavoce dei neo conservatori in Francia e contrastare l’influenza di Réseau Voltaire e dei suoi amici [5]. Nonostante tutte le incoerenze che sono state esposte nel precedente articolo, questo punto di vista è stato approvato dalla giustizia. Va notato che vi è un ritardo su due punti importanti tra le conclusioni della giustizia e l’idea generalmente accettata dal pubblico. Primo, il commando non aveva legami con Al-Qaida [6]. E in secondo luogo, l’attacco non è stato commesso in rappresaglia per la partecipazione della Spagna all’invasione dell’Iraq, ma i preparati erano precedenti.

2. ETA: Dopo 30 anni di terrorismo e centinaia di vittime, l’organizzazione separatista basca era stata data moribondo, dopo anni di colpi inflitti da parte delle reti poliziesche. È apparsa, comunque, come la solita colpevole e fu condannata “all’unisono” dai giornali e telegiornali, prima che le prove che puntavano su un attentato islamista, avessero la precedenza su questa pista. L’arrivo al potere di Jose Luis Zapatero, più favorevole all’autonomia delle province spagnole, poteva essere il bersaglio dell’attacco.

3. Il servizio segreto marocchino: La maggior parte dei colpevoli hanno nazionalità marocchina. Le relazioni ispano-marocchine hanno avuto diversi episodi di tensione estrema, la più recente è la controversia sulla sovranità dell’Isola del Prezzemolo nel 2002, che ha coinvolto le truppe di entrambi i lati. La caduta di Aznar a favore di Zapatero, considerato più conciliante e opportunamente in contrasto con gli Stati Uniti, avrebbero beneficiato il Marocco.

4. Un settore dei servizi segreti spagnoli, vicino ai socialisti: la prima conseguenza dell’attacco spettacolare è stata l’ascesa al potere di Zapatero, mentre i sondaggi lo mostravano largamente battuto. Il sospetto che ha avvolto le modalità di condotta delle indagini, induconoo alcuni giornalisti a credere che la persona più importante nello Stato si nasconda dietro questo crimine, (anche se ha assunto l’incarico solo 5 settimane dopo l’attentato). È intorno a questa tesi, altamente sovversiva, che Luis del Pino avanza un suggerimento, che è uno dei riferimenti dell’inchiesta giornalistica, su questo attacco, del giornalista di El Mundo, Fernando Mugica [7].

5. I servizi segreti che opponevano alla “coalizione dei volenterosi” intervenuta in Iraq: La seconda conseguenza spettacolare degli attacchi, è stata il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, la promessa di Zapatero nella campagna elettorale che non si aspettava di vincere. Ma questo ritiro sembrerebbe una battuta d’arresto della “coalizione dei volenterosi“, anche se vediamo che era più simbolico che reale. Alcuni ricercatori sospettano, quindi, le potenze opposte alla coalizione egemonizzata dagli Stati Uniti, come la “vecchia Europa” franco-tedesca, la Russia e la Cina [8].

6. I servizi segreti sostenitori della “guerra al terrore“: Avrebbero ricevuto sostegno da settori dell’apparato statale spagnolo, o almeno avrebbero diretto l’inchiesta su un’altra pista. E’ su questa tesi, difesa anche dal giornalista Bruno Cardeñosa [9], che ci concentreremo in questo articolo, inziando a descrivere le prove che collegano l’attacco agli Stati Uniti, il cui governo è stato il principale fautore della dottrina della “guerra al terrore“.

I fatti: il coinvolgimento di un servizio segreto militare

La borsa di Vallecas e le impronte nella Kangoo: prove fabbricate dall’apparato statale, che suggerivano un collegamento oltre Atlantico

Un primo collegamento tra l’attacco e gli Stati Uniti appare alla fine di marzo 2004, con una foto misteriosa della bomba della borsa di Vallecas. E’ l’unico scatto conosciuto fino ad oggi, dalla centrale delle indagini, oggetto di molte controversie. Nella notte dell’11/12 marzo 2004, un agente della polizia scientifica era andato nei luoghi dove gli sminatori avevano disinnescato la bomba di Vallecas, al fine di realizzare un dossier fotografico, conformemente alla procedura. La bomba non era ancora stata neutralizzata, e rimase a distanza, consegnò la sua macchina fotografica a uno artificiere e vide diversi flash. Una volta che l’ordigno è stato disattivato, ha cercato di avvicinarsi con la sua macchina fotografica, ma con suo stupore, gli artificieri gli preclusero l’accesso. Quindi un alto funzionario della polizia gli ha chiesto di consegnare la pellicola, di cui non si ha alcuna traccia [10].

Nel marzo 2004, nessuna foto della bomba di Vallecas è stata ma resa nota. Questa incertezza è stata rafforzata da spiegazioni contraddittorie, fornite dai media, sulla non esplosione della bomba. Si disse che i terroristi avevano dimenticato di attivare la carta SIM, poiché si erano sbagliati programmando l’esplosione alle 7 e 30 di sera, e non del mattino, o che anche l’energia elettrica fornita dal telefono fosse insufficiente per attivarla; tutte versioni smentite successivamente. La spiegazione più incredibile, che è stata poi avanzata per l’arresto di Jamal Zougam, il solo presunto attentatore che sia stato incarcerato. La cornetta del telefono è stata scheggiata, e il piccolo pezzo di plastica mancante è stata trovato a casa sua. Per quanto riguarda la composizione della bomba, la maggior parte dei media parlava, allora, del modello Triumph della Motorola, e non di un Trium della Mitsubishi [11], che alla fine verrà mantenuta nella versione ufficiale.

Il 30 marzo, la televisione americana ABC News, manda in onda la sola foto della bomba conosciuto fino ad oggi, adottata da tutti i media spagnoli, senza metterla in discussione. Aveva riempito il vuoto lasciato dalla scomparsa della pellicola della polizia scientifica, e ridiede credibilità a questa prova acquisita in modo oscuro. Ma lo scatto pone nuove questioni, che non hanno ancora una risposta. Chi ha preso questa foto? In quali circostanze? E perché è apparsa negli Stati Uniti, lontano dai media spagnoli, che hanno seguito il caso da vicino? Incuriosito, Luis del Pino ha chiesto ai corrispondenti dell’ABC in Spagna, di chi fosse lo scatto, ma negarono di essere gli autori, e dissero di non sapere come la direzione della rete statunitense l’avesse ottenuta [12].

Il 6 Maggio 2004, gli sguardi si volsero di nuovo negli Stati Uniti, quando “Newsweek” ha rivelato che un avvocato statunitense, Brandon Mayfield, era stato arrestato nello Stato dell’Oregon, pochi giorni prima. Le sue impronte digitali sono state trovate sulle confezioni dei detonatori trovati nella Kangoo, che i terroristi avrebbero dovuto utilizzare, secondo l’accusa. Per tutto il mese di maggio, e di fronte ai dubbi pubblicati dal New York Times, il settimanale menzionò fonti della polizia, garantendo l’attendibilità delle prove. Così, il 17 maggio, “Un alto responsabile degli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo, ha detto a Newsweek che l’identificazione delle impronte digitali è inconfutabile” [13]. L’FBI aveva identificato l’impronta poco dopo l’attentato, ed allora Mayfield fu messo sotto sorveglianza. Fu la paura di fughe di notizie che fu costretto a eseguire un arresto discreto. Ma con un colpo di scena, il 20 maggio la polizia spagnola ha annunciato che, a sua volta, aveva individuato l’impronta digitale in quella di Ouhnane Daoud, un algerino che viveva in Spagna. Le autorità degli Stati Uniti ne preseroa atto, e lo stesso giorno Mayfield fu rilasciato, con rare pubbliche scuse da parte dell’FBI, e un risarcimento. Per quanto riguarda Daoud, egli è ancora latitante a tutt’oggi, il che rende impossibile valutare l’affidabilità dell’identificazione.

Si deve notare l’opportunità dell’identificazione di Daoud, passato inosservato nei due mesi successivi all’attentato, ma che fu identificato nelle settimana successiva all’arresto di Mayfield. Il profilo di quest’ultimo suscita egualmente sospetti. Avvocato discreto e senza grandi attività, convertito all’Islam, aveva difeso in un caso di diritto di famiglia, un americano accusato in seguito di terrorismo. Ma è il suo rapporto con i militari Usa, che attira ulteriore attenzione: Mayfield è un ufficiale della riserva, dopo aver trascorso 8 anni nelle forze armate, tra cui almeno un anno in una unità dell’intelligence [14].

I due indizi evocati, portano sulle due principali prove fisiche del dossier: la borsa  di Vallecas e la Kangoo. Prima di proseguire la nostra indagine, apriamo una parentesi per dare qualche elemento di riflessione a ciò che può sembrare una contraddizione. Abbiamo visto come le parti dell’inchiesta siano viziate: la borsa di Vallecas, la Kangoo, ma anche prove, registrazioni telefoniche, ecc. L’osservatore è necessariamente sorpreso del fatto che i giocatori –chiunque siano- possono dimostrare un tale dilettantismo, nel momento in cui creano false piste. Numerosi ricercatori, tra cui Luis del Pino [15], hanno proposto la seguente spiegazione, per questo paradosso: la borsa di Vallecas e altre prove sono state fatte in fretta, perché “loro” avevano previsto che l’indagine si sarebbe basato sulle due bombe inesplose che sono state trovate a bordo dei treni, quella mattina. “Loro” avrebbero deliberatamente installato queste due bombe difettose, e “loro” avrebbero portato gli indizi scelti con cura. Essi dovevano consentire alla polizia di investigare di costruire un’indagine apparentemente solida. Ma inaspettatamente i due ordigni esplosero nel processo di disattivazione degli artificieri, distruggendo le prove che “loro” avevano messo. Per reagire a questo imprevisto, “loro” avrebbe improvvisato le prove che sappiamo, da cui la loro imperfezione.

La borsa di Vallecas appare così in una stazione di polizia, all’interno di una partita di effetti personali raccolti in precedenza, e che avrebbero dovuto essere all’obitorio, come qualsiasi altra partita. Allo stesso tempo, prove che accusano gli islamici appaiono nella Kangoo, una volta portata al commissariato di polizia, mentre le indagini sul sito non avevano rilevato nulla.

Questa ipotesi delle due “bombe finte” è confermata dalla testimonianza al processo degli artificieri che hanno neutralizzato uno di esse. Hanno trovato l’ordigno sulla piattaforma e non sul treno. Anche se un agente di polizia municipale ha testimoniato di aver trovato la borsa  in macchina e di averla trasportata in quel luogo, è improbabile che sia stata lasciata incustodita, e che gli artificieri l’hanno “riscoperta” lì. In particolare, la parte intatta del sacchetto contenente la bomba è dubbio che potesse provenire dal treno, perché tutti gli oggetti che provenivano dai vagoni, mostravano segni causati da shock, fumo, ecc. [16] Tali fattori fanno ritenere che questa borsa è stata posta sulla piattaforma poco dopo le esplosioni, e non che fosse sul treno, come le altre bombe. L’apparente contraddizione tra il carattere difettoso di parti delle indagini e il coinvolgimento dei servizi segreti trova, con questa ipotesi, una possibile spiegazione.
Attivazione e natura degli esplosivi: dilettantismo o equipaggiamenti militari?

Continuiamo la nostra analisi, aggiungiamo due elementi che confermano che l’attacco è opera di una organizzazione militare e non di una banda di criminali. Innanzitutto, le 10 bombe erano state probabilmente attivata da sistemi di telecomando radio, e non erano state programmate in anticipo con la funzione di allarme dei telefoni cellulari, come sostiene la versione ufficiale. Infatti, 3 treni sono esplosi mentre erano fermi nella stazione di Atocha, El Pozo e Santa Eugenia, il quarto è esploso all’esterno di Atocha, dove ha atteso la partenza  del primo treno. A meno di vedere una coincidenza straordinaria, si può concludere che i terroristi volevano farli saltare nelle stazioni. Ma questo risultato è estremamente difficile da ottenere, programmando in anticipo l’ora di attivazione. In primo luogo, perché i telefoni cellulari che sarebbero stati utilizzati, non consentono la messa a punto dell’orologio e della sveglia: è possibile impostare i minuti, ma non i secondi. E in secondo luogo, perché i treni dei pendolari non sono puntualissimi. Nel caso del ritardo di alcuni treni, quel giorno, a El Pozo si ebbe “un paio di minuti di ritardo“, secondo la testimonianza del conducente [17]. Le esplosioni non sono state programmate in anticipo, ma innescato “in diretta“. I mezzi di trasmissione radio suggeriscono che si trattasse di una operazione sofisticata, al di là della portata della piccola banda di criminali, indicata dalla versione ufficiale. Ciò detto, perché volevano che i treni esplodessero nella stazione? La ragione potrebbe essere che così fossero più facilmente accessibili e discreti, cosa che corrobora l’ipotesi delle due “bombe finte” introdotte dopo le esplosioni.

In secondo luogo, vi sono indicazioni che le bombe erano cariche di esplosivi militari, “che tagliano”, e non di dinamite per cave, “che mordono“, come è stato dimostrato nel precedente articolo. Nella sua spiegazione al giudice, il capo degli artificieri di Madrid menziona anche l’esplosivo militare C4 [18]. Ricordiamo per inciso che si tratta di questo tipo di esplosivo che la polizia aveva intercettato agenti tedeschi gli americani cercano di introdurre in modo discreto il vertice del G8 nel giugno 2007 [19].

La matrice dell’operazione è chiaramente militare, come confermato da Salvador Ortega, pioniere della scienza forense in Spagna, intervistato da Bruno Cardeñosa pochi giorni dopo l’attacco. Rispondendo alla domanda sulle questioni lasciate irrisolte dalle indagini, ha detto che mancavano “certi autori e il cervello”. Perché dietro questi fatti, elementi molto sofisticati vi hanno partecipato, che erano probabilmente sotto la direzione di qualcuno dell’intelligence e dei militari. Perché, inoltre, si trattava di un’operazione molto costosa [20].

CMX 2004: simulazione o copertura della NATO?

Dopo aver dimostrato che elementi non identificati dell’apparato statale avevano falsificato le prove, per portare l’inchiesta sulla strada sbagliata, coprendo una operazione di stile militare, è legittimo ritenere che gli attentati di Madrid siano stati commessi da un servizio segreto militare.

Secondo l’ex ufficiale dei servizi segreti per la U. S. Army Eric H. May [21]: “il modo più semplice di attuare un attentato false flag è con l’organizzazione di una esercitazione militare che simula proprio l’attentato che vogliamo commettere” [22]. Come negli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, e quelli del 7 luglio 2005 a Londra, gli attentati di Madrid sono coincisi con un attacco terroristico simulato [23]. Dal 4 al 10 marzo 2004, la NATO ha realizzato la sua esercitazione annuale per la gestione delle crisi, intitolata CMX 2004 [24], e la mattina dell’11 marzo, vere bombe sono esplose a Madrid.

Lo scenario sviluppato quell’anno dall’Alleanza Atlantica era proprio un grande attacco terroristico di Al-Qaida in Occidente. In Spagna, la presidenza del governo, il Dipartimento della Difesa e la CNI (servizi segreti), hanno preso parte all’esercitazione. Non sappiamo ancora se le manovre includevano esercitazioni  nella capitale spagnola, in quanto i dati pertinenti sono riservati. In una delle poche evocazioni della stampa di questa simulazione, El Mundo ha scritto: “La somiglianza dello scenario elaborato dalla NATO con i fatti di Madrid è agghiacciante, e ha impressionato i diplomatici, militari e servizi segreti che hanno partecipato all’esercitazione poche ore prima” [25]. I dettagli di CMX 2004 sono classificati, purtroppo non sappiamo dove finisce la somiglianza.

La partenza improvvisa di una importante squadra della CIA

Un’altra coincidenza inquietante è lo scalo, in Spagna, che ha avuto degli aerei clandestini della CIA. Questi aerei sono divenuti famosi dopo lo scandalo dei sequestri di persona e delle prigioni segrete in Europa, che gli americani utilizzavano nel programma “extraordinary renditions” [26]. Il Boeing 737 immatricolato N313P, atterrà il 9 Marzo 2004 all’aeroporto di Palma, nell’isola spagnola di Maiorca, e se ne andò il 12 marzo, il giorno dopo l’attentato [27]. Questo velivolo è il più grande tra quelli utilizzato per tali voli segreti, e l’aereo più importante citato nella relazione del Consiglio d’Europa nel 2006. Palma è a sua volta descritta come una “piattaforma-cerniera del programma delle renditions della Cia.” [28]

Premiati per le loro indagine sul voli della CIA, i giornalisti del quotidiano locale “El Diario de Mallorca” furono sentiti sulle onde radio della Cadena SER, la più ascoltata in Spagna. Concludendo l’intervista, avvisarono “L’11 marzo 2004, il Boeing 737 della CIA fu a Palma. Il giorno dopo partì in fretta, perché aveva cambiato il suo orario di decollo. Aveva annunciato di recarsi in Svezia, ma si recò a Baghdad” [29]. A cosa era dovuta questa partenza affrettata, a solo poche ore dall’episodio della scoperta della famosa borsa di Vallecas? Oltre a questa fretta, è la presenza stessa del velivolo in territorio spagnolo, al momento dell’attacco, che attira l’attenzione. Secondo la commissione del Parlamento europeo sui voli della CIA, 125 voli dell’agenzia di intelligence USA sono passati su un aeroporto spagnolo, dal 2001 al 2005 [30] (un periodo di circa 1.500 giorni). Questi scali erano di solito di uno o due giorni [31], la simultaneità dei due eventi è una coincidenza degna di nota.

La NATO, un sospetto dai pesanti precedenti

In un paese che, dopo il suo ritorno alla democrazia, ha subito diversi tentativi di colpi di stato, è inconcepibile che le forze nostalgiche di Franco abbiano potuto realizzare un’operazione come gli attentati di Madrid, senza essere immediatamente smascherate. E’ possibile, invece, che un servizio segreto militare straniero potesse ordirlo e, alla bisogna, assumere personale nel movimento spagnolo da sempre sensibile al mito della Reconquista.

Un richiamo storico è qui necessario. Come in tutta l’Europa occidentale, una struttura segreta guidata dalla NATO è costituita in Spagna dal dopo-guerra [32], anche se, a causa del suo regime politico, lo Stato ha aderito all’Alleanza Atlantica nel 1982. In un libro di riferimento, ‘Gli eserciti segreti della NATO’ [33], lo storico svizzero Daniele Ganser descrive queste reti, chiamate ‘stay-behind’, (cioè che potevano essere attivate dietro la prima linea dell’occupazione nemica) e nota con il nome generico dell’unità italiana Gladio. Il libro descrive, in particolare, come esse fossero impegnate negli attacchi terroristici attraverso le “false flag“, nell’ambito della “strategia della tensione“. L’obiettivo era quello di giustificare un rafforzamento dell’apparato di sicurezza e di impedire l’assunzione democratica del potere da parte dei comunisti, con la creazione del terrore dei “Rossi“. La Spagna ha giocato un ruolo “fondamentale nel reclutamento degli agenti di Gladio, e serviva anche come rifugio”. Ospitò, per esempio, Stefano Delle Chiaie, “il più noto dei terroristi membri degli eserciti segreti che hanno combattuto il comunismo in Europa e nel mondo, durante la Guerra Fredda”, ha al suo attivo oltre un migliaio di sanguinosa operazioni, e circa 50 omicidi. La rete agiva “contro i comunisti e gli attivisti anarchici, soprattutto tra i minatori delle Asturie e i nazionalisti baschi e catalani” (proviene dall’ambiente delle miniere delle Asturie, cui appartiene, Emilio Trashorras, il principale testimone contro El Chino e la sua banda, e anche informatore della polizia). L’uomo di fiducia di Franco, l’Ammiraglio Carrero Blanco, grande architetto dei servizi segreti, era “un ufficiale di collegamento con la CIA” e il suo apparato dell’intelligence “era uno dei migliori alleati della CIA in Europa” [34].

Anche se sono state progettate per inquadrare la resistenza contro l’invasione sovietica, nulla indica che le reti ‘stay-behind’ siano state smantellate dopo il crollo del blocco orientale. Il comando USA in Europa (EUCOM) e la NATO controllano in Spagna e la base navale e d’intelligence di Rota e la base aerea di Moron. Infine, il Comando Sud della NATO stava installando il quartier generale delle sue truppe di terra a Madrid, al momento degli attentati [35].

È interessante notare che i servizi segreti della Marina e dell’Aeronautica USA, rispettivamente, NCIS e OSI, hanno goduto durante il periodo che ci interessa, di strabiliante libertà di azione in Spagna.

Nell’aprile 2002, Jose Maria Aznar e George W. Bush riformulavano l’accordo bilaterale della difesa tra i due paesi. Questo accordo legalizzava, per la prima volta, la presenza in Spagna di due dei servizi segreti USA, dotati anche di poteri di polizia. La redazione volutamente confusa del testo, ha dato loro un grande margine di manovra, “le autorità competenti dei due Paesi dovrebbero stabilire norme che regolano la condotta in Spagna di NCIS e OSI”. Nel febbraio 2006, il “Caso Pimienta” portava alla luce la mancanza di norme regolamentari. L’NCIS aveva rapito in territorio spagnolo Federico Pimienta, disertore dei Marines, senza alcun controllo da parte della polizia o delle autorità giudiziarie Spagnole. Solo dopo le polemiche generate da questa flagrante violazione della sovranità spagnola, verrà elaborato le norme su “l’accreditamento previo dei membri di NCIS e OSI dalle autorità spagnole” e “la comunicazione alle autorità della Spagna, di qualsiasi operazione” [36].

La ricerca del movente

Nei casi in cui l’Alleanza Atlantica dovrebbe essere coinvolta in attentati come quelli di Madrid, la decisione strategica di ricorrere ad azioni segrete avrebbe dovuto essere approvata dal Comitato di coordinamento degli alleati, per uno scopo specifico. La concezione tattica di ogni operazione, tra cui quelle di Madrid, potrebbe essere presa solo dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, senza alcun riferimento agli Alleati.

Il Generale James L. Jones è stato il comandante supremo della NATO nel 2004. Oggi è Consigliere della Sicurezza Nazionale del Presidente degli Stati Uniti. ©NATO

In altre parole, se i funzionari di intelligence alleati avevano deciso per una messa in scena della “guerra al terrorismo“, il generale James Jones (SACEUR) [37], l’ambasciatore Nicholas Burns (USA) [38] e l’ambasciatore Peter Ricketts (UK) [39] avrebbero deciso, senza metterne a conoscenza il governo spagnolo, di colpire Madrid, eventualmente richiedendo elementi dell’apparato statale spagnola per eseguire l’operazione.

La decisione di ricorrere al terrorismo è collegata alla strategia globale dell’Alleanza, e non a interessi politici, anche se gli interessi politici immediato potrebbe distorcere la valutazione della rilevanza di una particolare operazione. Da questo punto di vista, è un errore interpretare il coinvolgimento dei servizi di intelligence atlantici, basandosi sulle elezioni spagnole o alle elezioni presidenziali negli USA. L’albero nasconde la foresta.

L’Alleanza vieta d’intervenire nella politica degli Stati membri, quando i concorrenti sono tutti atlantisti (Partito socialista e Partito popolare spagnoli; i repubblicani e i democratici USA). La sua visione è molto più ampia. Inoltre, è sbagliato considerare negativo per l’Alleanza, la perdita del potere in Spagna del Partito popolare (poiché Aznar non aveva voluto presentare una nuova domanda) e il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq. Infatti, il governo socialista è un partner nel partito laburista al potere nel Regno Unito. Una settimana dopo la sua elezione, Zapatero ha detto che la sua “priorità è la lotta contro il terrorismo“. D’altra parte, il contingente spagnolo in Iraq era solo il nono in termini numerici: 1300 uomini, meno dell’1% di tutte le truppe. Inoltre, il suo ritiro è stato compensato da un maggiore impegno in Afghanistan.

Molti autori spagnoli hanno messo in dubbio le ragioni che hanno portato i terroristi, chiunque essi siano, ad agire nelle elezioni legislative.

Essi hanno messo in luce come le reazioni degli attori locali siano state guidate dai propri interessi. Tuttavia, questo non ci informa delle intenzioni dei terroristi. Nel caso in cui l’operazione è stata sponsorizzata dalla NATO, il contesto elettorale ha permesso di rafforzare la teoria dello “scontro di civiltà“: dei musulmani, non collegati ad Al-Qaida, vogliono distruggere la democrazia e le istituzioni occidentali. Proprio questa versione è stato scelta dai tribunali spagnoli in relazione agli attentati di Madrid, come ha fatto la giustizia del Regno Unito circa gli attentati di Londra [40].

Se la decisione di mettere in scena un atto terroristico islamico è stata presa dal comitato di coordinamento degli alleati, essa avrebbe potuta essere attuata il 15 e il 20 novembre 2003, a Istanbul, l’11 marzo 2004 a Madrid e il 7 luglio 2005 a Londra [41]. Se è valida questa ipotesi, dovrebbe rendere conto di tutti questi crimini.

Gli obiettivi della NATO in questo periodo, erano in grado di motivare un tale intervento?

Nel 2004, l’Alleanza atlantica è in fase di riorganizzazione. Da un lato sembra essere in espansione: si prepara ad accogliere nuovi membri, è impegnata a stabilizzare il Kosovo e a garantire la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo e al largo del Corno d’Africa, si è schierata in Afghanistan e ha cominciato a farlo in Iraq, si sta sviluppando una forza di reazione rapida in grado di difendere i propri interessi in tutto il mondo. Nell’altro lato, si sta affrontando una grave crisi, quando nel 2001, per la prima volta nella sua storia, i suoi membri hanno offerto la loro assistenza ad un loro membro, vittima di una presunta aggressione esterna, si è lacerata sullo stesso argomento nel 2003. La Francia e il Belgio hanno negato che l’Iraq fosse una minaccia terroristica per gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha vietato agli Stati Uniti di usare il suo spazio aereo e le basi NATO in Turchia, per attaccare l’Iraq.

In piena crescita, l’Alleanza è a rischio di esaurimento. I suoi membri s’impegnano disuniti, “à la carte“, in Iraq. L’unico modo per serrare i ranghi è quello di introdurre nuove azioni comuni nella “guerra al terrore“.

Rafforzare il contro-terrorismo presso gli alleati

Per il quotidiano francese Le Monde, gli attentati di Madrid dimostravano che Al-Qaida minacciava l’Europa. Il quotidiano parafrasava il suo slogan dell’11 settembre 2001, “Siamo tutti di Madrid” (edizione del 13 marzo 2005).

In primo luogo, la NATO ha indurito il suo controllo sulla popolazione in Europa, estendendo le disposizioni del Patriot Act. Il sociologo Jean-Claude Paye, descrivendo, in seguito, la reazione dell’UE all’11 marzo, nel capitolo introduttivo del suo libro “La fine dello Stato di diritto”:

Durante gli attacchi dell’11 marzo 2004, in Spagna, è apparsa sui nostri schermi televisivi una serie di esperti del terrorismo, per costruire un mix tra Al-Qaida, l’ETA e diversi rifugiati politici, rendendo il “terrorismo” un termine generico, con cui sostituire tutte le situazioni concrete.

Una misura richiesta all’unanimità, che cercava di scongiurare questo pericolo multiforme, è stata la creazione immediata del mandato d’arresto europeo. Il mandato d’arresto europeo permette l’estradizione quasi automatica da uno Stato membro, di una persona ricercata da parte dell’autorità giudiziaria di un altro Stato membro. In relazione al procedimento di estradizione, il mandato rimuove tutti i controlli politici e giudiziari sulla fondatezza e la legittimità della richiesta, e i mezzi del ricorso contro di esso. La domanda è così soddisfatta e incondizionatamente legittimata dagli altri paesi, a prescindere dalla loro legittimità o conformità con i principi dello Stato di diritto. Il mandato doveva entrare in vigore il primo gennaio 2004. Adottato da parte dell’Unione europea e già integrato nella maggior parte delle legislazioni nazionali, questa misura, però, fatica a definirsi. Una delle prime conseguenze degli attentati dell’11 marzo è la fine delle ultime resistenza all’utilizzo di questa procedura, e il rafforzamento delle misure di controllo adottate nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria tra i paesi europei. Si può ben temere una accelerazione della sospensione delle garanzie costituzionali, già istituita a seguito dell’11 settembre.

Le prime misure previste riguardano il rafforzamento della cooperazione di polizia e giudiziaria. Una “capacità dell’intelligence” avrà il dovere di analizzare le informazioni fornite dai servizi segreti e dalle forze di polizia degli Stati membri. Si tratta, inoltre, di adottare leggi che permettano a ricercatori provenienti da diversi paesi, di lavorare in team congiunti, e di ratificare una convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale. Si prevede inoltre di promuovere lo scambio dei dati: le impronte digitali e le letture biometriche. Il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo vuole anche avviare, entro il 2005, l’introduzione dei passaporti e delle carte d’identità contenente dati come la fotografia dell’iride e le impronte digitali. Le compagnie aeree sarebbero inoltre obbligate a notificare, alle autorità doganali e di polizia in Europa, una serie di informazioni sui propri passeggeri. Questa misura era già in corso a favore delle autorità statunitensi, nei voli transatlantici.

Queste diverse misure, come il passaporto o la carta d’identità con chip elettronico contenente dati biometrici, sono state discusse a lungo. Gli attacchi sono semplicemente la possibilità di superare la resistenza a tali limitazioni alla libertà. Se si fa riferimento agli attentati di Madrid, l’efficacia di queste disposizioni è in gran parte aleatoria, dal momento che i detenuti erano stati regolarizzati in Spagna da lungo tempo e non attraversavano la frontiera. Non potevano essere individuati con tali mezzi. Invece, tali disposizioni sono perfettamente adeguate alla gestione poliziesca delle popolazioni. L’organizzazione Statewatch ha dimostrato che delle 57 misure previste dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo, il 25 e il 26 marzo 2004, 27 hanno poco o nulla a che fare con il terrorismo. Esse sono progettati per monitorare non gruppi specifici, ma tutte le persone che attraversano i controllo delle comunicazioni” [42].

Jean-Claude Paye mostra che il controllo della popolazione è fatto a vantaggio delle istituzioni degli Stati membri dell’Unione europea, ma anche degli Stati Uniti. “Lo sviluppo della cooperazione transatlantica nella lotta contro il terrorismo, svela il carattere organico del diritto penale nella formazione della struttura imperiale. L’Unione europea ha istituito, sotto l’egemonia degli Stati Uniti, l’organizzazione del controllo della popolazione. Quanto agli Stati Uniti, le loro richieste puntano piuttosto sulla capacità, delle loro istituzioni di polizia e giudiziarie, d’aggirare le strutture formali del potere esecutivo e giudiziario in Europa.” [43]

L’estensione in Africa della “guerra al terrorismo

Il generale Jones, comandante supremo della NATO e anche patrono delle forze Usa in Europa (EUCOM), si concentrerà sulla creazione ad hoc del comando delle forze Usa per l’Africa (AFRICOM). Per giustificare il dispiegamento, che suscita le preoccupazioni africane, egli continua a denunciare la minaccia terroristica sul continente. Gli stessi argomenti utilizzati per coinvolgere la NATO in Africa. Osserviamo che in questo contesto, la strana decisione della Corte suprema di attribuire gli attentati di Madrid ai terroristi islamici non collegati con Al-Qaida, fa al caso, perché questi islamisti provenivano dal Nord Africa.

Durante il suo viaggio in Africa, nel luglio 2003, il presidente Bush ha avvertito: “Non permetteremo ai terroristi di minacciare i popoli africani, o di utilizzare l’Africa come base per minacciare il mondo” [44]. Funzionari Usa hanno sempre fatto dichiarazioni, assicurando della creazione di Al-Qaida nel deserto del Sahel, affermazioni messe in discussione da molti osservatori. A partire da marzo 2004, è il Comandante in Capo delle Forze Armate USA in Europa (EUCOM, che sovrintendeva anche, allora, all’Africa) che avverte: i membri di Al-Qaida stanno cercando di installarsi “nella parte settentrionale della Africa, il Sahel e il Maghreb sembrano cercare il santuario che avevano in Afghanistan, quando i taliban erano al potere. Hanno bisogno di un luogo stabile per armare, organizzare e reclutare nuovi membri” [45].

Il 23 e 24 marzo 2004, su iniziativa degli Stati Uniti, si tenne presso la sede EUCOM,, a Stoccarda, un incontro senza precedenti dei capi di stati maggiori di otto paesi del Nord Africa e del Regno Unito. A quel tempo tutti gli occhi erano rivolti verso il Nord Africa, tra cui il Marocco, dove il GICM (Gruppo islamico combattente marocchino) era sospettato di essere dietro l’attentato di Madrid. Si è deciso di lanciare il TSCTP (partenariato trans-sahariano per l’anti-terrorismo), un ambizioso piano, da parte degli Stati Uniti, per addestrare gli eserciti africani nella lotta contro il terrorismo [46]. Tali piani per l’addestramento, gli consentivano di mettere piede sul suolo africano, e di controllare tranquillamente gli eserciti locali. La scelta di questa strategia di schieramento, risponde alla necessità di ridurre le perdite causate dalle invasioni militari dell’Afghanistan e dell’Iraq.

L’attentato di Madrid è stato programmato per consentire a Washington e a Londra di imporre il TSCTP a otto paesi africani. Si era creato un clima di incertezza, dovuta principalmente ad una voce che annunciava il prossimo sbarco dell’Esercito USA in Nord Africa, come nelle invasioni di Afghanistan ed Iraq. Questa voce, che si sarebbe dimostrata falsa, è stata ripresa da alcuni giornali in Spagna, Algeria e Marocco [47]. L’importante quotidiano spagnolo ‘La Razon’ ha scritto, per esempio, il 21 Marzo 2004: “L’unità delle forze speciali americane e delle forze militarizzate della CIA,. sono attese nei prossimi giorni nella regione del Sahel (a nord del Sahara). Che parteciperanno alla più grande operazione di lotta contro il terrorismo condotta dagli Stati Uniti, dopo la guerra in Iraq. Si prevede che la battaglia durerà diverse settimane. Gli eserciti dei paesi della zona, che hanno già accettato di aprire il loro spazio aereo all’U. S. Air Force, intendono partecipare alla lotta sotto il comando statunitense (…) L’inizio delle operazioni militari, deciso dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo, potrebbe coincidere con (…) il 26 marzo prossimo” [48]. Queste voci di sbarchi avevano l’aria della manovra di intossicazione, per forzare la mano ai leader africani sul TSCTP. L’arrivo di istruttori militari degli Stati Uniti e del Regno Unito, poteva effettivamente apparire come un male minore, rispetto allo sbarco delle forze armate statunitensi nel loro paese.

Tuttavia, la NATO in quanto tale, non vuole essere coinvolta nella TSCTP. Gli Stati membri hanno deciso di inviare truppe in Africa fino al 2005, per sostenere le operazioni dell’Unione africana in Sudan e in Somalia. L’attentato di Madrid, presentato come una punizione di Aznar, per il suo coinvolgimento nella guerra in Iraq, (cosa che è stata smentita, molto tempo dopo, dalla giustizia), ha indirettamente contribuito a integrare il conflitto in Iraq nella guerra “contro il terrorismo”, nella logica continuazione del discorso falso del segretario di Stato USA, Colin Powell, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [49]. L’ondata di attentati terroristici islamici più importanti, in Europa è stata, a sua volta, interrotta con l’operazione fallita a Barcellona, nel gennaio 2008 [50].

Conclusioni

Al termine di questa analisi, si afferma la decisione della Corte Suprema di rispondere alle esigenze dei politici e non della realtà. Elementi dell’apparato statale spagnolo hanno risposto  falsificando le prove e dirigendo le indagini su una pista falsa, gli islamisti. Gli attentati sono stati commessi da un’organizzazione militare con la complicità negli apparati dello Stato. La NATO, il cui passato terrorista è stabilito, ha il know-how, la logistica e la motivazione per effettuare queste operazioni. Dovrebbe essere considerato il principale sospettato, se una nuova inchiesta giudiziaria dovesse essere intrapresa.

Note

[1] «11 mars 2004 à Madrid: était-ce vraiment un attentat islamiste?», Mathieu Miquel, Réseau Voltaire, 11 octobre 2009.

[2] La Manipulation: Madrid, 11 mars, par Jean Chalvidant, Cheminements éd., 2004. L’autore ha presentato i suoi argomenti sul suo blog (http://jeanchalvidant.free.fr/).

[3] Sito della rivista ‘Le Meilleur des mondes’ (http://www.lemeilleurdesmondes.org/).

[4] «Les trucages de la Foundation for the Defense of Democracies», Réseau Voltaire, 2 février 2005.

[5] Cfr. il primo numero della rivista.

[6] Verdetto in appello del processo dell’attentato, pagg. 581-582.

[7] Fernando Mugica è il precursore della critica della versione ufficiale nella stampa, autore di quaranta articoli dal titolo “I buchi neri dell’11 marzo“, pubblicata da El Mundo. Se non ha mai detto chiaramente quale pista privilegia, ha scritto nel suo articolo dell’11 marzo 2005, intitolata “Las Piedras de Pulgarcito”: “Il lavoro sul campo svolto per un amico, uno scrittore di successo, per un possibile romanzo, mi ha portato a indagare, nel tardo autunno del 2003, su tutti i dati che riguardano gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, (…) non rivelerò i miei risultati sull’11 settembre, ma posso dire che senza questo lavoro preparatorio, i buchi [neri dell’11 marzo] non sarebbe mai uscito“.

[8] Questa tesi particolare è difesa da Ernesto Mila nel suo libro ‘11-M los perros del infierno’ (Pyre, 2004), in cui egli dà testimonianza anche degli ambienti interni all’estrema destra, sulla strategia della tensione durante la guerra fredda.

[9] Bruno Cardeñosa ha egualmente scritto delle mistificazioni dell’11 settembre, vedasi «Le 11 septembre, vu d’Espagne», Sandro Cruz, Réseau Voltaire, 13 septembre 2004.

[10] Testimonianza al processo di questo agente della polizia scientifica, testimone protetto 17054, 3 maggio 2007.

[11] E’ il caso di El Pais, nelle edizioni del 13, 14, 19 e 24 marzo 2004

[12] «Historia de la mochila numero 13», Luis del Pino, El Mundo, 19 marzo 2006

[13] «An American Connection», Michael Isikoff, Newsweek, 17 mai 2004

[14] Ibid. e «Arrest in Bombing Inquiry Was Rushed, Officials Say», Sarah Kershaw e David Johnston, New York Times, 8 maggio 2004

[15] Los enigmas del 11M, par Luis Del Pino, (Libroslibres éd, 2006), capitolo 11 «Atando cabos».

[16] Testimonianza al processo di uno degli artificieri, testimone protetto 54868, 19 marzo 2007

[17] Atto d’accusa del processo dell’attentato, pag. 4

[18] Atto d’accusa del processo dell’attentato, pag. 53.

[19] «La police allemande déjoue une tentative d’attentat états-unienne contre le G8», Réseau Voltaire , 11 juin 2007

[20] 11-M Claves de una conspiracion, Bruno Cardeñosa (Espejo de tinta, 2004), page 123.

[21] Vedasi: «Capitaine Eric H. May», Alan Miller, Réseau Voltaire, 9 juin 2009

[22] «False Flag Prospects, 2008 – Top Three US Target Cities», Eric H. May, Globalresearch.ca, 23 fevrier 2008

[23] «Attentats de Londres: le même scénario se déroulait simultanément sous forme d’exercice!» e «Ces exercices de simulations qui facilitent les attentats», Réseau Voltaire, 13 juillet e 13 septembre 2005.

[24] Comunicato stampa della NATO, 1 marzo 2004

[25] «La OTAN simuló un atentado en Europa con 200 muertos», Carlos Segovia, El Mundo, 14 mars 2004

[26] «La CIA “directement responsable” des “restitutions extraordinaires” de prisonniers en Europe, selon les députés européens», Réseau Voltaire , 14 juin 2006

[27] «La investigación halla en los vuelos de la CIA decenas de ocupantes con estatus diplomático», Andreu Manresa, El Pais , 15 novembre 2005

[28] Accuse di detenzioni segrete e trasferimenti illegali di detenuti che coinvolgono Stati membri del Consiglio d’Europa, relazione del senatore Dick Marty al Consiglio d’Europa, Réseau Voltaire, 12 juin 2006. Vedere la parte intitolata «La “toile d’araignée” mondiale».

[29] «El Diario de Mallorca gana el premio Ortega y Gasset de periodismo», Cadena Ser, 12 avril 2006, intervista disponibile on line (http://www.cadenaser.com/actualidad/audios/diario-mallorca-gana-premio-ortega-gasset-periodismo/csrcsrpor/20060412csrcsr_11/Aes/).

[30] «Un informe de la Eurocámara eleva a 125 los vuelos de la CIA que hicieron escala en España», El Mundo, 15 juin 2006

[31] «La investigación halla en los vuelos de la CIA decenas de ocupantes con estatus diplomático», Andreu Manresa, El Pais, 15 novembre 2005

[32] «Stay-behind: les réseaux d’ingérence américains», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 20 août 2001.

[33] Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser (Demi-lune, 2007). Questo libro è pubblicato in parti da Réseau Voltaire.

[34] Les Armées secrètes de l’OTAN, Daniele Ganser (Demi-lune, 2007), chapitre 7.

[35] Sito ufficiale del CC-Land-Madrid.

[36] «Defensa rechaza que los servicios secretos de EE UU actúen por su cuenta en suelo español», 16 avril 2006, e «España autorizará a los espías de EE UU a actuar bajo supervisión en territorio nacional», 18 fevrier 2007, Miguel Gonzalez, El Pais.

Si noti che durante il periodo 2004-08, gli Stati Uniti hanno firmato numerosi accordi con gli alleati in modo che i loro servizi di intelligence possono fare quello che vogliono in questi Stati. Ad esempio per la Francia:  «La France autorise l’action des services US sur son territoire», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 8 mars 2004.

[37] Il generale Jones, che ha rifiutato due volte di diventare vice segretario di Stato dell’amministrazione Bush, è stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale per l’amministrazione Obama.

[38] Ora in semi-pensionamento, l’ambasciatore Burns è al centro della controversia: in base ai documenti rilasciati da parte di Hamas, è stato uno dei principali organizzatori dell’avvelenamento del presidente Yasser Arafat.

[39] Peter Ricketts, ex presidente del Comitato congiunto dell’intelligence, è divenuto segretario generale del Foreign Office.

[40] «Attentats de Londres: le rapport officiel écarte la piste “Al Qaïda”», Réseau Voltaire, 10 avril 2006.

[41] «Londres renoue avec la stratégie de la tension», Thierry Meyssan; «Attentats de Londres: Rachid Aswat est un agent britannique», Réseau Voltaire, 13 juillet e 5 septembre 2005

[42] La Fin de l’État de droit, Jean-Claude Paye (La Dispute, 2004), pages 13-15.

[43] Ibid , page 12.

[44] «Activisme militaire de Washington en Afrique», Pierre Abramovici, Le Monde Diplomatique, juillet 2004

[45] «Enquête sur l’étrange “Ben Laden du Sahara”», Salima Mellah e Jean-Baptiste Rivoire, Le Monde Diplomatique, février 2005

[46] Presentazione del TSCTP sul sito del comando delle forze statunitensi in Africa.

[47] Cfr. in particolare gli articoli “Des soldats US dans le Sahel”, Lounis Guemache, nel quotidiano algerino Liberté, 17 marzo 2004; “EE UU en el Sahara Lanza una gran operación Antiterrorista tras los atentados del 11-M”, Pedro Canales, La Razon, 21 marzo 2004, « Les USA se préparent à mener une grande opération contre le terrorisme au sud du Sahara» nel quotidiano marocchino Al Ahdath al Maghribiya, 22 marzo 2004.

[48] «EE UU lanza en el Sahara una gran operación antiterrorista tras los atentados del 11-M», Pedro Canales, La Razon , 21 mars 2004

[49] «Discours de M. Powell au Conseil de sécurité de l’ONU», Réseau Voltaire, 11 février 2003.

[50] «Comment la DGSE a déjoué une nouvelle vague d’attentats d’Al-CIA en Europe», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 7 février 2008.

Questo articolo è il seguito di “11 mars 2004 à Madrid: était-ce vraiment un attentat islamiste?” – http://www.voltairenet.org/article162436.html

Nella foto: il Consiglio dell’Atlantico del Nord, riunitosi al quartier generale della NATO a Bruxelles, dedica un momento di silenzio in memoria delle vittime degli attentati di Madrid. ©NATO

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Balcani: wahabismo in stile USA

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Fonte: Strategic Culture Foundation,  http://en.fondsk.ru/print.php?id=2483 04.11.2009

Più di un anno fa, gli Stati Uniti e i loro vassalli europei riconoscevano l’indipendenza del Kosovo. Ciò che non sarà dimenticato è la forza dei patrioti serbi e i disgustosi processi dell’Aia, durante il quale sentenze  incredibilmente ingiuste sono stati loro comminate. Eppure, la storia è ben lungi dall’essere conclusa. In questi giorni, centinaia di ONG, con sede negli Stati Uniti, Europa e paesi arabi “promuovono la democrazia” in Kosovo. Dovrebbe essere compreso in quale misura le loro attività si mescolano con quelle della malavita albanese.

In Kosovo, una fitta rete di fondazioni non-governative e di organizzazioni islamiste, sta creando numerose scuole, apparentemente per lo studio del Corano, ma praticamente per perseguire un programma che non si limita alla diffusione della conoscenza religiosa. In particolare, il sistema include un certo numero di organizzazioni come la saudita Al-Haramain Islamic Foundation, Comitato unico per il salvataggio del Kosovo e la Cecenia, e il Comitato unico saudita per il soccorso del Kosovo, così come le ONG musulmane provenienti da altri paesi – Al Vakh Al Islami, l’Assemblea mondiale per la gioventù musulmana, L’International Islamic Relief Organization, la Società del Revival dell’Eredità Islamica, e Kaliri il Merilis.

Tutte le fondazioni sono gestite dal Comitato di soccorso dell’Arabia saudita, con sede a Riyadh. La sua sede in Kosovo si trova sul Boulevard Bill Clinton, a Pristina. Il ramo del Kosovo è guidato da Hamza Dzalaidan Jael, un individuo legato a Osama Bin Laden. La missione del Comitato è quello di coordinare gli sforzi di tutte le ONG saudite nella ex Jugoslavia, allo scopo di diffondere la versione wahhabita dell’Islam, di cui la popolazione della regione non era nemmeno a conoscenza, prima della occupazione della NATO. Il Comitato fornisce sostegno finanziario a una serie di organizzazioni albanesi che sposano le posizioni estremiste, come il Fronte degli Studenti Islamici, la gioventù di Prizren, e la gioventù albanese del Kosovo, ed è noto anche per avere sponsorizzato il terroristico Esercito Nazionale Albanese.

Quando la beneficenza araba in Kosovo, offre aiuti ai villaggi e alle città, il consenso dei residenti alla costruzione di nuove moschee è dato per scontato. Agenti dei servizi d’intelligence sauditi stabiliscono i contatti con gli imam dei nuovi centri religiosi ed i fedeli che vi partecipano sono, poi, considerati come candidati per il reclutamento. Abitualmente le moschee vengono visitate dai predicatori arabi – in genere persone con esperienza di combattimento dal Libano, Iran, Iraq e Pakistan – che fungono anche da istruttori militari. Insieme con l’indottrinamento religioso, insegnano alle generazioni più giovani dei kosovari, il combattimento in ambienti urbani e il sabotaggio. Gli ufficiali di collegamento del gruppo della terroristica Jihad islamica, fondata in Egitto, sono stati avvistati in Kosovo. C’è una comunità di studenti albanesi presso l’Università del Cairo, una scuola nota allevare in serie terroristi islamici.

I terroristi islamici sono particolarmente attivi nelle regioni di Prizren e Pec. Comunità di seguaci dei movimenti islamici più aggressivi risiedono a Pec e, purtroppo, il loro sostegno nei Balcani si sta allargando. Si ritiene generalmente che esistono tre centri principali dell’estremismo islamico nei Balcani – Skopje (Macedonia), Tirana (Albania), e il Kosovo.

L’esperto di sicurezza degli Stati Uniti e responsabile della missione OSCE in Kosovo, Thomas Gimble, afferma che il Kosovo è diventato un paradiso per le organizzazioni terroristiche islamiche e che al Qaeda sta massicciamente versando denaro nella regione. L’Arabia Saudita, Iran, Bahrein, Qatar, così come il gruppo terrorista Hezbollah, stanno congiuntamente formando un intero esercito di jihadisti, che conterebbe fino a 75.000 persone.

Il processo in corso in Kosovo non è una rinascita islamica, ma l’avvento del wahabismo, che è l’aberrazione più aggressiva e inconciliabile dell’Islam. Essa è guidata non solo dall’Arabia Saudita, ma anche dal suo “fratello maggiore” – gli Stati Uniti. Questi ultimi possono pretendere di aver sradicato il wahhabismo in Afghanistan, ma, per quanto strano possa sembrare, gli Stati Uniti non hanno alcun problema di convivenza con esso in Kosovo. Le Manipolazioni perpetrate dagli Stati Uniti, sono destinate a creare una fonte di tensione e di destabilizzazione permanente in Europa. Non c’è da stupirsi, quindi, che le missioni umanitarie occidentali – Charles Stuart Mott Foundation, East-West Management Institute, Foundation for Democratic Initiatives, The Balkan Trust for Democracy, The German Marshall Fund, Rockefeller Brothers Fund – stanno lavorando fianco a fianco con i predicatori wahhabiti.

Si afferma con orgoglio, sul sito della Charles Stuart Mott Foundation, che attualmente le ONG si stanno moltiplicano in Kosovo. Secondo il responsabile della filiale del Kosovo, Bakshim Rahmani, il numero di ONG registrate in provincia ha raggiunto i 5.000!

Attuando i loro progetti politici nella regione, gli Stati Uniti collaborano strettamente con i capi della mafia albanese. Curiosamente, la “democrazia più importante del mondo” e dei gruppi criminali albanesi, sembrano avere obiettivi comuni. I leader più influenti della malavita albanese sono Rami Mustafi, leader dei Rami-Guys, gruppo che controlla l’est del Kosovo (Kacanik-Gnilana-Vitina), il politico albanese Hashim Thaci, Recep Salemi e Agim Cheku. La fusione della politica albanese e della criminalità organizzata ha portato in vita un mostro, che rappresenta una minaccia per l’intera Europa centrale e meridionale. Sostenuta da Tirana e Washington, la criminalità organizzata albanese forgia dei partiti politici, con cui infiltrarsi nell’amministrazione del Kosovo. Per esempio, Thaci, Salemi, e Cheku hanno costituito il Partito Democratico del Kosovo. I loro alleati sono noti individui come Havit Haliti, Suleyman Semimi, Agim Shyla, e Samid Lushtaku. Lushtaku e Semimi sono i fondatori dell’UCK ed ex comandanti del Corpo di Difesa del Kosovo. Tutte queste persone hanno dei singoli settori di responsabilità, nella politica e nella sfera della criminalità organizzata, mentre agiscono sotto il controllo del Partito democratico del Kosovo. Così, Thaci è il leader del partito, e Haliti è il direttore dei servizi segreti e delle operazioni finanziarie.

Attualmente le posizioni del vertice del crimine in Kosovo sono condivisi dai ‘ragazzi di Rami’ e da molti altri gruppi che hanno legami con gli Stati Uniti ed i servizi segreti albanesi. Alcuni di essi sono descitti più avanti.

Il gruppo Brakai è guidato dai fratelli Albert, Ilin, e Fatmir Brakai. Mantengono stretti legami con l’ex Primo Ministro albanese e attuale parlamentare, Fatos Nano. Informazioni sulle connessioni tra Nano e la mafia albanese in Italia emergono regolarmente nei media italiani. Il gruppo Brakai controlla Pristina ed i territori della valle Drenica.

Il dominio del gruppo dell’ex Primo ministro del Kosovo, Ramush Haradinaj, si spande su Pec-Dakovica-Decani. E’ sponsorizzato dal maggiore affarista e contrabbandiere di armi albanese, Ekrem Luka. Le consegne delle armi sono controllate dal fiduciario di Luka, Ali Haski, che è collegato al servizio di sicurezza dell’Albania, il Shik. Luka è un alleato del clan di Thaci, ed è collegato ad esso tramite Haliti.

Molti altri gruppi dominano nell’ex serbo Kosovo. Florim Maloku controlla il contrabbando di sigarette, auto e alcol in Kosovo (è noto per aver donato 300 dollari all’UCK, in passato). Ismet Aslani, un individuo legato a Thaci e al numero uno del contrabbando in Kosovo, Nuredin Ibishi, controlla lo spaccio di marijuana, eroina e del combustibile nella regione. Salli Nimani, le cui donazioni alla causa dell’UCK ammontano a 3 milioni di dollari, fornisce armi provenienti dall’Albania, occasionalmente trasportandole con la sua auto con targa diplomatica. Aiuta anche gli ex guerriglieri dell’Esercito di Liberazione del Kosovo, trovandogli lavoro a Presevo, Medveda e Bujanovac, ampliando così la nicchia delle sue attività criminali. Di conseguenza, attualmente Nimani è anche contrabbandiere di armi nella regioni di cui sopra. Shukri Buya, un contrabbandiere e un confidente dello Shik e della mafia albanese, è sponsor della formazione paramilitare Black Eagle.

In conseguenza di tutto ciò, l’islamizzazione dei territori ex serbi procede di pari passo la loro criminalizzazione. La mafia albanese, patrocinata da Washington, sta penetrando nell’amministrazione del Kosovo e spinge i suoi agenti nelle posizioni politiche e governative più significative. Data la situazione attuale, la minoranza serba, abbandonata nella regione, non ha praticamente alcuna possibilità di sopravvivenza.

Mia amata Serbia, sono pronto a sacrificare la mia vita in tuo nome. So cosa lascerò e perché”. Questo è il voto dei volontari serbi che si preparano a combattere i nemici del loro paese. Si spera che i serbi trovino la forza di non cedere di fronte a nuove privazioni.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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South Stream probabilmente supererà North Stream e Nabucco

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Fonte:  Strategic Culture Foundation, http://en.fondsk.ru/print.php?id=2562 05.11.2009

Fine ottobre è stato caratterizzato dai grandi risultati della Russia nella sua “politica della pipeline“. La Danimarca ha acconsentito alla costruzione di North Stream nelle sue acque territoriali, la Turchia ha dato via libera alla ricerca relativa al South Stream, nella sua zona marina esclusiva, e l’accordo per la costruzione del tratto serbo del South Stream e l’aggiornamento della struttura di stoccaggio del gas di Banatski Dvor, concluso durante la visita del presidente russo Medvedev a Belgrado. Come risultato dei progressi impressionanti nella promozione di South Stream, il primo ministro russo Putin ha fatto una dichiarazione sensazionale, il gasdotto dovrebbe eventualmente essere costruito prima del North Stream. L’attuazione dei progetti della pipeline in Sud Europa, dovrebbe rendere possibile alla Russia non solo mantenere il ruolo di principale via per l’esportazione del gas dell’Asia centrale, ma potenzialmente di canalizzare, attraverso il suo territorio, anche la maggior parte del gas naturale esportato dall’Azerbaigian.

Ottenere dalla Turchia la licenza per le ricerche riguardanti South Stream, è stato certamente il più grande dei successi di cui sopra. Mentre il progetto di costruzione del gasdotto attraverso il fondale del Mar Nero, che collega Novorossijsk (Russia) a Varnu (Bulgaria), e che poi si biforca per raggiungere l’Italia e l’Austria appariva ambizioso, fino a poco tempo fa non c’era chiarezza per quanto riguardava le acque territoriale del paese in cui sarebbe stato situato. Naturalmente, l’Ucraina, paese che attualmente ospita la maggior parte delle vie di esportazione del gas verso l’Europa, è riluttante a rilasciare la licenza per costruire un gasdotto che bypassa il suo territorio. Secondo il piano esistente, South Stream – un oleodotto del costo di 25 miliardi di euro e che garantirà il passaggio di 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno – deve essere iniziato nel 2013 e completato entro il 2015. Ora è emerso che l’oleodotto sarà costruito nella zona marittima esclusiva della Turchia, mentre la Russia ha ripagato con la decisione di acconsentire alla costruzione dell’oleodotto Samsun-Ceyhan in Turchia.

Il nuovo oleodotto collegherà Samsun sul Mar Nero a Ceyhan sul mar Mediterraneo, ha l’obiettivo di raggiungere i 60-70 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, e servire come alternativa sia al transito attraverso il Bosforo che alla pipeline Burgas-Alexandroupolis, che attraverso la Grecia e la Bulgaria, e in merito alla quale il governo bulgaro resta indeciso. La Rosneft, Transneft e Sovkomflot della Russia, la Calik della Turchia e l’Eni dell’Italia (che è anche partner chiave di Gazprom nel progetto South Stream), collaboreranno alla costruzione dell’oleodotto Samsun-Ceyhan. La russa Lukoil ha anche espresso interesse ad aderire al progetto, e il Kazakistan ha detto che sarà uno dei fornitori del gasdotto.

La situazione della pipeline in Sud Europa sta prendendo una svolta più favorevole alla Russia. La ripresa sempre più probabile nei rapporti tra l’Armenia e la Turchia, è accompagnata da tensioni che si manifestano tra la Turchia e l’Azerbaigian. Il 16 ottobre, il presidente azero I. Aliyev ha detto, in una riunione di governo, che la Turchia impedisce l’esportazione del gas naturale da Baku all’Europa. Ha detto che la Turchia tassa il transito di oltre il 70% della media regionale, mentre l’Azerbaigian vende gas alla Turchia a 120 dollari per 1.000 metri cubi, che è solo un terzo del normale prezzo dei mercati internazionali. Il presidente azero ha detto che, negli ultimi due anni, Baku ha cercato di affrontare il problema con delicatezza e di ricomporre tutti i dissidi attraverso dei negoziati, ma tutto ciò che la Turchia ha offerto, in risposta, era inaccettabile.

Attualmente l’Azerbaigian fornisce alla Turchia circa 6 miliardi di metri cubi di gas naturale, attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Erzurum, avviato nel 2006. Il disaccordo sulle tariffe di transito pregiudica l’attuazione di un progetto molto più grande, la costruzione del gasdotto Nabucco con cui trasportare 31 miliardi di metri cubi annui, che collegherà la regione del Caspio all’Europa, attraverso la Turchia. Il piano del consorzio del progetto è quello di trasportare, inizialmente, solo la metà della portata massima del gasdotto, con il nord dell’Iraq e l’Azerbaigian che contribuiranno con 8 miliardi di metri cubi di gas naturale ciascuno. Commentando la posizione dell’Azerbaigian, Radio Free Europe – Radio Liberty ha detto che “la mossa di Aliyev ha accresciuto i timori che l’Azerbaigian possa svicolare rapidamente nell’orbita di Mosca, alcuni osservatori dicono che potrebbe essere un bluff, nel tentativo di influenzare il Parlamento della Turchia“.

L’Azerbaigian è attivamente legato alla Russia, come contrappeso alla Turchia. Praticamente, nel momento in cui la Russia e la Turchia hanno avuto colloqui su South Stream, Gazprom e la compagnia petrolifera di Stato della Repubblica dell’Azerbaigian hanno firmato un accordo per avviare la fornitura di gas dalla Azerbaigian alla Russia, a partire dal 1 gennaio 2010. Inizialmente l’importo da fornire – 0,5 miliardi di metri cubi ogni anno – è relativamente modesto, ma raggiungerà i 3 miliardi di metri cubi annui, in futuro. La Russia ha già detto che avrebbe volentieri acquistato tutto il gas prodotto, nella seconda fase, del giacimento di Shah Deniz. La comunità degli esperti azera sembra molto interessata all’opportunità di ampliare l’esportazione, verso la Russia, di gas e petrolio del paese. Una volta che le relazioni tra la Turchia e l’Armenia hanno iniziato a normalizzarsi, Baku si è subito resa conto che l’esportazione attuale verso il Nord è di circa 7,7 miliardi di metri cubi di gas all’anno, e che il transito attraverso l’oleodotto Baku-Novorossijsk è molto più economico che attraverso la Georgia. Azerbaijan potrebbe agire come fornitore per il South Stream, in completamento della costruzione, nel quadro del progetto.

La posizione del Turkmenistan, presumibilmente il principale fornitore del Nabucco, contribuisce a peggiorare  le prospettive del progetto. L’ambasciatore turkmeno in Russia, Khalnagar Agakhanov, ha detto in un’intervista a Nezavisimaya Gazeta, che Ashgabat, nonostante la strategia di diversificazione delle vie di esportazione del paese, al momento ha delle controversie con l’Azerbaigian riguardo un certo numero di giacimenti petroliferi e gasiferi off-shore, sul Mar Caspio, che inibiscono la costruzione di un gasdotto attraverso il fondale del Mar Caspio.

I commentatori occidentali dicono che a causa della mancanza di precedenti, le probabilità che l’arbitrato internazionale, invitato dal Turkmenistan per aiuterlo a risolvere le controversie in materia, siano piuttosto scarse. Allo stesso tempo, Khalnagar Agakhanov, per esempio, non vede seri ostacoli nel costruire il gasdotto lungo la riva del Mar Caspio, che si estenderebbe verso la Russia attraverso il Kazakistan.

Nel complesso, vi è l’impressione che, dato lo slancio raccolto dalle iniziative della leadership russa nei gasdotti nel sud, South Stream probabilmente sarà costruita prima non solo di North Stream, ma anche di Nabucco, che dovrebbe diventare operativo nel 2014.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Antonio Grego, Figlie della stessa lupa

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Antonio Grego,

Figlie della stessa lupa.
Storia dei rapporti tra Italia e Romania alla vigilia della seconda guerra mondiale

Prefazione di Claudio Mutti


Fuoco Edizioni
, 2009, Roma

Pagine 100, Formato 14cm x 20,5cm, ISBN 9-788890-375286, EURO 14,00

Il libro

I legami storici, politici e culturali esistenti tra Italia e Romania sono molto più complessi e importanti di quanto non appaia ad uno sguardo superficiale. Fin dal conseguimento dell’unità delle due Nazioni, si sottolinea in questo saggio di Antonio Grego, avvenuto quasi in contemporanea, queste hanno intrattenuto relazioni cordiali e scambi commerciali proficui.

Non molti sono al corrente che la Romania è stata un’area di sbocco per l’emigrazione italiana, proveniente in particolare dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia, trasferitasi, a partire dalla fine dell’Ottocento in Romania per lavorare nelle miniere, sui cantieri delle ferrovie o nell’edilizia.

La Romania, grazie alla posizione geo-strategica nell’area balcanica e alla buona dotazione di materie prime è un Paese appetibile per l’imprenditoria italiana che si avvantaggia anche della relativa stabilità politica e del potenziale mercato interno piuttosto ampio. Le particolari condizioni geopolitiche nelle quali si inquadrano i rapporti tra Romania ed Italia, la prossimità geografica, le consolidate relazioni culturali ed economiche, la recente adesione della Romania all’Unione Europea possono costituire l’occasione per rinsaldare il sentimento di appartenenza alla medesima matrice linguistica e culturale, come con alterni successi, provò a fare il regime fascista alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

L’Autore

Grego, Antonio, dottore in Scienze politiche. Alcuni suoi saggi sono usciti in Eurasia. Rivista di studi geopolitici, tra cui: L’immigrazione romena in Italia e reti transnazionali europee (nr. 4/2006, pp. 101-114).

Per ordinare il libro inviare a:

ordini@fuoco-edizioni.it

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Pristina. Bill Clinton e il culto della personalità

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Una statua di Bill Clinton, ex presidente degli Stati Uniti dell’America, è stata inaugurata da lui stesso a Pristina nella provincia serba del Kosovo e Metochia occupata dalla NATO.

Inaugurare un monumento ad una persona viva sa di macabro ma Clinton si è prestato al gioco ed ha inaugurato un monumento a se stesso. La statua tipica del social-realismo dei tempi di marxismo-leninismo di Enver Hoxa rappresenta l’ex presidente americano che saluta gli schipetari con una mano (a dir il vero ricorda un po’ il Duce) tenendo nell’altra  il documento con il quale, durante i bombardamenti della Serbia da parte della NATO, aveva autorizzato, il 24 maggio 1999, l’entrata delle forze d’occupazione statunitensi  nella provincia serba.

Fu tanto commosso il nostro eroe da cogliere l’occasione per dire queste sagge parole alla folla albanese nella piazza Bill Clinton di Pristina (ci sono ancora una via e un viale con il suo nome mentre la via principale porta il nome di George Bush): “Stamattina mentre parlavo con mia moglie che si trova nel Vicino Oriente e che vi saluta, lei mi disse di farmi fare una foto e di inviargliela perché possa vedere con i propri occhi che la mia statua esiste veramente”.

Poi le sue parole storiche con le quali consigliò gli albanesi e i serbi di dimenticare il passato suonarono ciniche nelle orecchie dei serbi ai quali questo nuovo eroe albanese aveva strappato con forza il 15% del territorio storico, una Firenze serba, e molto ricco di minerali rari e di energie.

Clinton ha finito il suo discorso dicendo: “Se c’è ancora qualche cosa che posso fare per voi albanesi, serbi ed altri, contate su di me…!” Per quanto riguarda i serbi sanno quello che Clinton aveva già fatto per loro e gliene ringraziano tanto, ma non accetteranno altri doni di Bill, avendone avuti già troppi: 51.000 proiettili all’uranio impoverito, migliaia di missili cruiser, centinaia di migliaia di bombe a grappoli… tutti i frutti vietati dalle convenzioni internazionali per il loro effetto antiumano, una continua politica americana di pressioni e di ricatti contro i serbi che ebbe inizio ancora nel lontano 1991 e che non cessa ancora…

Gli albanesi hanno ora i due monumenti dedicati ai loro eroi nazionali più grandi della loro storia: quello di Tirana dedicato a Skanderbeg, cioè a Djuradj Kastriotic, un serbo, e questo a Pristina innalzato ad un americano.

Ci auguriamo che almeno un loro terzo eroe nazionale al quale faranno un monumento possa essere finalmente un albanese.

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Perché l’Europa ha bisogno della Turchia?

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Accanto a quella che può essere considerata la più grande delle potenze euroasiatiche, la Russia, bisogna affiancare la più piccola ma altrettanto importante Turchia, uno Stato che si estende appunto sia in Europa che in Asia, almeno se si assume la nozione geografica corrente un po’ limitativa, che fa terminare l’Europa sul Bosforo anziché al Caucaso.

Guardando alla sua storia e alla sua posizione geopolitica, la Turchia possiede diverse opzioni strategiche tra le quali, però, dovrà scegliere quella più confacente ai propri interessi contemporanei: panturanismo, Islam, Europa.

Non bisogna dimenticare che, dal punto di vista culturale,  l’ex Impero Ottomano si è caratterizzato per un marcato carattere di “romanità” fin dalla conquista di Costantinopoli, al punto che lo storico romeno Nicolae Iorga lo definì “ultima ipostasi di Roma”.

Da un punto di vista geopolitico, peraltro, l’attuale costruzione europea non potrebbe costituire un’unità completa senza la Turchia, perché rimarrebbe priva del contrafforte sudorientale e con scarso peso militare nel Mediterraneo.

Così amputata, l’Unione Europea continuerebbe ad essere la testa di ponte per la conquista statunitense dell’Eurasia (come ben descritto da Zbigniew Brezinski nella “Grande scacchiera”).

Inoltre, rimanendo fuori dall’Europa, la Turchia potrebbe continuare ad essere utilizzata dagli Stati Uniti quale serio fattore di destabilizzazione del Vecchio Continente, mantenendo alta la tensione nei Balcani (specie in Kosovo-Metohija e in Bosnia Erzegovina) e ostacolando l’integrazione europea dei paesi dell’area (Serbia, Croazia, Albania, Macedonia).

Questo scenario è peraltro probabile se dovessero prevalere le posizioni degli “islamofobi”, capeggiati dalle associazione vaticaniste o lepantiste e dalle lobbies tipo “Francia-Israele”.

Un altro scenario favorevole agli interessi nordamericani prevede che la Turchia entri sì nell’Unione Europea ma per rafforzarvi il partito atlantico, già largamente rappresentato da Gran Bretagna, Polonia, Ungheria ecc. e per sabotare le possibili linee di emancipazione prefigurate dall’asse Roma, Madrid, Parigi, Berlino, in collaborazione con Mosca.

Rafforzando le teorie turcofobe e islamofobe di alcuni Paesi, cioè, si vorrebbe scavare un fossato geopolitico tra l’Europa e le nazioni musulmane che si affacciano sul Mediterraneo, preparando inoltre un possibile ingresso di Israele nell’Unione Europea.

Il terzo scenario, altamente auspicabile, è quello che vede lo spostamento del baricentro politico europeo sull’asse Italia-Spagna-Francia-Germania, con lo slittamento della Turchia da una posizione filo atlantica ad una posizione continentale.

Con l’ingresso di Ankara, l’Unione Europea acquisirebbe, al di fuori della NATO, il controllo degli Stretti e l’opportunità di far valere le proprie esigenze circa le risorse energetiche, così come aumenterebbero le possibilità di comporre pacificamente questioni irrisolte quali quella cipriota e quella balcanica.

Da questo punto di vista, la recente decisione turca di entrare a far parte del progetto energetico South Stream, patrocinato da Mosca, costituisce una svolta notevole.

La Turchia, infatti, rappresentava uno dei rari punti di forza del gasdotto voluto da Washington, il Nabucco, la cui intenzione sarebbe quella di portare il gas naturale del Mar Caspio in Europa facendo a meno della Russia.

Le decise pressioni economiche-diplomatiche di Vladimir Putin, che si è avvalso in questa circostanza della mediazione dell’italiano Silvio Berlusconi, hanno portato il 6 agosto scorso alla firma che permetterà al gasdotto russo South Stream di passare dalla Turchia, permettendo così all’Europa di ricevere gli approvvigionamenti energetici attraverso un percorso molto più razionale ed economico.

Non solo, la firma turca (che è seguita in ordine temporale a quella dell’Italia) ha agevolato il notevole interessamento dimostrato recentemente da Francia e Austria per il progetto del South Stream e ha messo ulteriormente in crisi il disegno statunitense.

L’avvicinamento con la Russia ha consentito anche l’improvviso riallacciamento delle relazioni diplomatiche e la riapertura delle frontiere tra Armenia (tradizionale alleato della Russia) e Turchia, a lungo divise da rivalità storiche e geopolitiche (persecuzione degli Armeni tra il 1915 e il 1918, voluta però soprattutto dai “dunmeh” e questione del Nagorno Karabakh, con appoggio turco all’Azerbaigian).

Due sono allora le condizioni affinché il cammino europeo della Turchia possa proseguire senza troppi ostacoli: l’attenuazione dei sentimenti turcofobi ed islamofobi in Europa, il rafforzamento interno dello schieramento politico capeggiato dall’attuale premier turco Racep Tayyip Erdogan, stanco dei ricatti provenienti dagli ambienti kemalisti e deciso a completare l’integrazione eurasiatica di Ankara.

Vernole, Stefano: redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”, dottore in Storia contemporanea. Ha pubblicato:
La lotta per il Kosovo”, Edizioni all’insegna del Veltro;

La questione serba e la crisid el Kosovo, Noctua

Contributi pubblicati in Eurasia: Palestina: una diplomazia tra speranze e illusioni (nr. 1/2005, pp. 179-200), La “spina” tibetana (nr. 1/2006, pp. 165-175), L’Armata Popolare cinese: un nuovo modello di esercito (nr. 3/2006, pp. 91-95), La terza guerra fredda (nr. 2/2007, pp. 133-142), La globalizzazione e la risoluzione dei conflitti (nr. 1/2008, pp. 241-260)

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Daniel Pipes: “La Turchia non è più un alleato”

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Lasciamo la parola a Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum – il potente think tank sorto per “promuovere gli interessi americani in Medio Oriente” – nonché membro della Task Force in materia di terrorismo e tecnologia al Dipartimento della Difesa USA e “specialista in Islam e musulmani, come sanno anche i miei critici”, secondo una sua orgogliosa affermazione già pubblicizzata nell’anno 2000.

Dell’8 aprile di quest’anno era Does Turkey still belong in NATO ?, articolo apparso su “Liberal” nel quale Pipes sanzionava :

L’islamismo non costituisce il solo problema con la Turchia. In quella che sta assumendo i contorni di una Guerra Fredda mediorientale – con l’Iran alla testa di una fazione e l’Arabia Saudita che guida l’altra – Ankara si è ripetutamente schierata con la prima: ospitando Mahmoud Ahmadinejad, sostenendo il programma nucleare iraniano, sviluppando un campo petrolifero iraniano, trasferendo armi iraniane ad Hezbollah, appoggiando apertamente Hamas, condannando crudelmente Israele, mettendo contro gli Stati Uniti l’opinione pubblica turca. Osservando questi cambiamenti la columnist Caroline Glick esorta Washington a ‘lanciare l’idea di rimuovere la Turchia dalla NATO’. L’amministrazione Obama non ha intenzione di farlo; ma, prima che Ankara renda inefficace l’Alleanza atlantica, degli imparziali osservatori dovrebbero attentamente ponderare questo argomento”.

Pochi giorni fa (il 28 ottobre, sempre dalle colonne di “Liberal”) il nostro specialista ha lanciato un nuovo e più pesante anatema : Turkey: An Ally No More (La Turchia non è più un alleato), articolo in cui si esprime come sempre con grande chiarezza :

“’Non c’è dubbio che sia un nostro amico’, dice il premier turco Recep Tayyıp Erdoğan, quando parla del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, perfino quando quest’ultimo accusa il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman di minacciare l’uso delle armi nucleari contro Gaza. Queste irritanti asserzioni denotano un profondo cambiamento di rotta da parte del governo turco – da sessant’anni il più stretto alleato musulmano dell’Occidente – da quando il partito AK di Erdoğan è arrivato al potere nel 2002”.

Pipes, che è attento osservatore di ogni sussulto di indipendenza nel mondo islamico, cita i più recenti sintomi di tale cambiamento di rotta: l’annullamento dell’esercitazione militare congiunta turco-israeliana “Aquila anatolica”, l’effettuazione invece di manovre congiunte turco-siriane e l’istituzione di un Consiglio di cooperazione strategica di alto livello fra Siria e Turchia.

Tutto ciò, denuncia Pipes, rientra nella strategia caldeggiata dal ministro degli Esteri turco Davutoğlu: “In breve, Davutoğlu immagina un conflitto ridotto con i Paesi vicini e una Turchia che emerge come potenza regionale, una sorta di Impero ottomano modernizzato. Implicito in questa strategia è un allontanamento di Ankara dall’Occidente in generale e da Israele in particolare”.

Il direttore del Middle East Forum al termine del suo nuovo messaggio pare voler richiamare all’ordine l’Amministrazione Obama: “Ambienti ufficiali in Occidente sembrano quasi ignari di questo importantissimo cambiamento nella fedeltà della Turchia o delle sue implicazioni. Il prezzo del loro errore presto diventerà palese. Perché la Turchia non è più un alleato”.

Turchia fuori dalla NATO, dunque, magari come nuovo “Stato canaglia”? Se lo dice e lo chiede uno specialista come Daniel Pipes, ci speriamo anche noi …

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A vent’anni dalla caduta del Muro, Claudio Mutti parla al GR3 dei rapporti tra Russia e Europa Orientale

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Claudio Mutti, redattore di “Eurasia”, è stato intervistato dal Giornale Radio Rai 3 sui rapporti tra la Russia e gli Stati dell’Europa Orientale a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino.
L’intervista, andata in onda nell’edizione delle 8.45 dell’11 novembre, può essere ascoltata cliccando qui (dal minuto 7.25 al minuto 9.30)

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Convegno di studi. Vent’anni dopo – 1989 – 2009

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Convegno di studi: Venti anni dopo (1989 – 2009)

Data
giovedì 3 dicembre (tutto il giorno)
venerdì 4 dicembre (la mattina).

Sede: Aula Magna del Rettorato dell’Università di Modena e Reggio Emilia

Promotori: Istituto Storico di Modena, Dipartimento di scienze del linguaggio e della cultura, con il patrocinio della Facoltà di lettere e filosofia.
Il Convegno prevede inoltre il patrocinio e il contributo della Regione Emilia Romagna e il contributo della Fondazione CRM, che sarà destinato all’Istituto Storico quale Ente primo promotore dell’iniziativa, con il quale il Dipartimento ha già attivato collaborazioni di carattere scientifico.

Il convegno, che vuole essere anche uno stimolo a un lavoro nel medio-lungo periodo di approfondimento e di sensibilizzazione culturale sul rapporto UE / Altra Europa / Russia, si propone di fornire una messa a punto su alcuni concetti, rappresentazioni, costruzioni ideologiche che sono stati posti in discussione dagli eventi del 1989, nonché sulle ricadute e reazioni che quegli eventi hanno prodotto. Il centro dell’attenzione, sia per il quadro generale che per alcuni casi specifici, non è tanto il 1989, ma i suoi effetti e i 20 anni che sono venuti dopo: questo ci sembra il modo migliore non solo di ricordare o celebrare, ma di riflettere su una data decisiva e periodizzante nella storia contemporanea.

L’iniziativa risponde anche a finalità didattiche e di sensibilizzazione rivolte a un’udienza più ampia di quella del convegno, prevedendo anche la possibilità di una presentazione multimediale delle immagini e delle suggestioni legate alla data (proiezione di film e documentari, mostra fotografica, letture di testi, ascolto di documenti sonori).

L’articolazione del convegno è prevista in tre sezioni di lavoro, con interventi di importanti studiosi nazionali e internazionali, ma anche di alcuni giovani neo-laureati nelle lauree magistrali di Lettere e filosofia che hanno condotto interessanti lavori di ricerca sui temi che saranno dibattuti.

Programma dei lavori

Saluti (Regione Emilia Romagna, Facoltà di Lettere e Filosofia, ecc.) e Introduzione ai lavori del convegno.

Giovedì 3 dicembre
Prima sezione: presiede Giuliano Albarani (Presidente dell’Istituto storico di Modena)
Il 1989 nella storia e nella memoria europea e la riflessione storiografica dopo il 1989.

Fabio Bettanin (Università di Napoli “L’Orientale”), I costi dell’impero nel dibattito sulla fine dell’Unione Sovietica
Stefano Bottoni (Università di Bologna), Traiettorie del cambiamento. Il 1989 in Ungheria e Romania nel recente dibattito storico.
Guido Franzinetti (Università del Piemonte Orientale), L’eccezione e la norma: la rivoluzione albanese del 1991-92 in una prospettiva esteuropea
Mila Orlić (Università di Rijeka), Storiografie e minoranze nazionali nella ex Jugoslavia.
Elisa Zini, Il risveglio della coscienza storica nella Polonia di Solidarność
Aron Coceancig, Il 1989 ungherese nelle cucine, negli spazi di socialità, nella memoria collettiva.

Discussione

Seconda sezione: presiede Lorenzo Bertucelli (Università di Modena e Reggio Emilia)
Società, nazioni, nazionalismi dopo il “socialismo reale”.

André Liebich (Institut de hautes études internationales et du développement, Genève), Questioni nazionali e nazionalismi dopo il 1989.
Aleksandr Tarasov (Centro Feniks di Mosca), Le nuove generazioni in Russia nelle epoche di Gorbačev, di El’cyn, di Putin: tre diverse tappe.
Paolo Guido Spinelli (già ambasciatore italiano a Budapest), Mentalità e movimenti di opinione nella nuova Ungheria.
Stefano Vernole, Il caso Kosovo.

Discussione

Venerdì 4 dicembre
Terza sezione: presiede Augusto Carli (Direttore del Dipartimento di Scienze del linguaggio e della cultura)
Le Europe e la Russia: politica, economia, eredità culturali.

Giampaolo Caselli (Università di Modena e Reggio Emilia), Le ragioni, gli interessi, gli stereotipi nel rapporto tra Russia e Unione Europea.
Paolo Calzini (Professore emerito di Storia delle relazioni internazionali), Russia e Unione Europea: problemi e prospettive dell’allargamento a Est.
Pierpaolo Seriacopi, Fasi ed esperienze delle privatizzazioni in Russia.
Gabriele Pastrello (Università di Trieste), La fortezza dei tartari europea: considerazioni metaeconomiche sulla Polonia.
Andrea Panaccione (Università di Modena e Reggio Emilia), L’idea del ritorno in Europa.

Discussione

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Santa Sede e potere politico nell’Europa Centro-Orientale tra le due guerre mondiali

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Santa Sede e potere politico nell’Europa Centro-Orientale tra le due guerre mondiali (1918-1939)

La questione dei cattolici nella repubblica Cecoslovacca e nel regno di Jugoslavia

Venerdì 27 novembre 2009

Università Europea di Roma (Aula Magna)

Convegno organizzato dal Corso di Laurea in Scienze Storiche dell’Università Europea di Roma e dalla Facoltà di Teologia Romano-Cattolica dei Santi Cirillo e Metodio dell´Università Comenius di Bratislava nell’ambito della settimana culturale della Filosofia e della Storia promossa dal Vicariato di Roma.

Il programma completo del Convegno e le informazioni logistiche

sono reperibili anche sul sito www.unier.it

h. 9,00

SALUTI INTRODUTTIVI

P. Paolo Scarafoni, LC

(Magnifico Rettore dell’Università Europea di Roma)

S.E. Mons. Stanislav Zvolensky´

(Gran Cancelliere della Facoltà di Teologia Romano-Cattolica dei

Santi Cirillo e Metodio dell´Università Comenius, Bratislava)

h. 10,00-11,00

PRIMA SESSIONE – PARTE GENERALE

L’Europa Centro-orientale dopo i trattati di Parigi

Roberto de Mattei (Università Europea di Roma)

La Santa Sede e l’Europa Centro-Orientale tra le due guerre mondiali

Roberto Morozzo della Rocca (Università degli Studi Roma Tre)

h. 11.30-13.00

SECONDA SESSIONE – LA REPUBBLICA CECOSLOVACCA

Moderatore: S.E. Mons. Cyril Vasil’ (Segretario della Congregazione

per le Chiese Orientali, Città del Vaticano)

La Santa Sede, il governo Cecoslovacco e la questione degli slovacchi

Emilia Hrabovec (Università Comenius, Bratislava)

Il Kulturkampf in Cecoslovacchia durante il pontificato di Pio XI

L´uboslav Hromják (Università Cattolica, Spis˘ské Podhradie)

La prospettiva italiana su cechi e slovacchi nella prima metà del Novecento

Francesca Romana Lenzi (Università Europea di Roma)

h. 14,30-16,30

TERZA SESSIONE – IL REGNO DI JUGOSLAVIA

Moderatore: Mons. Jure Bogdan

(Rettore del Pontificio Collegio Croato di S. Girolamo, Roma)

Prospettive della Chiesa cattolica nell’area croata del regno di Jugoslavia

Jure Kris˘to (Hrvatski Povijesni Institut, Zagabria)

Belgrade and the Vatican. Church policy in Yugoslavia 1918-1939

Katrin Boeckh (Ludwig-Maximilians-Universität, Monaco di Baviera /

Osteuropa-Institut, Regensburg)

I rapporti diplomatici tra la Santa Sede e il regno di Jugoslavia durante

il pontificato di Pio XI

Massimiliano Valente (Università Europea di Roma)

Il “cattolicesimo politico” nel pensiero dei principali intellettuali

cattolici croati

Marko Trogrlic´ (Università di Spalato)

h. 16,30-17,30

TAVOLA ROTONDA

Slavko Kovac˘ic´ (Università di Spalato)

Massimo de Leonardis

(Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)

Francesco Perfetti

(Libera Università degli Studi Sociali – LUISS “Guido Carli”, Roma)

Matteo Luigi Napolitano

(Università degli Studi del Molise)

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Conferenza IsIAO. La missione linguistica ed etnografica tra i Saho dell’Eritrea

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Giovedì 19 novembre, alle ore 16,30, presso la sala conferenze dell’IsIAO, avrà luogo la conferenza di Giorgio Banti (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e IsIAO), Gianni Dore (Università “Ca’ Foscari” di Venezia e IsIAO) e Moreno Vergari (Associazione “Ethnorêma” e IsIAO) sul tema:

La missione linguistica ed etnografica tra i Saho dell’Eritrea

Per un Atlante della cultura materiale tradizionale dei Saho

Via Ulisse Aldrovandi, 16/A – Roma

Sala conferenze dell’IsIAO

tel. 06.32855234
www.isiao.it

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Stefano Vernole sull’Afghanistan e i pagamenti ai Talebani

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Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, il 28 ottobre 2009 è stato intervistato da “Radio Italia“, emissione italiana dell’Islamic Republic International Broadcasting, a proposito dei presunti pagamenti italiani ai Talebani. Di seguito la trascrizione integrale dell’intervista:

Come prima domanda Le vorrei chiedere: il quotidiano britannico come è venuto a sapere di questo pagamento “clandestino”?

– Ovviamente si tratta di una classica imbeccata dei servizi segreti britannici, i quali in un momento in cui la stampa anglosassone (anche statunitense) sta cercando di mettere in difficoltà il governo Berlusconi per gli accordi enegetici che l’Italia sta stringendo con la Russia e che rischiano davvero di dare una svolta agli equilibri strategici dell’ Europa, mettendo quindi in difficoltà tutto il dispositivo di accerchiamento attraverso la Nato che gli Stati Uniti avevano posto in essere dopo la caduta del muro di Berlino, arrivano a dare questa imbeccata – perché qua ovviamente, senza conferma ufficiale, nessuno può dire se questo episodio è accaduto davvero; in ogni caso esso s’ inserisce in questo contesto che quotidianamente cerca di mettere in difficoltà il governo Berlusconi, probabilmente anche il Ministro dell’economia Tremonti, che su alcuni temi, specie nella critica delle banche e delle grandi istituzioni internazionali, non è certo più un uomo particolarmente gradito agli ambienti che ho descritto.

Come anche Lei ha detto questa notizia non è ancora confermata, però secondo Lei le forze militari italiane cosa hanno chiesto in cambio dai talebani?

– In pratica hanno chiesto una sorta di neutralità, nel senso che l’Italia mantiene i suoi contigenti in Afganistan senza disturbare troppo la guerriglia talebana e in cambio cerca di evitare che i talebani lancino degli attacchi nei confronti dei contingenti italiani. Ricordiamoci che l’Italia è in Afganistan soprattutto per motivi di dovere nei confronti dell’alleanza atlantica, non certo perché l’Italia abbia interesse a condurre una guerra sul suolo afgano dove non ha obiettivi né strategici né economici particolari, non ha interesse certamente ad inimicarsi la popolazione afgana che abbiamo visto come sostanzialmente negli ultimi anni abbia appoggiato anche in parte la guerriglia, ciò è probabilmente dovuto non tanto alla simpatia nei confronti dei talebani quanto per la gestione assolutamente fallimentare che la coalizione occidentale ha posto in essere dopo l’invasione del 2001. Ricordiamo che peraltro gli obiettivi di questa coalizione
sono sostanzialmente falliti. Non sono riusciti a pacificare il paese, non sono riusciti a catturare il famoso Bin Laden e soprattutto dal punto di vista economico abbiamo visto questa crescita esponenziale dell’esportazione di oppio che viene poi trasformato in eroina e gran parte della droga che oggi investe l’Europa e la Russia in maniera davvero spaventosa. E questa è una delle conseguenze peggiori dell’occupazione dell Afganistan, anche se ovviamente si tratta di una conseguenza che farà molto piacere a chi con il riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di droga ci campa.

E poi ancora come ultima domanda, dottore, secondo Lei le smentite del governo italiano sono credibili?

– Su questo ovviamente nessuno ha la certezza. Chiaramente l’Italia deve smentire per motivi di
carattere, diciamo così, istituzionale. Non si può certamente ammettere di condurre delle trattative parallelle con coloro che dovrebbero essere i nostri avversari. Sicuramente tutti i paesi conducono la propria politica attraverso i servizi segreti e questo lo fa anche l’Italia e certo dal punto di vista diplomatico non ci sono alternative. Quanto poi può essere credibilie questa smentita ovviamente è una questione che rimane in sospeso. Certamente nessuno ha la certezza di quello che è avvenuto.

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Due decenni di speranze e illusioni sulle rovine del Muro di Berlino

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Fonte: FONDSK – Strategic Culture Foundation

Il Presidente russo D. Medvedev visiterà la Germania su invito di A. Merkel il 9 novembre per assistere alle celebrazioni internazionali del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Alla presenza dei leader dell’epoca della Guerra Fredda i politici della nuova era dimostreranno sfarzosamente che non esistono più linee di divisione in Europa.

Il Muro costruito inizialmente in via provvisoria nel 1961 per ordine della nomenclatura della RDT lungo il confine fra i settori occidentale ed orientale di Berlino tagliò completamente le comunicazioni fra le due parti della città divisa dagli Alleati nel 1948. Divenne forse l’immagine più significativa dei tempi della cortina di ferro contraddistinti da una contrapposizione fra due mondi, ognuno dei quali sosteneva un modo di vivere suo proprio.

Il Muro di Berlino resistette per oltre 26 anni. Quasi altrettanto tempo è trascorso dalla sua caduta e dalla conseguente fine della cortina di ferro. Enormi cambiamenti geopolitici – la prima variazione di confini dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’unificazione della Germania e la disintegrazione dell’URSS e di alcuni altri Paesi – si sono complessivamente attuati in un periodo di circa 18 mesi. Regimi liberali sono fioriti nella maggioranza dei Paesi dell’Europa dell’Est e tale sviluppo ha reso possibile la formazione di un sistema internazionale completamente nuovo.

La caduta del Muro di Berlino significò l’alba di una nuova epoca in cui non c’era posto per molte delle vecchie barriere. Due decenni fa, Berlino, la Germania e sostanzialmente il mondo intero festeggiarono in anticipo la fine della Guerra Fredda. M. Rostropovich suonava presso il muro e 118 artisti da varie parti del mondo lo dipingevano con graffiti, trasformando così una parte di esso in una galleria d’arte all’aria aperta. Uno spicchio dei graffiti raffigurante il vecchio L. Brezhnev ed E. Honecker che si baciano divenne famoso in tutto il mondo come un simbolo del passato che era stato irreversibilmente lasciato alle spalle.

L’immagine d’insieme, comunque, non appare così serenamente ottimistica due decenni dopo l’evento. Evento che divenne il prologo della violazione dell’equilibrio globale di forze e della più grande catastrofe geopolitica del XX secolo – il collasso dell’Unione Sovietica e del mondo bipolare. Il venir meno di uno dei suoi pilastri rese il mondo instabile.

La fine del Muro di Berlino alimentò non solo grandi speranza, ma anche grandi illusioni. La definizione della responsabilità storica per la divisione d’Europa in blocchi fu ingiustamente stabilita a priori. Da quando si decise che l’URSS era la parte colpevole (e non furono avanzate obiezioni all’idea da parte della nomenclatura sovietica), ci si aspettava che fosse Mosca a fare concessioni. In maniera non sorprendente, tale approccio pregiudizievole si tradusse nel miglioramento per alcune nazioni ampiamente a spese di altre. Per la Russia l’unificazione tedesca, lo stabilirsi di regimi democratici in Europa orientale attraverso rivoluzioni di velluto, e “il nuovo pensiero” tradotto nella perdita delle sue postazioni geopolitiche, un precipitoso ritiro delle sue forze, la perdita mai risarcita di strutture dal valore di miliardi di dollari in Germania, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia e l’escalation di tensioni sociali nella vita interna.

L’Occidente – come in molti altri casi – fece ricorso a politiche contraddittorie, la colpa che tradizionalmente imputava all’URSS. Gli USA, Gran Bretagna, Germania e la NATO promisero un sacco di volte che nessuna espansione della NATO avrebbe seguito la dissoluzione del blocco orientale. Nella sua intervista dell’aprile 2009 a Bild l’ex Presidente sovietico M. Gorbachev dichiarò che la Germania aveva mantenuto tutte le promesse fatte alla Russia ma ciò nondimeno ammise che – nonostante H. Kohl, il Segretario di Stato statunitense J. Baker ed altri gli avessero assicurato che la NATO non si sarebbe mai espansa ad est – gli USA non mantennero la promessa e la Germania dimostrò indifferenza forse sentendosi felice del fatto che i Russi fossero stati truffati.

In violazione degli accordi (che non erano mai stati messi per iscritto) la NATO cominciò ad aumentare i suoi membri e rinforzò il suo potenziale militare integrando paesi dell’Europa dell’est, comprese le repubbliche ex sovietiche. I suoi sforzi per realizzare la superiorità in quanto a tecnologia ed armamenti nei confronti del suo vecchio rivale e per avvicinarsi ai confini della Russia stanno minando la fiducia nelle relazioni internazionali. Mentre i confini vengono cancellati nell’UE, il processo è affiancato dalla creazione di una nuova barriera lungo la frontiera occidentale russa.

Perfino M. Gorbachev, un politico che ha capitalizzato molto grazie al “nuovo pensiero”, dice: «L’Europa non affronta alcuna minaccia di nuovi muri vent’anni dopo la demolizione del Muro di Berlino, ma vi sono ancora linee divisorie al suo interno». Stranamente, egli non si sente responsabile del risultato, mentre l’attuale leadership russa deve capire che c’è bisogno di un severo realismo nel rapportarsi coi suoi partner.

In definitiva due conclusioni discendono dall’esperienza dei due decenni trascorsi.

Innanzitutto, i leader russi non dovrebbero essere tanto noncuranti nel valutare l’attendibilità dei partner con cui interagiscono, quanto la nomenclatura sovietica era solita fare nell’epoca del crepuscolo del Paese. In politica è impossibile basarsi su parole o buona volontà e le amicizie personali con leader degli altri Paesi non estinguono la necessità di promuovere i propri interessi.

Secondo, la sicurezza internazionale non si tocca. Di recente, il tema era stato più volte sollevato dal Presidente russo. Questi ha detto all’Assemblea Generale dell’ONU: «Noi tutti speriamo che la Guerra Fredda faccia ormai parte del passato, ma il mondo di oggi non è diventato più sicuro di quanto fosse prima. Ciò di cui abbiamo attualmente bisogno non sono dichiarazioni e demagogia, bensì soluzioni moderne e strutture ben definite per gli accordi politici già esistenti, compresi quelli riguardanti il principio del diritto internazionale di non consolidare le propria sicurezza a spese di quella altrui».

I due decenni dalla caduta del Muro di Berlino hanno mostrato chiaramente che tutti i tentativi di conseguire la sicurezza a spese di altri portano a riacutizzare vecchi conflitti. La tentazione di costruire nuovi muri è foraggiata da numerosi di questi tentativi.

(traduzione a cura di Lorenzo Salimbeni)

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La caduta del muro ha provocato le guerre civili nella Jugoslavia

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Repubblica Serba di Krajina GOVERNO IN ESILIO
11.080 Земун, Магистратски трг 3  тел. 3077-028, vladarsk@gmail.com,

Numero. 1115/09 – 9. 11. 2009.
La caduta del muro ha provocato le guerre civili nella Jugoslavia

Il governo della Repubblica Serba di Krajina in esilio è onorato di accogliere i rappresentanti diplomatici e consolari della Repubblica di Serbia e di ricordare loro le 35 note – con le menzogne che sono state diffuse nei paesi dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti riguardo ai Serbi ed ai territori serbi. Il governo della Repubblica Serba di Krajina osserva che in questo tipo di note – dal 28 Giugno 2007, a partire dalla Nota 432/07, che continua tutt’oggi, perché la NATO e l’UE, assieme al Vaticano, continuano ad essere disonorevoli riguardo ai serbi ortodossi. Questa politica è contraria alle norme delle Nazioni Unite in materia di diritti civili. Il governo di Krajina segnala ai rappresentanti diplomatici consolari della Repubblica di Serbia, che il 20° anniversario del crollo del muro di Berlino [1989] e la riunificazione dei territori di lingua tedesca, che è stato celebrato come una vittoria della democrazia e fine della guerra fredda. Questo non è vero. Ai leader politici, agli intellettuali e ai giornalisti deve essere ribadito che l’unificazione della Germania fu uno dei principali fattori che ha contribuito all’escalation della guerra civile in Jugoslavia, dal 1991 al 1995, e ha causato la campagna terroristica della NATO  contro la Serbia e il Montenegro, nel 1999.

Il ministro degli affari esteri tedesco, Hans Dietrich Genscher, è stato uno dei maggiori promotori della disgregazione della federazione jugoslava. Ha trattato [per conto degli Stati Uniti e del Vaticano] con le nazioni della Comunità europea, costringendole a partecipare attivamente, a fianco della Germania, all’organizzazione e all’armamento delle forze separatiste di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo.

La disintegrazione della Jugoslavia è stato un crimine che ha portato al genocidio e alla pulizia etnica dei serbi cristiano-ortodossi. Le forze separatiste croate, istigate dal, e con il sostegno di, Germania, Stati Uniti e Comunità europea, hanno iniziato ad espellere i serbi dalle città croate. Ciò ha portato (nel 1995) alla messa al bando definitiva della comunità serba dal territorio serbo della Repubblica Serba di Krajina, che era una zona protetta delle Nazioni Unite.

L’esercito della Repubblica di Croazia espulse tra 500.000 e 800.000 serbi. La proprietà privata serba finì nelle mani del governo croato e dei membri della nazione croata. Questo non è democratico ed è seriamente contrario alle leggi internazionali in materia di proprietà privata.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina chiede ai rappresentanti diplomatici consolari della Repubblica di Serbia di notificare alle loro istituzioni che la sottrazione della proprietà serba deve essere confrontata con il destino delle proprietà ebraiche durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il partito nazional-socialista del Adolf Hitler governava la Germania. Il parallelo tra il destino dei serbi e degli ebrei è stato notato dagli artisti croati, che hanno composto una canzone molto popolare in Croazia, che glorifica la Germania, perché la Germania ha permesso alla Croazia di ottenere la proprietà dei serbi espulsi. Questa canzone si chiama: Thank You Germany o Danke Deutschland.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina ricorda che il crollo del muro di Berlino ha causato cambiamenti terribili. Le forze militari e i poteri tedeschi non potevano essere inviati al di fuori dei confini della Germania [in base alle decisioni prese dagli Alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale]. È un dato di fatto, l’esercito tedesco (in quanto membro della NATO) ha demolito fabbriche, edifici, infrastrutture, ospedali, scuole e parti del settore agricolo serbi nel 1999, quando anche un paio di migliaia di civili serbi [compresi bambini molto piccoli] furono assassinati.

Il governo della Repubblica Serba di Krajina sta approfittando di questa occasione per mostrare il massimo rispetto verso le rappresentanze diplomatiche e consolari della Repubblica di Serbia.

I rappresentanti diplomatico-consolari, Belgrado

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Per Trieste si prospetta un futuro come snodo energetico internazionale

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A Trieste uno dei luoghi comuni più diffusi riguarda gli indubbi tempi d’oro del suo porto, quand’era l’unico sbocco al mare della sezione austriaca dell’Impero asburgico ed ancor oggi la funzione portuale viene vista in molti ambienti come la soluzione migliore per risollevare quest’estremo lembo a nord-est d’Italia dal suo stato di torpore economico ed imprenditoriale. Molte però sono le remore ideologiche e preconcette nel ridefinire lo scalo giuliano piuttosto come appendice a sud-ovest della massa mitteleuropea, regione d’incontro ed alle volte di scontro delle aree latina, germanica e slava. A prescindere dal porto e dalle sue indubbie potenzialità, però, Trieste oggi sembra calarsi in un altro ruolo, che può anche non essere esclusivo, vale a dire quello di snodo delle politiche energetiche internazionali.

Tramontato il progetto di gasdotto che dalla Romania doveva giungere fino al capoluogo giuliano, oggi il retroterra triestino, per lo più sito in Slovenia, sarà invece interessato da South Stream. Il 14 novembre, infatti, il Ministro russo dell’Energia Sergiei Shmatko ed il suo omologo sloveno Matej Lahovnik, alla presenza di Vladimir Putin e del Premier di Lubjana Borut Pahor, hanno sottoscritto a Mosca un accordo per il coinvolgimento della repubblica ex-jugoslava nel progetto frutto della joint-venture Gazprom-Eni. Attraversate Bulgaria, Serbia ed Ungheria, il tracciato proseguirà quindi in Slovenia per poi concludersi a Monfalcone, scalo portuale limitrofo a Trieste per ora noto quasi esclusivamente per la cantieristica navale.

Coincidenza ha voluto che Paolo Scaroni, amministratore delegato Eni, dopo aver affrontato in maniera positiva martedì scorso alcune questioni relative alla cooperazione bilaterale in campo energetico con l’a.d. di Gazprom, Aleksiei Miller, sia stato a Trieste per ricevere il diploma honoris causa da parte del MIB, prestigiosa scuola di management sviluppatasi parallelamente all’ateneo triestino. Nel corso della lectio magistralis intitolata “La lupa e il cane a sei zampe”, Scaroni ha presentato la struttura dell’impero romano come modello ideale per un’azienda, come Eni ad esempio, che abbia intenzione di svilupparsi su scala globale. Davanti ad un ampio e qualificato pubblico del mondo finanziario e manageriale, l’illustre ospite ha evidenziato i cinque punti di forza della struttura imperiale, ancor oggi attualissimi: “standardizzazione e organizzazione, meritocrazia, integrazione, innovazione, comunicazione”.

Conclusa la relazione con un “Hic sunt leones” che voleva ricordare non solo le origini romane di Trieste-Tergeste, ma anche il leone che campeggia nel logo delle Assicurazioni Generali (presenti in prima fila i vertici della società, di cui si vocifera che Scaroni potrebbe assumere la presidenza allo scadere del mandato di Antoine Bernheim nell’aprile prossimo), Scaroni ha risposto a molti quesiti d’ambito prettamente energetico. Si è espresso a favore del progetto di rigassificatore presentato da Gas Natural da realizzarsi in località Zaule, alla periferia di Trieste (Endesa propone invece un impianto marittimo in mezzo al Golfo di Trieste): tale struttura avrebbe la sua ragion d’essere nel fatto che il 70% del gas naturale in Italia viene consumato nelle regioni settentrionali e quindi è nel Nord del Paese che andrebbe realizzato un rigassificatore (progetti alternativi riguardano ad esempio il litorale pugliese, ma anche Veneto e Liguria). La questione a livello locale è ampiamente dibattuta da mesi, ma partendo da considerazioni prettamente ecologiste e di impatto ambientale, senza affrontare un discorso di più ampio respiro concernente la politica energetica nazionale. A tal proposito, Scaroni ha d’altro canto ribadito la necessità di ritornare al nucleare proprio per diversificare le fonti di approvvigionamento ed anche qui ha toccato un tasto dolente del dibattito regionale. Il presidente del Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo, infatti, dopo aver in un primo tempo avvallato la disponibilità della regione ad accogliere impianti nucleari, ha poi ripiegato su una maggiore sinergia con il reattore sloveno ubicato a Krsko e sulla cui funzionalità non mancano però le perplessità, trattandosi di un modello di vecchia generazione.

Proprio dalla Slovenia sono altresì giunte numerose proteste nei confronti dei progetti di rigassificatore da realizzare a Trieste ad un paio di chilometri dal confine, adducendo motivazioni di carattere ambientale che non sono state ridimensionate neppure in seguito ad un vertice interministeriale italo-sloveno recentemente svoltosi a Brdo pri Kranju. Lubiana, invece, si dimostra ben più propensa ad avvallare il progetto di un rigassificatore a Castelmuschio sull’isola di Veglia, vale a dire in territorio croato e su progetto di un altro colosso energetico russo, cioè Lukoil. Lubiana che fra l’altro continua a porre il veto sull’adesione di Zagabria all’UE per una questione di confini marittimi e che al momento di assumere la presidenza di turno dell’UE nel primo semestre 2008 è stata al centro di uno scandalo: era, infatti, emerso che l’ambasciatore sloveno a Washington aveva ricevuto da ambienti diplomatici statunitensi precise istruzioni sulla politica da adottare a livello europeo e, nonostante le smentite, la Slovenia ha dimostrato coi fatti la sudditanza a certe indicazioni di matrice atlantista, specialmente riguardo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.

Insomma, Trieste ed il suo hinterland nei prossimi anni si troveranno al centro della politica energetica europea e se da parte italiana grazie all’opera dell’Eni avvallata recentemente dalle scelte in politica estera di Silvio Berlusconi sembra esserci una chiara visione delle cose, sul versante sloveno non si riesce a capire ancora chiaramente quanta forza abbiano le correnti filorusse in un Paese che a partire dalla conquista della sua indipendenza ha sempre fatto dell’atlantismo la sua bussola in politica estera.

Lorenzo Salimbeni Salimbeni, collabora a Eurasia. Rivista di studi geopolitci. contributi pubblicati: La politica italiana e il Kosovo dal 1918 all’8 settembre 1943 (nr. 2/2008, pp. 199-216)

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Nasce l’Associazione Amicizia Italo-Serba

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Si comunica che il 30 novembre 2009 si costituirà  l’Associazione per l’ Amicizia talo-serba

Qui di seguito lo statuto.

ASSOCIAZIONE AMICIZIA ITALO-SERBA
Articolo 1 (Principi ispiratori)

L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba è un’organizzazione democratica composta da persone che vogliono operare, nel rispetto della Costituzione italiana, per lo sviluppo dei rapporti internazionali di amicizia, di solidarietà e cooperazione con il popolo serbo e i suoi legittimi rappresentanti.
L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba si ispira ai principi della solidarietà, della uguaglianza e della fraterna collaborazione tra i popoli, contro ogni forma di oppressione, per la salvaguardia dei diritti umani collettivi e individuali, per il consolidamento della pace nel mondo.
L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba è autonoma dal governo e dai partiti politici. L’Associazione Nazionale ha le sue sedi legali in Roma e in Belgrado.

Articolo 2 (Scopi)

Scopo dell’Associazione è lo sviluppo del lavoro per l’amicizia e la solidarietà con il popolo serbo attraverso le associazioni e le istituzioni.
Pertanto è suo impegno:

  • promuovere scambi fra Italia e Serbia nel campo della cultura, della scienza, delle arti e delle attività sociali, mediante relazioni e convenzioni con istituzioni elettive, gruppi ed associazioni professionali, enti, organizzazioni sociali, università, istituti di ricerca, centri studi.
    Negli ambiti specifici, s’impegna a sollecitare una cooperazione tecnica, scientifica, economica, culturale, artistica di comune interesse.
  • promuovere gemellaggi tra enti, scuole ed istituzioni dei due paesi.
  • promuovere e organizzare mostre, rassegne, conferenze, convegni, seminari, manifestazioni culturali, spettacoli in genere, nonché festival, viaggi di studio, di lavoro volontario e turistici.
  • promuovere iniziative di carattere sociale, economico, culturale, sportivo, con il fine di perseguire e potenziare l’attività dell’Associazione, senza fini di lucro, quale strumento di solidarietà attiva e concreta con la Serbia.
  • curare la pubblicazione di periodici, monografie, documenti, bibliografie, ecc. per la conoscenza reciproca della storia, della cultura e della realtà socio-economica dell’Italia e della Serbia.
  • mantenere regolari rapporti con le sedi diplomatiche serbe  in Italia e quelle italiane in Serbia.

Articolo 3 (Partecipazione ad iniziative esterne)

L’Associazione può aderire a quelle manifestazioni e iniziative che a livello nazionale e/o internazionale, abbiano come fine la pace e la solidarietà tra i popoli, l’affermazione dei valori di libertà e democrazia, contro ogni forma d’imperialismo e di oppressione.
L’Associazione Nazionale e le sue strutture territoriali non possono partecipare direttamente ad elezioni politiche o amministrative, né nazionali, né locali, né internazionali.
I singoli soci esercitano i diritti di cittadini, escludendo un coinvolgimento diretto, organizzativo o finanziario dell’Associazione.

Articolo 4 (Rapporti internazionali)

L’Associazione riconosce come interlocutori serbi principali e privilegiati l’Ambasciata della Repubblica di Serbia a Roma, il Patriarcato serbo-ortodosso a Belgrado e tutte le associazioni religiose, civili, solidali, culturali che lavorino sui principi dell’amicizia e della solidarietà, sul rafforzamento dei valori politici, sociali, spirituali e culturali dei due popoli.
L’Associazione partecipa all’attività nazionale e internazionale delle Associazioni che agiscono per gli stessi scopi.
L’Associazione può, a sua volta, aderire ad Istituti, Enti, organizzazioni del Terzo settore e organizzazioni della cooperazione e della solidarietà internazionale, purché fondino la loro ragione su una vita democratica e abbiano come fine la solidarietà tra i popoli.
Le modalità di adesione dell’Associazione e la partecipazione della stessa alle varie iniziative nazionali ed internazionali, sono decise e stabilite dagli organismi dirigenti.
In tale contesto è data facoltà ai livelli territoriali di base e regionali dell’Associazione, di aderire autonomamente ad iniziative di carattere sovra-regionale e sopranazionale, previa comunicazione a livello organizzativo superiore, e comunque a quello nazionale.

Articolo 5 (Adesioni)

Possono essere soci dell’Associazione tutte le persone democratiche ed interessate ai fini sopra indicati che vivano in Italia, in Serbia o in paesi terzi, e che condividano i principi e intendano perseguire gli scopi del presente Statuto, senza alcuna discriminazione per la loro opinione politica e per i loro principi religiosi o filosofici.

Articolo 6 (Soci)

A tutti i soci e in tutte le istanze dell’Associazione Nazionale, a salvaguardia delle differenze di genere, è garantito il principio delle pari opportunità.
I soci si distinguono in ordinari e onorari.
Sono soci ordinari coloro i quali si iscrivono volontariamente e sono in regola con il pagamento della contribuzione associativa annuale. Ciascun aderente ha diritto a partecipare alla vita dell’Associazione.
Sono soci onorari le personalità che per il loro prestigio e la funzione pubblica politica, sociale e culturale diano prestigio all’Associazione ed operino nei loro campi specifici al consolidamento dei rapporti con la Serbia.

Articolo 7 (Diritti e doveri)

Tutti i soci hanno il diritto di essere informati e sono impegnati a fare circolare le informazioni sull’attività dell’Associazione e sulla Serbia.
Hanno il diritto di frequentare le sedi, di usare i materiali di consultazione e di lettura, di partecipare e di dare il proprio contributo volontario al lavoro ed all’organizzazione di tutte le iniziative dell’Associazione.
Nessuna limitazione è posta alla piena libertà d’espressione e convinzione dei soci, le cui opinioni per proposte e idee che tendono a sviluppare l’attività associativa, sono discusse con metodo democratico e civile.
Tutti i soci hanno il diritto di partecipare alle assemblee congressuali, esercitano il diritto di voto per l’approvazione e le modifiche dello Statuto e dei regolamenti da proporre all’Assemblea generale.
Tutti i soci, se di maggiore età, hanno il diritto di:

  • essere eletti negli organi direttivi;
  • essere delegati a rappresentare l’associazione a convegni, seminari, nazionali o internazionali, sulla base delle indicazioni degli organi dirigenti nazionali.

Nessun diritto compete al socio e ai suoi eredi o aventi causa sulle somme versate all’Associazione per qualsivoglia titolo.
Tutti i soci hanno il dovere di osservare le norme dello Statuto.

Articolo 8 (Decadenza dalla qualifica di socio)

La qualità di socio si perde:

  • per dimissioni;
  • per mancato pagamento della contribuzione associativa;
  • per decisione del Comitato di Garanzia a seguito di una proposta dell’assemblea dei soci del Circolo o della struttura d’appartenenza, in casi d’eccezionale gravità, e qualora il socio abbia:
  • violato le norme statutarie;
  • compromesso gli interessi ed i principi generali dell’Associazione;
  • danneggiato moralmente e materialmente l’Associazione.

La delibera assunta deve essere tempestivamente comunicata agli organismi dirigenti nazionali e all’interessato con comunicazione scritta entro tre giorni.
Nel caso in cui il socio in questione detenga qualsiasi carica direttiva questa si ritiene sospesa in via cautelare e sostituito dall’incarico sino alla definitiva risoluzione della controversia.

Articolo 9 (Organismi dirigenti)
Organismi dirigenti e rappresentativi della Associazione Nazionale sono l’Assemblea Generale e il Comitato Direttivo.

Articolo 10  (Assemblea Generale)

L’Assemblea Generale è convocata ogni anno dal Presidente.
Fissa le linee generali dell’attività, le modalità delle adesioni, rende conto dell’attività svolta nel periodo precedente e decide gli impegni programmatici per il periodo futuro; elegge i componenti del Comitato Direttivo.
L’Assemblea congressuale delibera in base al voto di maggioranza.

Articolo 11 (Comitato Direttivo Nazionale)

Il Comitato Direttivo Nazionale è composto di componenti eletti dall’Assemblea.
Il Comitato Direttivo Nazionale può avvalersi della collaborazione di personalità ed esperti nei vari settori delle attività previste dall’Associazione.
Il Comitato Direttivo Nazionale opera collegialmente. Propone i piani d’attività, indirizza e controlla l’operato della Segreteria Nazionale, propone eventuali accordi con le istituzioni serbe e le associazioni internazionali, decide nel merito d’adesione e partecipazione ad istituzioni, organizzazioni, iniziative nazionali ed internazionali.
Il Comitato Direttivo Nazionale decide sul bilancio finanziario e patrimoniale della Associazione e stabilisce le modalità delle quote associative o di altri proventi per l’autofinanziamento dell’Associazione stessa. Il bilancio preventivo e consuntivo deve essere predisposto ed approvato annualmente entro il 31 marzo dell’anno successivo e reso pubblico mediante comunicazione dello stesso ai Circoli.
Elegge inoltre, su proposta della Segreteria Nazionale, il Tesoriere.

Il Comitato Direttivo Nazionale si riunisce almeno una volta ogni tre mesi o su richiesta di 1/3 dei suoi componenti.
La riunione del Comitato Direttivo Nazionale è validamente costituita ed è atta a deliberare, in prima convocazione, con almeno la metà più uno dei suoi componenti. In seconda convocazione la riunione è validamente costituita qualunque sia il numero dei presenti. Le delibere sono assunte con il voto favorevole della maggioranza dei presenti.
La riunione del Comitato Direttivo Nazionale deve essere convocata per iscritto almeno 15 giorni prima della data prevista, precisando l’ordine del giorno.

Articolo 12 (Il Presidente)
Il Presidente dell’Associazione è eletto dal Comitato Direttivo Nazionale.
Il Presidente rappresenta legalmente l’Associazione di fronte alle autorità italiane e serbe, nei confronti delle varie associazioni, enti, partiti, istituzioni nazionali ed internazionali.
La firma sociale spetta al Presidente e al Tesoriere.

Articolo 13 (Tesoriere)
Il Tesoriere ha il compito di provvedere alle registrazioni contabili ed alle eventuali operazioni fiscali ed amministrative, alla stesura del bilancio preventivo e consuntivo annuale dell’Associazione, al controllo del versamento delle quote associative.
Inoltre deve relazionare al Comitato Direttivo Nazionale, quando ne sia fatta richiesta, sull’andamento amministrativo dell’Associazione.

Articolo 15 (Autofinanziamento)

L’Associazione Nazionale di Amicizia italo-serba e tutte le sue organizzazioni presenti sul territorio svolgono la loro attività senza fini di lucro e traggono i loro proventi da:

  • quote associative;
  • contributi volontari da persone, istituti pubblici e privati, da organizzazioni democratiche, donazioni, lasciti, ecc.;
  • da proventi derivanti da attività promozionali di vendita di pubblicazioni letterarie, musicali, prodotti artigianali, da iniziative culturali, politiche, sportive, mercatini, spettacoli e feste, viaggi o altre forme di carattere ricreativo;
  • sottoscrizioni tra i soci o nell’ambito delle attività sociali svolte secondo gli scopi della Associazione.

L’adesione alla Associazione non comporta obblighi di finanziamento o di esborso ulteriori rispetto al versamento della quota annua di iscrizione.

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Il teatrino afghano dei burattini

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Durante le ultime elezioni presidenziali in Afghanistan l’opinione pubblica occidentale ha scoperto l’acqua calda sulle innevate montagne del paese centrasiatico. Il coro di sospetto o di riprovazione per le irregolarità tenute nel corso delle elezioni è stato unanime. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Non vi sono infatti dubbi che non si possano tenere regolari elezioni nel conteso nel quale si trova lo sventurato paese. Un paese occupato e posto sotto tutela non può certo godere dell’indispensabile sovranità nazionale che rappresenta pur sempre la condizione sine qua non per costruire la democrazia, la condizione necessaria anche se non sufficiente della sua costituzione. Senza la sovranità non c’è né ci può essere la democrazia. Il ridicolo dato dell’affluenza alle urne (circa un terzo degli aventi diritto) è il dato più significativo delle elezioni.

Cosa pretendevano dunque i media dell’Occidente?

La verità che si nasconde dietro tanto ciarlare pare essere ben altra: il rapporto tra il presidente virtuale dell’Afghanistan, Karzai, ed i suoi padrini americani non è più quello di prima.

Non conta nulla la vaga idea della democrazia che hanno gli anglo-americani nella loro sfiducia verso Karzai e verso il modo con cui è stato eletto. Come non ha mai contato (se non nella propaganda) tutte le volte che l’imperialismo americano è intervenuto ai quattro angoli del globo per puntellare i suoi interessi, spesso deponendo presidenti democraticamente eletti e mettendo al loro posto come propri fiduciari i peggiori criminali che abbiano mai calcato le scene del mondo.

Più che di democrazia si tratta di imperialismo.

Nelle vicende afghane in particolare ciò che è sempre contato per Washington (quanto meno dall’epoca della crociata contro la repubblica afghana filo-sovietica dalla fine degli anni ’70) è stato il controllo del paese. Fu Brzezinski (padre putativo del presidente Barak Obama) a sostenere che pur di penetrare nella regione e cacciarne l’URSS valeva la pena di creare i presupposti per l’insediamento delle bande islamiste radicali antesignane dei talebani. “Cosa conterà di più nella storia?” si chiedeva retoricamente, “la fine dell’Unione Sovietica, od il fatto che le donne afghane siano state costrette a mettere il burka?”

Specie dal 2001 il controllo diretto del paese è divenuto fondamentale nelle strategie Usa volte a penetrare in Asia centrale per accaparrarsi cruciali risorse strategiche ed inserirsi come un cuneo tra la Cina, la Russia ed il subcontinente indiano.

Subito dopo l’invasione del 2001 furono gli Stati Uniti ad imporre un loro uomo alla guida del paese, dopo che i talebani erano stati messi in fuga. Furono loro a paracadutare su Kabul Karzai, pescato direttamente dalla Unocal (l’azienda petrolifera che doveva gestire la costruzione degli oleodotti per drenare gli idrocarburi centrasiatici attraverso il paese, verso i porti dell’Oceano indiano). La Casa Bianca non nutriva all’epoca troppa fiducia nelle bande ribelli dell’Alleanza del Nord che avevano combattuto contro i talebani e che avevano goduto del sostegno dei russi e degli iraniani.

Furono loro all’epoca a imporre Karzai. Ma le cose, si sa, possono cambiare velocemente nel Grande gioco per l’Asia centrale e l’amico di ieri si trasforma in una creatura dalle fattezze misteriose e dalle finalità inesplicabili. E’ quello che è successo a Karzai che, trovatosi alla guida di un governo puramente formale ed in balìa dei clan e della lotta armata delle tribù di gran parte del paese contro il suo potere e contro la presenza occidentale che lo sostiene, ha iniziato a guardarsi attorno. Il suo problema, analogamente a quello che hanno tutti gli alleati degli americani in questa partita (dagli occidentali al Pakistan), è che Washington continua a formulare richieste impossibili da soddisfare, se non al costo di suicidarsi politicamente. Il Pakistan è stato costretto ad accettare l’inversione totale della sua politica verso l’Afghanistan e ad accettare il bombardamento dei droni statunitensi sul suo territorio coi risultati che si vedono: il paese viene risucchiato nelle sabbie mobili della guerra mese dopo mese mentre sanguinosi attentati scuotono quotidianamente ogni angolo del “paese dei puri” ed i profughi in fuga dalle regioni di frontiera, dove impazza la guerra, ormai non si contano più[1].

Karzai doveva pur sopravvivere, e così ha iniziato a muoversi con un’autonomia che è piaciuta poco ai suoi padrini. A Washington devono aver strabuzzato gli occhi quando hanno cominciato a notare che il loro “pupazzo” dava segni di vita autonomamente dalle loro indicazioni, un po’ come Geppetto quando scoprì che il suo burattino, Pinocchio, si muoveva senza fili ed era dotato di voce.

Karzai aveva cominciato a stringere accordi con alcuni clan e gruppi vicini a sponsor non graditi agli Usa (dal filo-iraninano Ismail Khan, all’ondivago capo uzbeko Dostum fino ai potenti gruppi tagiki di Fahim) nel tentativo disperato di garantirsi una propria base di potere. Aveva anche cercato nuovi appoggi a livello internazionale, di fronte ai ripetuti fallimenti della strategia Usa nella regione. Aveva partecipato ad un vertice indetto a Teheran da Ahmadinejad insieme al presidente pakistano Zardari, aveva presenziato più volte alle riunioni dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (che riunisce le repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica attorno alla Russia e alla Cina), aveva dimostrato disponibilità ad un marcato attivismo della diplomazia russa nella crisi.

Aveva, insomma, fatto una serie di scelte che, per quanto velleitarie, deboli e dettate dall’opportunismo, avevano mandato su tutte le furie gli strateghi statunitensi, alle prese con un cerchio che non vuole quadrare.

Gli americani sono entrati in una spirale contraddittoria: più combattono, più compiono stragi, più sono invisi dalla popolazione e spingono l’area grigia delle tribù afghane che non si erano schierate verso i talebani e le bande ribelli, indebolendo il governo virtuale di Kabul. D’altra parte il governo afghano cerca di manovrare per evitare di fare da parafulmine.

L’unica soluzione che a Washington trovano consiste nell’inviare truppe. Obama festeggerà il suo premio Nobel per la pace inviando probabilmente altri 40 mila uomini verso il fronte.

Gli americani sono fortemente indispettiti con Karzai già da tempo, dal crepuscolo dell’era Bush. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca anche in questo campo non si sono registrate novità.

Washington ha esercitato pressioni sempre più forti su Karzai, intimandogli di non collaborare con i russi e con gli altri vicini dell’Afghanistan nella lotta al traffico di droga, ponendo richieste inesaudibili (l’afghanizzazione del conflitto), infine cercando altri interlocutori ancor più disponibili. E’ infatti lecito porsi dei dubbi circa la volontà di Washington di avere a Kabul un governo stabile e forte che possa prendere in mano la situazione, perché il rischio che questo sarebbe troppo autonomo è alto.

E’ la stessa ragione per la quale quando gli europei fanno avere al segretario dell’ONU un pezzo di carta che pone la questione di stabilire un calendario vengono gelati da Rasmussen, segretario generale della Nato.

I colpi bassi assestati dai media occidentali a Karzai sembrano fatti appositamente per evitare il relativo stabilizzarsi di un autonomo centro di potere a Kabul e Karzai si è mosso con troppa autonomia. Non devono pertanto meravigliare le accuse di corruzione rivolte alla sua cerchia, la pesantissima accusa di essere immischiato nel traffico di droga rivolta a suo fratello e le pressioni che sono state esercitate da più parti su di lui per fargli accettare il boccone amaro di un secondo turno nelle elezioni presidenziali.

Certamente gli obiettivi perseguiti da Washington sono contraddittori: da un lato gli Usa vorrebbero avere meno oneri e meno costi (umani e materiali) nella guerra afghana e per far questo vorrebbero afghanizzare il conflitto grazie ad una stabilizzazione del regime di Kabul, dall’altro lato il fine della guerra è il controllo del paese e la penetrazione in tutta la regione centrasiatica e questo esclude che a Kabul i burattini si muovano senza fili.

In molti hanno notato che non è la prima volta che gli Usa cercano di scaricare in corsa i loro uomini quando questi non rispondono più alle loro aspettative o diventano addirittura ingombranti. Lo fecero, ad esempio, con Diem a Saigon, nel pieno della guerra del Vietnam.

Forse, con crismi diversi, ci hanno riprovato in questi giorni a Kabul o forse hanno voluto semplicemente dare un avvertimento.

L’Afghanistan è un paese complesso. Se è vero che Karzai era stato imposto dagli americani otto anni or sono è anche vero che in questo lasso di tempo ha lavorato per avvicinare i vari signori della guerra che avevano cercato di contenere i talebani in tempi non sospetti, né è da dimenticare che furono questi warlords ad entrare per primi a Kabul nell’autunno 2001. Così, a dispetto del suo esordio come uomo di paglia, Karzai ha finito per diventare il punto di convergenza di quelle forze (principalmente i clan tagiki, uzbeki e hazara) che in Afghanistan si oppongono ai talebani. Ed in America si fa sempre più strada l’ipotesi di una cooptazione di gruppi talebani al governo e di una parziale talebanizzazione delle strutture di potere afghane.

Il presidente afghano si stava accorgendo che forse gli Usa cercavano di scaricarlo, dopo aver goffamente tentato di trasformarlo in una sorta di capro espiatorio locale dei loro fallimenti. Il rapporto con Karzai è arrivato a rasentare la vera e propria sfida. L’attuale presidente afghano è arrivato al punto di rispondere colpo su colpo a molte accuse lanciategli nell’ultimo mese dall’Occidente. Il ministro afghano che si occupa della lotta alla droga, gen. Khodaidad, si è incaricato di replicare alle accuse rivolte dalla stampa americana ai presunti traffici illeciti del fratello di Karzai chiamando in causa il ruolo delle truppe anglo-americane nel traffico della droga. Khodaidad (che ha studiato alle accademie militari indiane e sovietiche ed è piuttosto conosciuto negli ambienti di questi paesi) ha specificato che britannici e canadesi pongono addirittura una tassa sulla produzione di oppio nelle zone da loro presidiate[2]. Con questa mossa ha aperto il vaso di Pandora, anche se sia i russi, che i cinesi, che gli indiani sapevano già da tempo quale fosse la strategia anglo-americana in merito alla spinosa questione del narco-traffico. Le pressioni esercitate da Washington su Kabul affinché l’Afghanistan fosse meno solerte a collaborare con i paesi confinanti in materia di lotta alla droga rappresentava già un messaggio piuttosto eloquente.

Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana si è avuta quando Karzai si è spinto a chiedere lumi circa i sospetti voli di elicotteri militari britannici che stanno facendo la spola tra il sud ed il nord del paese, trasportando enigmatici personaggi barbuti[3]. Se sotto la spinta dell’esercito pakistano le bande talebane (e affiliate) si ritirano e cercano una dislocazione per compiere i loro propositi, il sospetto affacciato da alcuni osservatori è che i britannici non disprezzino affatto un loro trasferimento verso nord, verso il fiume Amu-Dariya, verso il confine con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che in questi anni si sono riavvicinate a Mosca e verso il Turkestan orientale cinese.

L’arco della crisi aperto dall’intervento statunitense nella regione rischia di allargarsi a macchia d’olio, questa volta però gli antagonisti degli Usa potrebbero trovarsi trascinati direttamente nel conflitto con danni incalcolabili per tutta la regione[4].

Russi e cinesi guardano con preoccupazione a questi foschi scenari e tentano di concertare le loro mosse, stringendosi sempre più gli uni agli altri. Nell’ultimo mese si sono potute registrare numerose iniziative, oltre all’importantissima visita di Putin a Pechino nel corso della quale la partnership tra i due paesi ha raggiunto nuovi livelli.

E’ sfuggito a molti osservatori che l’ultima visita del premier russo in Cina non ha solamente permesso di firmare una serie di importantissimi contratti nel campo dell’energia e delle infrastrutture tra i due paesi, ma ha anche impresso un salto di qualità alla partnership tra Mosca e Pechino. Cina e Russia hanno infatti deciso di informarsi reciprocamente circa i rispettivi piani di puntamento e lancio dei loro missili balistici[5], quasi volessero prepararsi a mettere in comune le loro risorse in caso si trovassero di fronte ad un attacco immediato portato da una Grande Potenza.

Se a questo sommiamo la riconferma degli accordi nel campo della difesa tra Teheran e Mosca, la costituzione di una forza di intervento rapida della Russia e dei suoi alleati centrasiatici in ambito TSC, le iniziative diplomatiche di Pechino per favorire l’avvio di nuove relazioni tra Russia e Pakistan, le riunioni dell’OCS nelle quali il premier pakistano Gilani è apparso assi disposto ad una più incisiva partecipazione del proprio paese al gruppo di Shanghai e mettiamo in relazioni questi fatti con l’aumento sempre più impressionante delle spese belliche Usa, i test di nuove potenti armi da parte degli Stati Uniti, le minacce crescenti all’Iran ed il riattivarsi del terrorismo integralista in Asia centrale e nel Caucaso settentrionale ne esce un quadro assai teso, anche se abbastanza chiaro.

Per alleggerire la situazione al fronte e non perdere la partita dietro le quinte i vertici di potere statunitensi sono forse disponibili ad una riconciliazione con parte dei talebani, all’inserimento di alcuni di loro nelle strutture a Kabul e a consentire (se non a incoraggiare) una loro dislocazione nelle aree circostanti, al fine di destabilizzare gli antagonisti degli Usa.

Come mostrano anche i nostri media, e come hanno già registrato vari esperti internazionali, i commenti di molti esponenti integralisti che additano la necessità di una “jihad” nello Xingijan o nella valle del Fergana sono in aumento e sembrano fare da “curioso” contrappunto al coro degli strateghi di Washington.

“La priorità di Washington è che i Talebani destabilizzino l’Asia centrale, il Caucaso settentrionale, allo stesso modo della provincia cinese del Xinjiang, e che mettano a soqquadro le regioni orientali dell’Iran”[6], come ha notato l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar.

Non pare quindi un caso che le fiamme della violenza terrorista riprendano a propagarsi in Caucaso o nel Belucistan iraniano. Probabilmente non lo è nemmeno il fatto che si registri un revival (o quanto meno un rilancio) dei rapporti tra gli Usa e l’integralismo islamico di matrice wahhabita nel momento in cui l’uomo che fu l’architetto dell’alleanza tra la Cia ed i mujahiddin afghani (Brzezinski) è tornato, seppur per interposta persona, alla Casa Bianca.

Karzai si era opposto, finché aveva potuto, ad un secondo turno elettorale. Poi si è piegato ad accettare il ballottaggio con lo sfidante Abdullah (ex ministro degli Esteri), sostenuto da molti ambienti occidentali. La sua immagine ne è uscita sfregiata ma anche l’America non ne è uscita bene. Al dramma che vive il paese si è aggiunta la farsa quando Abdullah ha annunciato che si ritirava dalla competizione, permettendo di fatto la rielezione di Karzai. Al nuovo presidente è arrivato subito il messaggio di quanti lo invitano ad “imparare la lezione”. Nel suo messaggio alla nazione Karzai ha detto di voler ricucire con i talebani. Questo messaggio era solo per loro o era anche per Mangiafuoco?

Sul futuro pesano molteplici incognite. Mentre la guerra impazza furibonda e rischia di allargarsi oltre le frontiere dell’Afghanistan per coinvolgere altre vittime, le montagne afghane assomigliano sempre di più ad infide paludi.

Spartaco Alfredo Puttini: dottore in Storia. Contributi pubblicati in Eurasia: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200).


[1] Circa 2500 persone sono state uccise nel corso di attentati rivendicati dai  “talebani pakistani” in tutto il paese dall’estate 2007 ad oggi, di cui circa 400 nell’ultimo mese in risposta all’offensiva dell’esercito nel Waziristan meridionale.

[2] M.K. Bhadrakumar, US goofs the Afghan election; “Asia Times Online” 3/11/2009

[3] L’armée britannique assure le transport aérien des Talibans ; www.mondialisation.ca 18 octobre 2009

[4] A. Shustov, Talibs and Central Asia; in: Strategic Culture Foundation, 30/10/2009

[5] Reuters, 13 ottobre 2009

[6] M.K. Bhadrakumar, Why the US is afraid of “Afghanization”; “Asia Times Online”, 14 settembre 2009

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Esportatori di speranza, maestri di propaganda

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Fonte: “Bye Bye Uncle Sam”
Iniziamo con un gustoso antipasto.

“Radio Free Europe/Radio Liberty da voce, come uno sfogo, a milioni di persone che altrimenti non l’avrebbero.”

“Voice of America e Radio Free Europe/Radio Liberty (…) portando informazione tempestiva, basata sui fatti, a popolazioni che altrimenti sarebbero tenute all’oscuro.”

“E mai prima nel recente passato c’è stato un momento più necessario per commercializzarla con un nuovo marchio e lasciare che il mondo sappia veramente che l’America è quella che, splendida, chiama con un cenno sulla collina.”

“Vaclav Havel ha detto che Radio Free Europe/Radio Liberty fornisce nutrimento intellettuale, ispirazione morale ed i veri semi della società civile e della crescita e sviluppo democratici.”

“[In Bielorussia] Un capo dell’opposizione ha paragonato Radio Liberty all’aria che respiriamo.”

“La nostra più grande esportazione è la speranza.”

“La storia di Radio Free Europe/Radio Liberty è un racconto sulla libertà umana, con i capitoli cruciali che non sono ancora stati scritti.”

“Le notizie possono essere buone, le notizie possono essere cattive. Noi ti diremo la verità.”

“Noi tutti siamo molto orgogliosi del nostro ruolo nel portare la luce negli angoli bui e, nel caso di Voice of America, aiutare milioni di persone a vedere l’America e gli Americani come siamo veramente.”

“L’informazione, l’ossigeno della libertà.”

Lo scorso 23 luglio, Jeffrey Gedmin e Dan Austin, rispettivamente presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL) e direttore di Voice Of America (VOA), sono stati protagonisti di un’audizione presso il Subcomitato per l’Europa della Camera dei Rappresentanti USA, i cui atti sono stati successivamente diffusi con il titolo di Radio Free Europe/Radio Liberty e Voice of America: potere morbido e la libera circolazione dell’informazione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando ancora la CNN, Fox News Channel e le altre televisioni via cavo non esistevano, furono RFE/RL e VOA ad “accendere la luce su ciò per cui l’America combatteva”. Oggi, nella loro essenza, sono “strumenti di marketing”: a prescindere dall’argomento di cui si occupano, RFE/RL e VOA “vendono e commercializzano gli Stati Uniti d’America”. “Ogni giorno esse sono sulle linee del fronte per dare forma a ciò che il mondo pensa di noi”.
In questo senso – considerato anche il calo della reputazione che gli USA godono in giro per il mondo – è fondamentale “il lavoro che [RFE/RL e VOA] stanno facendo per raggiungere quegli ascoltatori che hanno un’esposizione limitata all’esperienza americana ed ai media occidentali”.
L’importanza vitale del migliorare l’opinione mondiale circa gli Stati Uniti è dovuta al fatto che “noi siamo sicuramente i leader del mondo, ed abbiamo necessità di amici a livello governativo nei nostri sforzi in tutte queste nazioni. Questo significa invariabilmente che questi governi hanno bisogno del sostegno dei loro popoli. RFE/RL e VOA ci aiutano a costruire questo sostegno”.
Questo serrato (ed illuminante) ragionamento chiude l’introduzione fatta dall’onorevole David Scott ai due interventi dei prestigiosi ospiti di giornata.
Primo a parlare è Jeffrey Gedmin, che prima di assumere l’incarico di presidente di RFE/RL nel 2007, è stato direttore dell’Aspen Institute di Berlino, e prima ancora ricercatore presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo della New Atlantic Initiative dove “egli collaborava con politici, giornalisti ed uomini d’affari per rivitalizzare ed espandere l’Atlantismo democratico”.
“Sono passati venti anni da quando un Presidente invocò un’Europa unita e libera, e siamo circa a metà strada. Forse siamo al 60%, od al 47%. C’è un immenso lavoro che deve essere fatto. Io penso che noi giochiamo un ruolo importante”. Infatti.
Attualmente RFE/RL hanno trasmissioni per 21 Paesi ed in 28 lingue, ed uffici in 19 nazioni. Le trasmissioni raggiungono Russia, Ucraina, Bielorussia, l’Asia centrale, il Caucaso, alcuni importanti Paesi dell’Europa orientale, Afghanistan, Iran ed Iraq, con il prossimo obiettivo delle aree tribali del Pakistan.
Per quanto riguarda la Russia, Gedmin sottolinea che “un’informazione indipendente ed affidabile” è assicurata da un gruppo al lavoro a Praga (dove RFE/RL ha sede) affiancato da un ufficio a Mosca e da una rete di giornalisti freelance presenti in tutte le 11 zone di fuso orario del Paese. Lamenta comunque la perdita di una ventina delle emittenti “affiliate”, la maggior parte “a causa di pressioni politiche”. Inspiegabilmente, perché – afferma Gedmin – non facciamo propaganda, né programmazione antirussa: al contrario, “I colleghi del nostro servizio russo sono patrioti”. Nella vicina Estonia, poi, l’attuale Presidente Tom Ilves è un ex giornalista della radio.
Per quanto riguarda i Balcani, il Congresso può essere certo che RFE/RL aiuterà i leader ed i cittadini di Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia.. a procurarsi quelle “notizie ed analisi affidabili necessarie per prendere decisioni informate circa le loro vite ed il futuro”.
Spostandosi più ad oriente, nel Caucaso ed Asia centrale, vanno stigmatizzate le “tendenze illiberali” in Russia che hanno effetto anche nei Paesi confinanti. Su RFE/RL si può comunque contare, “noi rimaniamo in corsa, anche quando gli altri perdono fiducia”.
In Afghanistan, la sezione radio locale (conosciuta come Radio Azadi, con trasmissioni nelle lingue dari e pashtun) ormai raggiunge quasi il 50% della popolazione adulta con le sue “solide analisi sulla lotta contro le risorgenti forze talebane”. In Iran, anche per colpa del governo che interferisce con il segnale radio e blocca il sito web, l’audience di RFE/RL è minore.
Le ultime parole di Gedmin sono dedicate alla nuova sede della radio, una struttura a sei piani di quasi 21.000 mq provvista di studi di registrazione multimediali ed una moderna sala stampa. “L’edificio è efficiente dal punto di vista energetico. Cosa più importante, è sicuro”.
Tanto che qualcuno l’ha paragonato ad un carcere di massima sicurezza.

Secondo testimone dell’audizione Dan Austin che, prima di diventare direttore di Voice Of America nel 2006, ha trascorso 36 anni alle dipendenze di Dow Jones & Company. Egli ha lavorato anche per il Wall Street Journal, arrivando a ricoprire le cariche di vice presidente e direttore generale. Non prima di essere stato pluridecorato veterano di guerra nell’esercito statunitense impegnato in Vietnam.
A differenza di Radio Free Europe/Radio Liberty, Voice of America diffonde le proprie trasmissioni sia per radio che per televisione ed attualmente è la più grande emittente USA a livello internazionale. Si stima che ogni settimana 134 milioni di persone nel mondo siano raggiunti dai suoi programmi, diffusi in 45 lingue diverse. 69 di questi 134 milioni sono spettatori delle trasmissioni televisive diffuse via satellite in 25 lingue.
Ovviamente, non è dato pensare che “ad ognuno di questi 134 milioni di persone piacciano l’America o le politiche americane”. In ogni caso, abbiamo “una credibilità presso le nostre audience che permette loro di farsi spazio nel chiasso di una penetrante propaganda ed attraverso la nebbia della cattiva e falsa informazione che oggi giorno caratterizza così tanti media mondiali”.
VOA può vantare 1.300 dipendenti e centinaia di corrispondenti occasionali e contrattisti in tutto il mondo, il cui lavoro costituisce la base delle sue 1.500 ore di programmazione settimanale.
In Kosovo, ad esempio, ben il 64% della popolazione adulta assiste alle trasmissioni radiotelevisive diffuse a partire dall’Albania. In Russia, causa “stretto controllo governativo”, VOA è organizzata come programma multimediale a partire dalla rete telematica, con una media di 60.000 visite mensili al proprio canale YouTube dedicato. Sono 4,75 milioni settimanalmente gli spettatori in Ucraina, mentre in Armenia ad assistere quotidianamente ai programmi tv di VOA è il 46% della popolazione adulta.
In Azerbaigian, dall’inizio del 2009 è in vigore un divieto di trasmissione che ha spinto i responsabili di VOA a diffondere i programmi radio in onde corte e quelli televisivi via satellite. Anche in Uzbekistan tira cattiva aria, tanto che la programmazione televisiva in lingua locale – l’unica prodotta da un emittente internazionale – è trasmessa da una stazione in Kirghizistan. La signora Rebiye Kadeer, leader esiliata della minoranza Uiguri in Cina, ha pubblicamente ringraziato VOA “quale fonte di informazione dalla quale tutti noi Uiguri dipendiamo”.

I bilanci annuali di RFE/RL e VOA ammontano, rispettivamente, a 90 e 201 milioni di dollari. “Noi crediamo che, dollaro per dollaro, siamo uno dei migliori investimenti che i contribuenti americani possano fare” dice Jeff Gedmin.
L’America sarà anche messianica – come sostiene, fra gli altri, Aymeric Chauprade – ma i suoi ideali coincidono con i suoi interessi.
E proprio “lì sta il motore della sua intima proiezione di potenza”.

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Tiberio Graziani parla dei rapporti tra Russia e UE

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Tiberio Graziani, direttore di “Eurasia”, è stato intervistato dal Giornale Radio Rai 3 sui rapporti tra Russia e Unione Europea. L’intervista è stata trasmessa nell’edizione delle 8.45 del 19 novembre, che può essere ascoltata cliccando qui (l’intervista a Graziani si situa dal minuto 11.56 al minuto 13.30).

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Slobodanka Ciric, Le ceneri e il sogno

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Ambasciata della Repubblica di Serbia

è lieta di invitarvi alla presentazione del libro

LE CENERI E IL SOGNO

di  Slobodanka Ciric

interverranno:

Prof. Gilberto Vlaic
Presidente dell’Associazione “Non Bombe Ma Solo Caramelle”

Gabriella Musetti
editrice, scrittrice

Esther Basile,
delegata Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli

Sergio Manes
Direttore editoriale delle edizioni “La Città del Sole”

duo “Aerae Napoli”, chitarra e voce 
Nicola Napolitano e Dante Ferri, voce recitante
Slobodanka Ciric.

martedì , 24  novembre 2009 ore 20,00

presso la Residenza dell’Ambasciatore

Via dei Monti Parioli, 22

00197 Roma

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