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Channel: Rivista Eurasia – Pagina 331 – eurasia-rivista.org

Il teatrino afghano dei burattini

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Durante le ultime elezioni presidenziali in Afghanistan l’opinione pubblica occidentale ha scoperto l’acqua calda sulle innevate montagne del paese centrasiatico. Il coro di sospetto o di riprovazione per le irregolarità tenute nel corso delle elezioni è stato unanime. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Non vi sono infatti dubbi che non si possano tenere regolari elezioni nel conteso nel quale si trova lo sventurato paese. Un paese occupato e posto sotto tutela non può certo godere dell’indispensabile sovranità nazionale che rappresenta pur sempre la condizione sine qua non per costruire la democrazia, la condizione necessaria anche se non sufficiente della sua costituzione. Senza la sovranità non c’è né ci può essere la democrazia. Il ridicolo dato dell’affluenza alle urne (circa un terzo degli aventi diritto) è il dato più significativo delle elezioni.

Cosa pretendevano dunque i media dell’Occidente?

La verità che si nasconde dietro tanto ciarlare pare essere ben altra: il rapporto tra il presidente virtuale dell’Afghanistan, Karzai, ed i suoi padrini americani non è più quello di prima.

Non conta nulla la vaga idea della democrazia che hanno gli anglo-americani nella loro sfiducia verso Karzai e verso il modo con cui è stato eletto. Come non ha mai contato (se non nella propaganda) tutte le volte che l’imperialismo americano è intervenuto ai quattro angoli del globo per puntellare i suoi interessi, spesso deponendo presidenti democraticamente eletti e mettendo al loro posto come propri fiduciari i peggiori criminali che abbiano mai calcato le scene del mondo.

Più che di democrazia si tratta di imperialismo.

Nelle vicende afghane in particolare ciò che è sempre contato per Washington (quanto meno dall’epoca della crociata contro la repubblica afghana filo-sovietica dalla fine degli anni ’70) è stato il controllo del paese. Fu Brzezinski (padre putativo del presidente Barak Obama) a sostenere che pur di penetrare nella regione e cacciarne l’URSS valeva la pena di creare i presupposti per l’insediamento delle bande islamiste radicali antesignane dei talebani. “Cosa conterà di più nella storia?” si chiedeva retoricamente, “la fine dell’Unione Sovietica, od il fatto che le donne afghane siano state costrette a mettere il burka?”

Specie dal 2001 il controllo diretto del paese è divenuto fondamentale nelle strategie Usa volte a penetrare in Asia centrale per accaparrarsi cruciali risorse strategiche ed inserirsi come un cuneo tra la Cina, la Russia ed il subcontinente indiano.

Subito dopo l’invasione del 2001 furono gli Stati Uniti ad imporre un loro uomo alla guida del paese, dopo che i talebani erano stati messi in fuga. Furono loro a paracadutare su Kabul Karzai, pescato direttamente dalla Unocal (l’azienda petrolifera che doveva gestire la costruzione degli oleodotti per drenare gli idrocarburi centrasiatici attraverso il paese, verso i porti dell’Oceano indiano). La Casa Bianca non nutriva all’epoca troppa fiducia nelle bande ribelli dell’Alleanza del Nord che avevano combattuto contro i talebani e che avevano goduto del sostegno dei russi e degli iraniani.

Furono loro all’epoca a imporre Karzai. Ma le cose, si sa, possono cambiare velocemente nel Grande gioco per l’Asia centrale e l’amico di ieri si trasforma in una creatura dalle fattezze misteriose e dalle finalità inesplicabili. E’ quello che è successo a Karzai che, trovatosi alla guida di un governo puramente formale ed in balìa dei clan e della lotta armata delle tribù di gran parte del paese contro il suo potere e contro la presenza occidentale che lo sostiene, ha iniziato a guardarsi attorno. Il suo problema, analogamente a quello che hanno tutti gli alleati degli americani in questa partita (dagli occidentali al Pakistan), è che Washington continua a formulare richieste impossibili da soddisfare, se non al costo di suicidarsi politicamente. Il Pakistan è stato costretto ad accettare l’inversione totale della sua politica verso l’Afghanistan e ad accettare il bombardamento dei droni statunitensi sul suo territorio coi risultati che si vedono: il paese viene risucchiato nelle sabbie mobili della guerra mese dopo mese mentre sanguinosi attentati scuotono quotidianamente ogni angolo del “paese dei puri” ed i profughi in fuga dalle regioni di frontiera, dove impazza la guerra, ormai non si contano più[1].

Karzai doveva pur sopravvivere, e così ha iniziato a muoversi con un’autonomia che è piaciuta poco ai suoi padrini. A Washington devono aver strabuzzato gli occhi quando hanno cominciato a notare che il loro “pupazzo” dava segni di vita autonomamente dalle loro indicazioni, un po’ come Geppetto quando scoprì che il suo burattino, Pinocchio, si muoveva senza fili ed era dotato di voce.

Karzai aveva cominciato a stringere accordi con alcuni clan e gruppi vicini a sponsor non graditi agli Usa (dal filo-iraninano Ismail Khan, all’ondivago capo uzbeko Dostum fino ai potenti gruppi tagiki di Fahim) nel tentativo disperato di garantirsi una propria base di potere. Aveva anche cercato nuovi appoggi a livello internazionale, di fronte ai ripetuti fallimenti della strategia Usa nella regione. Aveva partecipato ad un vertice indetto a Teheran da Ahmadinejad insieme al presidente pakistano Zardari, aveva presenziato più volte alle riunioni dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (che riunisce le repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica attorno alla Russia e alla Cina), aveva dimostrato disponibilità ad un marcato attivismo della diplomazia russa nella crisi.

Aveva, insomma, fatto una serie di scelte che, per quanto velleitarie, deboli e dettate dall’opportunismo, avevano mandato su tutte le furie gli strateghi statunitensi, alle prese con un cerchio che non vuole quadrare.

Gli americani sono entrati in una spirale contraddittoria: più combattono, più compiono stragi, più sono invisi dalla popolazione e spingono l’area grigia delle tribù afghane che non si erano schierate verso i talebani e le bande ribelli, indebolendo il governo virtuale di Kabul. D’altra parte il governo afghano cerca di manovrare per evitare di fare da parafulmine.

L’unica soluzione che a Washington trovano consiste nell’inviare truppe. Obama festeggerà il suo premio Nobel per la pace inviando probabilmente altri 40 mila uomini verso il fronte.

Gli americani sono fortemente indispettiti con Karzai già da tempo, dal crepuscolo dell’era Bush. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca anche in questo campo non si sono registrate novità.

Washington ha esercitato pressioni sempre più forti su Karzai, intimandogli di non collaborare con i russi e con gli altri vicini dell’Afghanistan nella lotta al traffico di droga, ponendo richieste inesaudibili (l’afghanizzazione del conflitto), infine cercando altri interlocutori ancor più disponibili. E’ infatti lecito porsi dei dubbi circa la volontà di Washington di avere a Kabul un governo stabile e forte che possa prendere in mano la situazione, perché il rischio che questo sarebbe troppo autonomo è alto.

E’ la stessa ragione per la quale quando gli europei fanno avere al segretario dell’ONU un pezzo di carta che pone la questione di stabilire un calendario vengono gelati da Rasmussen, segretario generale della Nato.

I colpi bassi assestati dai media occidentali a Karzai sembrano fatti appositamente per evitare il relativo stabilizzarsi di un autonomo centro di potere a Kabul e Karzai si è mosso con troppa autonomia. Non devono pertanto meravigliare le accuse di corruzione rivolte alla sua cerchia, la pesantissima accusa di essere immischiato nel traffico di droga rivolta a suo fratello e le pressioni che sono state esercitate da più parti su di lui per fargli accettare il boccone amaro di un secondo turno nelle elezioni presidenziali.

Certamente gli obiettivi perseguiti da Washington sono contraddittori: da un lato gli Usa vorrebbero avere meno oneri e meno costi (umani e materiali) nella guerra afghana e per far questo vorrebbero afghanizzare il conflitto grazie ad una stabilizzazione del regime di Kabul, dall’altro lato il fine della guerra è il controllo del paese e la penetrazione in tutta la regione centrasiatica e questo esclude che a Kabul i burattini si muovano senza fili.

In molti hanno notato che non è la prima volta che gli Usa cercano di scaricare in corsa i loro uomini quando questi non rispondono più alle loro aspettative o diventano addirittura ingombranti. Lo fecero, ad esempio, con Diem a Saigon, nel pieno della guerra del Vietnam.

Forse, con crismi diversi, ci hanno riprovato in questi giorni a Kabul o forse hanno voluto semplicemente dare un avvertimento.

L’Afghanistan è un paese complesso. Se è vero che Karzai era stato imposto dagli americani otto anni or sono è anche vero che in questo lasso di tempo ha lavorato per avvicinare i vari signori della guerra che avevano cercato di contenere i talebani in tempi non sospetti, né è da dimenticare che furono questi warlords ad entrare per primi a Kabul nell’autunno 2001. Così, a dispetto del suo esordio come uomo di paglia, Karzai ha finito per diventare il punto di convergenza di quelle forze (principalmente i clan tagiki, uzbeki e hazara) che in Afghanistan si oppongono ai talebani. Ed in America si fa sempre più strada l’ipotesi di una cooptazione di gruppi talebani al governo e di una parziale talebanizzazione delle strutture di potere afghane.

Il presidente afghano si stava accorgendo che forse gli Usa cercavano di scaricarlo, dopo aver goffamente tentato di trasformarlo in una sorta di capro espiatorio locale dei loro fallimenti. Il rapporto con Karzai è arrivato a rasentare la vera e propria sfida. L’attuale presidente afghano è arrivato al punto di rispondere colpo su colpo a molte accuse lanciategli nell’ultimo mese dall’Occidente. Il ministro afghano che si occupa della lotta alla droga, gen. Khodaidad, si è incaricato di replicare alle accuse rivolte dalla stampa americana ai presunti traffici illeciti del fratello di Karzai chiamando in causa il ruolo delle truppe anglo-americane nel traffico della droga. Khodaidad (che ha studiato alle accademie militari indiane e sovietiche ed è piuttosto conosciuto negli ambienti di questi paesi) ha specificato che britannici e canadesi pongono addirittura una tassa sulla produzione di oppio nelle zone da loro presidiate[2]. Con questa mossa ha aperto il vaso di Pandora, anche se sia i russi, che i cinesi, che gli indiani sapevano già da tempo quale fosse la strategia anglo-americana in merito alla spinosa questione del narco-traffico. Le pressioni esercitate da Washington su Kabul affinché l’Afghanistan fosse meno solerte a collaborare con i paesi confinanti in materia di lotta alla droga rappresentava già un messaggio piuttosto eloquente.

Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza americana si è avuta quando Karzai si è spinto a chiedere lumi circa i sospetti voli di elicotteri militari britannici che stanno facendo la spola tra il sud ed il nord del paese, trasportando enigmatici personaggi barbuti[3]. Se sotto la spinta dell’esercito pakistano le bande talebane (e affiliate) si ritirano e cercano una dislocazione per compiere i loro propositi, il sospetto affacciato da alcuni osservatori è che i britannici non disprezzino affatto un loro trasferimento verso nord, verso il fiume Amu-Dariya, verso il confine con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che in questi anni si sono riavvicinate a Mosca e verso il Turkestan orientale cinese.

L’arco della crisi aperto dall’intervento statunitense nella regione rischia di allargarsi a macchia d’olio, questa volta però gli antagonisti degli Usa potrebbero trovarsi trascinati direttamente nel conflitto con danni incalcolabili per tutta la regione[4].

Russi e cinesi guardano con preoccupazione a questi foschi scenari e tentano di concertare le loro mosse, stringendosi sempre più gli uni agli altri. Nell’ultimo mese si sono potute registrare numerose iniziative, oltre all’importantissima visita di Putin a Pechino nel corso della quale la partnership tra i due paesi ha raggiunto nuovi livelli.

E’ sfuggito a molti osservatori che l’ultima visita del premier russo in Cina non ha solamente permesso di firmare una serie di importantissimi contratti nel campo dell’energia e delle infrastrutture tra i due paesi, ma ha anche impresso un salto di qualità alla partnership tra Mosca e Pechino. Cina e Russia hanno infatti deciso di informarsi reciprocamente circa i rispettivi piani di puntamento e lancio dei loro missili balistici[5], quasi volessero prepararsi a mettere in comune le loro risorse in caso si trovassero di fronte ad un attacco immediato portato da una Grande Potenza.

Se a questo sommiamo la riconferma degli accordi nel campo della difesa tra Teheran e Mosca, la costituzione di una forza di intervento rapida della Russia e dei suoi alleati centrasiatici in ambito TSC, le iniziative diplomatiche di Pechino per favorire l’avvio di nuove relazioni tra Russia e Pakistan, le riunioni dell’OCS nelle quali il premier pakistano Gilani è apparso assi disposto ad una più incisiva partecipazione del proprio paese al gruppo di Shanghai e mettiamo in relazioni questi fatti con l’aumento sempre più impressionante delle spese belliche Usa, i test di nuove potenti armi da parte degli Stati Uniti, le minacce crescenti all’Iran ed il riattivarsi del terrorismo integralista in Asia centrale e nel Caucaso settentrionale ne esce un quadro assai teso, anche se abbastanza chiaro.

Per alleggerire la situazione al fronte e non perdere la partita dietro le quinte i vertici di potere statunitensi sono forse disponibili ad una riconciliazione con parte dei talebani, all’inserimento di alcuni di loro nelle strutture a Kabul e a consentire (se non a incoraggiare) una loro dislocazione nelle aree circostanti, al fine di destabilizzare gli antagonisti degli Usa.

Come mostrano anche i nostri media, e come hanno già registrato vari esperti internazionali, i commenti di molti esponenti integralisti che additano la necessità di una “jihad” nello Xingijan o nella valle del Fergana sono in aumento e sembrano fare da “curioso” contrappunto al coro degli strateghi di Washington.

“La priorità di Washington è che i Talebani destabilizzino l’Asia centrale, il Caucaso settentrionale, allo stesso modo della provincia cinese del Xinjiang, e che mettano a soqquadro le regioni orientali dell’Iran”[6], come ha notato l’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar.

Non pare quindi un caso che le fiamme della violenza terrorista riprendano a propagarsi in Caucaso o nel Belucistan iraniano. Probabilmente non lo è nemmeno il fatto che si registri un revival (o quanto meno un rilancio) dei rapporti tra gli Usa e l’integralismo islamico di matrice wahhabita nel momento in cui l’uomo che fu l’architetto dell’alleanza tra la Cia ed i mujahiddin afghani (Brzezinski) è tornato, seppur per interposta persona, alla Casa Bianca.

Karzai si era opposto, finché aveva potuto, ad un secondo turno elettorale. Poi si è piegato ad accettare il ballottaggio con lo sfidante Abdullah (ex ministro degli Esteri), sostenuto da molti ambienti occidentali. La sua immagine ne è uscita sfregiata ma anche l’America non ne è uscita bene. Al dramma che vive il paese si è aggiunta la farsa quando Abdullah ha annunciato che si ritirava dalla competizione, permettendo di fatto la rielezione di Karzai. Al nuovo presidente è arrivato subito il messaggio di quanti lo invitano ad “imparare la lezione”. Nel suo messaggio alla nazione Karzai ha detto di voler ricucire con i talebani. Questo messaggio era solo per loro o era anche per Mangiafuoco?

Sul futuro pesano molteplici incognite. Mentre la guerra impazza furibonda e rischia di allargarsi oltre le frontiere dell’Afghanistan per coinvolgere altre vittime, le montagne afghane assomigliano sempre di più ad infide paludi.

Spartaco Alfredo Puttini: dottore in Storia. Contributi pubblicati in Eurasia: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200).


[1] Circa 2500 persone sono state uccise nel corso di attentati rivendicati dai  “talebani pakistani” in tutto il paese dall’estate 2007 ad oggi, di cui circa 400 nell’ultimo mese in risposta all’offensiva dell’esercito nel Waziristan meridionale.

[2] M.K. Bhadrakumar, US goofs the Afghan election; “Asia Times Online” 3/11/2009

[3] L’armée britannique assure le transport aérien des Talibans ; www.mondialisation.ca 18 octobre 2009

[4] A. Shustov, Talibs and Central Asia; in: Strategic Culture Foundation, 30/10/2009

[5] Reuters, 13 ottobre 2009

[6] M.K. Bhadrakumar, Why the US is afraid of “Afghanization”; “Asia Times Online”, 14 settembre 2009

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Esportatori di speranza, maestri di propaganda

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Fonte: “Bye Bye Uncle Sam”
Iniziamo con un gustoso antipasto.

“Radio Free Europe/Radio Liberty da voce, come uno sfogo, a milioni di persone che altrimenti non l’avrebbero.”

“Voice of America e Radio Free Europe/Radio Liberty (…) portando informazione tempestiva, basata sui fatti, a popolazioni che altrimenti sarebbero tenute all’oscuro.”

“E mai prima nel recente passato c’è stato un momento più necessario per commercializzarla con un nuovo marchio e lasciare che il mondo sappia veramente che l’America è quella che, splendida, chiama con un cenno sulla collina.”

“Vaclav Havel ha detto che Radio Free Europe/Radio Liberty fornisce nutrimento intellettuale, ispirazione morale ed i veri semi della società civile e della crescita e sviluppo democratici.”

“[In Bielorussia] Un capo dell’opposizione ha paragonato Radio Liberty all’aria che respiriamo.”

“La nostra più grande esportazione è la speranza.”

“La storia di Radio Free Europe/Radio Liberty è un racconto sulla libertà umana, con i capitoli cruciali che non sono ancora stati scritti.”

“Le notizie possono essere buone, le notizie possono essere cattive. Noi ti diremo la verità.”

“Noi tutti siamo molto orgogliosi del nostro ruolo nel portare la luce negli angoli bui e, nel caso di Voice of America, aiutare milioni di persone a vedere l’America e gli Americani come siamo veramente.”

“L’informazione, l’ossigeno della libertà.”

Lo scorso 23 luglio, Jeffrey Gedmin e Dan Austin, rispettivamente presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL) e direttore di Voice Of America (VOA), sono stati protagonisti di un’audizione presso il Subcomitato per l’Europa della Camera dei Rappresentanti USA, i cui atti sono stati successivamente diffusi con il titolo di Radio Free Europe/Radio Liberty e Voice of America: potere morbido e la libera circolazione dell’informazione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando ancora la CNN, Fox News Channel e le altre televisioni via cavo non esistevano, furono RFE/RL e VOA ad “accendere la luce su ciò per cui l’America combatteva”. Oggi, nella loro essenza, sono “strumenti di marketing”: a prescindere dall’argomento di cui si occupano, RFE/RL e VOA “vendono e commercializzano gli Stati Uniti d’America”. “Ogni giorno esse sono sulle linee del fronte per dare forma a ciò che il mondo pensa di noi”.
In questo senso – considerato anche il calo della reputazione che gli USA godono in giro per il mondo – è fondamentale “il lavoro che [RFE/RL e VOA] stanno facendo per raggiungere quegli ascoltatori che hanno un’esposizione limitata all’esperienza americana ed ai media occidentali”.
L’importanza vitale del migliorare l’opinione mondiale circa gli Stati Uniti è dovuta al fatto che “noi siamo sicuramente i leader del mondo, ed abbiamo necessità di amici a livello governativo nei nostri sforzi in tutte queste nazioni. Questo significa invariabilmente che questi governi hanno bisogno del sostegno dei loro popoli. RFE/RL e VOA ci aiutano a costruire questo sostegno”.
Questo serrato (ed illuminante) ragionamento chiude l’introduzione fatta dall’onorevole David Scott ai due interventi dei prestigiosi ospiti di giornata.
Primo a parlare è Jeffrey Gedmin, che prima di assumere l’incarico di presidente di RFE/RL nel 2007, è stato direttore dell’Aspen Institute di Berlino, e prima ancora ricercatore presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo della New Atlantic Initiative dove “egli collaborava con politici, giornalisti ed uomini d’affari per rivitalizzare ed espandere l’Atlantismo democratico”.
“Sono passati venti anni da quando un Presidente invocò un’Europa unita e libera, e siamo circa a metà strada. Forse siamo al 60%, od al 47%. C’è un immenso lavoro che deve essere fatto. Io penso che noi giochiamo un ruolo importante”. Infatti.
Attualmente RFE/RL hanno trasmissioni per 21 Paesi ed in 28 lingue, ed uffici in 19 nazioni. Le trasmissioni raggiungono Russia, Ucraina, Bielorussia, l’Asia centrale, il Caucaso, alcuni importanti Paesi dell’Europa orientale, Afghanistan, Iran ed Iraq, con il prossimo obiettivo delle aree tribali del Pakistan.
Per quanto riguarda la Russia, Gedmin sottolinea che “un’informazione indipendente ed affidabile” è assicurata da un gruppo al lavoro a Praga (dove RFE/RL ha sede) affiancato da un ufficio a Mosca e da una rete di giornalisti freelance presenti in tutte le 11 zone di fuso orario del Paese. Lamenta comunque la perdita di una ventina delle emittenti “affiliate”, la maggior parte “a causa di pressioni politiche”. Inspiegabilmente, perché – afferma Gedmin – non facciamo propaganda, né programmazione antirussa: al contrario, “I colleghi del nostro servizio russo sono patrioti”. Nella vicina Estonia, poi, l’attuale Presidente Tom Ilves è un ex giornalista della radio.
Per quanto riguarda i Balcani, il Congresso può essere certo che RFE/RL aiuterà i leader ed i cittadini di Bosnia, Croazia, Serbia, Macedonia.. a procurarsi quelle “notizie ed analisi affidabili necessarie per prendere decisioni informate circa le loro vite ed il futuro”.
Spostandosi più ad oriente, nel Caucaso ed Asia centrale, vanno stigmatizzate le “tendenze illiberali” in Russia che hanno effetto anche nei Paesi confinanti. Su RFE/RL si può comunque contare, “noi rimaniamo in corsa, anche quando gli altri perdono fiducia”.
In Afghanistan, la sezione radio locale (conosciuta come Radio Azadi, con trasmissioni nelle lingue dari e pashtun) ormai raggiunge quasi il 50% della popolazione adulta con le sue “solide analisi sulla lotta contro le risorgenti forze talebane”. In Iran, anche per colpa del governo che interferisce con il segnale radio e blocca il sito web, l’audience di RFE/RL è minore.
Le ultime parole di Gedmin sono dedicate alla nuova sede della radio, una struttura a sei piani di quasi 21.000 mq provvista di studi di registrazione multimediali ed una moderna sala stampa. “L’edificio è efficiente dal punto di vista energetico. Cosa più importante, è sicuro”.
Tanto che qualcuno l’ha paragonato ad un carcere di massima sicurezza.

Secondo testimone dell’audizione Dan Austin che, prima di diventare direttore di Voice Of America nel 2006, ha trascorso 36 anni alle dipendenze di Dow Jones & Company. Egli ha lavorato anche per il Wall Street Journal, arrivando a ricoprire le cariche di vice presidente e direttore generale. Non prima di essere stato pluridecorato veterano di guerra nell’esercito statunitense impegnato in Vietnam.
A differenza di Radio Free Europe/Radio Liberty, Voice of America diffonde le proprie trasmissioni sia per radio che per televisione ed attualmente è la più grande emittente USA a livello internazionale. Si stima che ogni settimana 134 milioni di persone nel mondo siano raggiunti dai suoi programmi, diffusi in 45 lingue diverse. 69 di questi 134 milioni sono spettatori delle trasmissioni televisive diffuse via satellite in 25 lingue.
Ovviamente, non è dato pensare che “ad ognuno di questi 134 milioni di persone piacciano l’America o le politiche americane”. In ogni caso, abbiamo “una credibilità presso le nostre audience che permette loro di farsi spazio nel chiasso di una penetrante propaganda ed attraverso la nebbia della cattiva e falsa informazione che oggi giorno caratterizza così tanti media mondiali”.
VOA può vantare 1.300 dipendenti e centinaia di corrispondenti occasionali e contrattisti in tutto il mondo, il cui lavoro costituisce la base delle sue 1.500 ore di programmazione settimanale.
In Kosovo, ad esempio, ben il 64% della popolazione adulta assiste alle trasmissioni radiotelevisive diffuse a partire dall’Albania. In Russia, causa “stretto controllo governativo”, VOA è organizzata come programma multimediale a partire dalla rete telematica, con una media di 60.000 visite mensili al proprio canale YouTube dedicato. Sono 4,75 milioni settimanalmente gli spettatori in Ucraina, mentre in Armenia ad assistere quotidianamente ai programmi tv di VOA è il 46% della popolazione adulta.
In Azerbaigian, dall’inizio del 2009 è in vigore un divieto di trasmissione che ha spinto i responsabili di VOA a diffondere i programmi radio in onde corte e quelli televisivi via satellite. Anche in Uzbekistan tira cattiva aria, tanto che la programmazione televisiva in lingua locale – l’unica prodotta da un emittente internazionale – è trasmessa da una stazione in Kirghizistan. La signora Rebiye Kadeer, leader esiliata della minoranza Uiguri in Cina, ha pubblicamente ringraziato VOA “quale fonte di informazione dalla quale tutti noi Uiguri dipendiamo”.

I bilanci annuali di RFE/RL e VOA ammontano, rispettivamente, a 90 e 201 milioni di dollari. “Noi crediamo che, dollaro per dollaro, siamo uno dei migliori investimenti che i contribuenti americani possano fare” dice Jeff Gedmin.
L’America sarà anche messianica – come sostiene, fra gli altri, Aymeric Chauprade – ma i suoi ideali coincidono con i suoi interessi.
E proprio “lì sta il motore della sua intima proiezione di potenza”.

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Tiberio Graziani parla dei rapporti tra Russia e UE

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Tiberio Graziani, direttore di “Eurasia”, è stato intervistato dal Giornale Radio Rai 3 sui rapporti tra Russia e Unione Europea. L’intervista è stata trasmessa nell’edizione delle 8.45 del 19 novembre, che può essere ascoltata cliccando qui (l’intervista a Graziani si situa dal minuto 11.56 al minuto 13.30).

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Slobodanka Ciric, Le ceneri e il sogno

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Ambasciata della Repubblica di Serbia

è lieta di invitarvi alla presentazione del libro

LE CENERI E IL SOGNO

di  Slobodanka Ciric

interverranno:

Prof. Gilberto Vlaic
Presidente dell’Associazione “Non Bombe Ma Solo Caramelle”

Gabriella Musetti
editrice, scrittrice

Esther Basile,
delegata Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli

Sergio Manes
Direttore editoriale delle edizioni “La Città del Sole”

duo “Aerae Napoli”, chitarra e voce 
Nicola Napolitano e Dante Ferri, voce recitante
Slobodanka Ciric.

martedì , 24  novembre 2009 ore 20,00

presso la Residenza dell’Ambasciatore

Via dei Monti Parioli, 22

00197 Roma

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La Russia respinge le preoccupazioni della NATO sulle esercitazioni militari con la Bielorussia

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Fonte:http://en.rian.ru/

BRUXELLES, 18 novembre — Non vi è alcuna ragione per la NATO d’essere interessata alle recenti esercitazioni militari su larga scala russo-bielorusse, vicini alla Polonia, ha detto la Russia all’Alleanza. Il portavoce della NATO James Appathurai, in precedenza, ha detto ai giornalisti che gli ambasciatori di 28 paesi della NATO avevano espresso preoccupazione per le dimensioni e lo scenario dell’esercitazione Zapad 2009, che ha coinvolto circa 13.000 effettivi. I media Polacchi hanno sostenuto che la Russia e la Bielorussia avevano simulato attacchi nucleari alla Polonia, durante le esercitazioni. La NATO ha anche detto che il messaggio politico di questa operazione era in contrasto con il recente miglioramento delle relazioni tra l’alleanza militare e la Russia.

“I nostri colleghi della NATO dovrebbero concordare le misure di fiducia sulle attività militari al confine dei vicini, già proposte da parte della Russia, invece di cercare di pensare a un nuovo problema nei nostri rapporti”, ha detto Dmitruij Rogozin. Rogozin ha anche detto che le esercitazioni congiunte con la Bielorussia erano di natura puramente difensiva, e la Russia aveva informato la NATO delle esercitazioni con largo anticipo.

Le manovre russo-bielorusse Zapad 2009, che si sono tenute l’8-29 settembre 2009 in Bielorussia, hanno coinvolto circa 13.000 effettivi in servizio, 63 aerei, 40 elicotteri, 470 veicoli da combattimento della fanteria, 228 carri armati e 234 pezzi d’artiglieria. L’esercitazione d’interoperabilità, tra le altre cose, ha testato il sistema di difesa aerea integrata bielorusso-russo, che i due paesi hanno deciso di istituire recentemente.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha detto l’8 ottobre 2009, durante la sua visita in Estonia, che Zapad 2009 in Bielorussia non rappresentava una minaccia per i membri della NATO.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Russia respinge le preoccupazioni della NATO sulle esercitazioni militari con la Bielorussia

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BRUXELLES, 18 novembre — Non vi è alcuna ragione per la NATO d’essere interessata alle recenti esercitazioni militari su larga scala russo-bielorusse, vicini alla Polonia, ha detto la Russia all’Alleanza. Il portavoce della NATO James Appathurai, in precedenza, ha detto ai giornalisti che gli ambasciatori di 28 paesi della NATO avevano espresso preoccupazione per le dimensioni e lo scenario dell’esercitazione Zapad 2009, che ha coinvolto circa 13.000 effettivi. I media Polacchi hanno sostenuto che la Russia e la Bielorussia avevano simulato attacchi nucleari alla Polonia, durante le esercitazioni. La NATO ha anche detto che il messaggio politico di questa operazione era in contrasto con il recente miglioramento delle relazioni tra l’alleanza militare e la Russia.

“I nostri colleghi della NATO dovrebbero concordare le misure di fiducia sulle attività militari al confine dei vicini, già proposte da parte della Russia, invece di cercare di pensare a un nuovo problema nei nostri rapporti”, ha detto Dmitruij Rogozin. Rogozin ha anche detto che le esercitazioni congiunte con la Bielorussia erano di natura puramente difensiva, e la Russia aveva informato la NATO delle esercitazioni con largo anticipo.

Le manovre russo-bielorusse Zapad 2009, che si sono tenute l’8-29 settembre 2009 in Bielorussia, hanno coinvolto circa 13.000 effettivi in servizio, 63 aerei, 40 elicotteri, 470 veicoli da combattimento della fanteria, 228 carri armati e 234 pezzi d’artiglieria. L’esercitazione d’interoperabilità, tra le altre cose, ha testato il sistema di difesa aerea integrata bielorusso-russo, che i due paesi hanno deciso di istituire recentemente.

Il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha detto l’8 ottobre 2009, durante la sua visita in Estonia, che Zapad 2009 in Bielorussia non rappresentava una minaccia per i membri della NATO.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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I doni avvelenati dell’Angelo misericordioso

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Malgrado le ripetute smentite e censure dei governi e dei militari della NATO, contro la Jugoslavia nel 1999 furono condotti bombardamenti contrari al diritto internazionale, colpendo intenzionalmente la popolazione civile e l’ambiente con agenti nocivi i cui effetti perdurano negli anni. Tra essi il più noto ed utilizzato è l’uranio impoverito, contenuto nei proiettili. Ricerche scientifiche e statistiche raccolte sul campo, sia tra i civili sia tra i soldati occupanti, dimostrano come l’uranio impoverito provochi brusche impennate nell’incidenza di tumori maligni, malattie genetiche e malformazioni congenite. Il suo effetto nocivo non rimane confinato alla sola zona bombardata, ma tramite i venti e le piogge s’estende alle regioni circostanti, anche a grandi distanze.

ERRATA CORRIGE: Nella precedente versione del presente Rapporto era stata attribuita al prof. Alessandro Massimo Gianni una frase in cui il diretto interessato non si è riconosciuto. Avendo ricevuto la sua smentita, l’erronea citazione è stata rimossa. Ci scusiamo col prof. Gianni e con i lettori per l’errore commesso in buona fede


Titolo: I doni avvelenati dell’Angelo misericordioso. I doni avvelenati dell’aggressione NATO alla Serbia
Autori: Dragan Mraovic
Numero rapporto: 3
Data di pubblicazione: 19 novembre 2009 (prima versione: 17 novembre 2009)
Leggi il Rapporto pdf (0,8 MB)

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Francesco Clementi, Città del Vaticano

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Francesco Clementi
Città del Vaticano

Società editrice il Mulino
Collana: Si governano così ( a cura di Carlo Fusaro)
Bologna 2009

ISBN 9788815131515
pp. 144 – Euri 11.00

Il libro
Quarantaquattro ettari: un minuscolo territorio a forma di trapezio che appare tanto noto quanto ignoto. Fondamentale luogo di culto per la religione cristiana, ma anche città nella città di Roma, cuore dell’espressione giuridica del governo centrale della Chiesa, ma anche enclave nella capitale italiana, lo Stato della Città del Vaticano è sorto il 7 giugno 1929 (giorno dello scambio degli strumenti di ratifica dei Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio da Santa Sede e Italia) a conclusione della cosiddetta questione romana, che tanto aveva tormentato i rapporti tra Regno d’Italia e Stato pontificio dopo la breccia di Porta Pia nel 1870. Con un assetto più che unico nel panorama costituzionalistico, che tipo di Stato è la Città del Vaticano? Che rapporti ha con la Santa Sede, la Chiesa cattolica e lo Stato italiano? Quali fonti normative lo regolano? Come si articolano al suo interno l’esercizio del potere e le sue istituzioni? E che diritti (e doveri) vi sono per coloro che godono della sua cittadinanza? A tali interrogativi il volume fornisce documentate quanto esaurienti risposte.

L’autore
Francesco Clementi insegna Diritto pubblico comparato nell’Università di Perugia. Ha tra l’altro pubblicato “Profili ricostruttivi sull’elezione diretta del primo ministro” (Aracne, 2005).

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Un santo vivente

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Centinaia di migliaia di persone nella Chiesa ortodossa Saborna crkva dell’Arcangelo Michele (chiesa centrale di Belgrado) in tre giorni di lutto nazionale hanno passato accanto alla bara aperta del Patriarca serbo Pavle, morto a 96 anni, per rendergli l’ultimo omaggio. I funerali svoltisi il 19 novembre hanno visto la presenza di più di seicento mila persone e le delegazioni religiose, politiche ed altre del più alto livello nazionale ed internazionale. Presenti il Patriarca ecumenico di Constantinopoli Bartolomeo, ma anche il Vaticano con il cardinale Soldano. Dopo la Messa centrale davanti il più grande tempio ortodosso attivo nel mondo, la Chiesa di San Sava, il Patriarca ortodosso serbo Pavle è sepolto nel cortile del modesto monastero di Arcangelo Michele di Rakovica in lontana periferia di Belgrado.

Un messaggio di cordoglio è arrivato anche dal papa Benedetto XVI.

Gojko Stojcevic diventato monaco Pavle (Paolo) era una persona molto modesta. Non ha mai usufruito di comodità dovute ad un patriarca, ma si spostava sempre a piedi, si preparava da mangiare anche da solo, quasi sempre le verdure e le mele secche preparate da lui stesso, beveva esclusivamente i succhi di frutta e di pomodoro, riparava da solo i propri vestiti e le scarpe, dormiva in un semplice letto di ferro in una cella di meno di dieci metri quadri nel Patriarcato di Belgrado. Il suo materasso era un sacco riempito di foglie secche di granoturco senza cuscino.

Questo santo vivente ricordava sempre i serbi di non fare i crimini per difendersi dai crimini degli altri: “Seguiamo sempre la strada della giustizia e dell’onestà, della fede e della virtù, dell’umanità e della cavalleria cristiana, senza odio e senza vendetta nei confronti di chiunque, sempre in ginocchia davanti al Dio e mai davanti agli uomini”.

A Butros Gali, quando questi era il segretario generale delle ONU, disse: “Mi auguro da lei e da tutta l’altra gente di buona volontà nel mondo di esaminare la verità da tutte le parti e di fare una giustizia uguale per tutti”.

Purtroppo sappiamo che la giustizia, neanche quella delle ONU, non è uguale per tutti in questo mondo dominato dagli interessi e non dal senso di umanità.

Se l’uomo permette a se stesso di consumare tutta la propria volontà solo per la propria famiglia e per il proprio popolo rimanendo così senza buona volontà per gli altri popoli, è una disgrazia sia per lui sia per il suo popolo” – diceva il Patriarca serbo aggiungendo spesso che “le circostanze non sempre dipendono da noi, però dipende solo da noi se ci comporteremo da uomini o da non-uomini”.

La Chiesa ortodossa serba è l’istituzione nazionale alla quale i serbi credono più che al governo, esercito, polizia, presidente dello stato, ecc. Il Patriarca Pavle era l’unica persona che era apprezzata da tutti senza riguardo alla politica partitica o personale. Ora i serbi perdono un uomo che era uno degli amalgami più forti della nazione e della chiesa stessa.

Come andranno le cose nel futuro non è ancora chiaro perché nel clero serbo-ortodosso ci sono varie correnti. C’è chi vuole riforme e chi non le vuole, c’è chi vede il futuro nell’ecumenismo e nell’avvicinamento ad altre chiese cristiane e c’è chi dice che bisogna allontanarsi dai politici e dai nuovi ricchi… Non sarà facile trovare un nuovo custode del trono di San Sava.

Inoltre molte organizzazioni non governative di stampo atlantista in Serbia spingono la chiesa serba a rinunciare alla storia ed alla tradizione usando i mezzi poco civili e poco democratici mentre dall’altra parte chi è di orientamento nazionale e vede nella Chiesa ortodossa serba uno degli ultimi baluardi di salvezza della dignità nazionale. I politici maggiormente cercano di usare la chiesa solo nelle campagne elettorali e un po’ di questo si è visto purtroppo anche nei giorni di lutto nazionale per la morte del Patriarca quando certi politici coglievano questa triste occasione per farsi avanti e più di tutti il presidente serbo Tadic anche se la sua politica filoatlantista sta in netto contrasto con la politica della Chiesa ortodossa serba e con l’operato del Patriarca.

Tutto quanto stona molto con l’immagine di modestia personale di un uomo santo quale era Pavle, un vero beniamino della nazione serba, un vero uomo santo.

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Unione Europea. Il nuovo sistema SWIFT e il nuovo abbandono della sovranità

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Il caso Swift è scoppiato quando, nel 2006, la stampa statunitense rivelò che questa società aveva, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, trasmesso clandestinamente al Dipartimento del tesoro degli USA alcune dozzine di milioni di dati confidenziali relativi alle operazioni dei suoi clienti [1].

Swift, società americana di diritto belga, tratta gli scambi internazionali di circa 8.000 istituzioni finanziarie presenti in 208 paesi. Essa assicura i trasferimenti di dati relativi ai pagamenti, ma non il trasferimento di denaro.

Malgrado le flagrante violazione delle leggi, europea e belga, sulla protezione dei dati personali, questo trasferimento non è stato mai messo in causa. Al contrario, l’UE e gli USA hanno firmato molteplici accordi per legittimare l’acquisizione dei dati riservati.

Tutti gli accordi sono stati giustificati nell’ambito della lotta al terrorismo. Il sequestro dei dati operato dalle autorità statunitensi è stato reso possibile grazie alla particolarità del sistema Swift. In pratica, tutti i dati riservati allocati nel server europeo erano parimente presenti in un secondo server di stanza negli USA. Ciò ha consentito alla dogana statunitense di prenderne possesso, giacché la legge americana consente questo tipo di sequestri.

Una razionalizzazione del sistema Swift

Dopo il giugno del 2007, era previsto che i dati Swift inter-europei non fossero più trasferiti negli USA, ma inseriti in un secondo server europeo. Tale nuova procedura si avvicinava di più alle norme europee ed eliminava la possibilità delle autorità statunitensi di acquisire le informazioni. Il nuovo server, piazzato a Zurigo, dovrebbe diventare operativo a partire dal mese di novembre 2009.

A seguito della riorganizzazione e contrariamente a ciò che era stato affermato nei precedenti accordi, Jacques Barrot, commissario europeo alla Giustizia, ha spiegato che i 27 desideravano fornire agli investigatori del tesoro degli USA l’accesso ai centri operativi europei amministrati dalla società Swift. Ha anche dichiarato che “sarebbe molto pericoloso in questa fase cessare la sorveglianza e il controllo dei flussi di informazione” ed affermato che le operazioni sul server americano di Swift si erano rivelate “uno strumento importante ed efficace”.

Barrot ha ripreso semplicemente le dichiarazioni del giudice Brugière, la “personalità eminente” designata dalla Commissione per “controllare” l’uso americano delle dozzine di milioni di dati trasferiti ogni anno. Quest’ultimo aveva detto che il sequestro aveva “permesso di evitare un certo numero di attentati”. Non era stato prodotto o citato alcun esempio che permettesse di verificare tali asserzioni. L’enunciazione del carattere indispensabile del sequestrio dei dati finanziari diventata la prova del successo di tale politica nella lotta contro il terrorismo. Veniva stabilita un’identità tra la parola e la cosa.

Un sequestro fine a se stesso
L’enunciazione della lotta al terrorismo basta a giustificare il sequestro dei dai finanziari

La ragione invocata acquista un carattere surreale quando si sa che la commissione ufficiale d’inchiesta sugli attentati dell’11 settembre 2001 non ha voluto indagare sui movimenti di capitali sospetti, registrati i giorni precedenti gli attentati stessi. Tuttavia, proprio prima degli attacchi dell’11 settembre, il 6, 7 e 8, hanno avuto luogo opzioni di vendita eccezionali sulle azioni delle due compagnie aeree (American e United Ailines) i cui velivoli furono sequestrati dai pirati, come anche sulle azioni di Merril Lynch, uno dei più grandi affittuari del World Trade Center. Queste informazioni sono state rivelate precisamente da Ernst Welteke, all’epoca presidente della Deutsche Bank, il quale ha anche dichiarato che c’erano molti più fatti attestanti che le persone implicate negli attentati avevano approfittato di informazioni confidenziali al fine di realizzare operazioni sospette. Tutti questi elementi, il fatto che un attentato terrorista non ha bisogno di importanti trasferimenti di fondi e la volontà politica di non investigare sui trasferimenti finanziari sospetti, ci mostrano che l’acquisizione dei dati finanziari dei cittadini è un obiettivo in sé.

Un abbandono della sovranità

La Commissione vuole dapprima firmare un accordo transitorio, che avrebbe effetto con la messa in marcia del server di Zurigo. Questo obiettivo è stato confidato alla presidenza svedese, rigettando così ogni possibilità di decisione condivisa con il Parlamento. Ciò ha la sua importanza, poiché il Consiglio segue praticamente ogni giorno le posizioni dei funzionari permanenti e costoro si rivelano essere, spesso, dei semplici canali dei negoziatori americani. Il commissario Barrot afferma di realizzare un accordo equilibrato, ma egli ha dovuto riconoscere che il testo attuale non include l’accesso delle autorità europee alle transazioni bancarie americane.

A questo accordo transitorio deve succedere un testo definitivo, anch’esso unilaterale. Si tratterebbe. Dopo un anno, di “rinegoziare” ciò che è stato accettato d’urgenza. Tale accordo dovrebbe essere validato dal Parlamento europeo, quando il Trattato di Lisbona, che dà a questa assemblea più poteri in materia di polizia e di giustizia, verrà applicato. La volontà proclamata di attendere la ratificazione del Trattato mostra che si tratta di far riconoscere, dal Parlamento, un diritto permanente delle autorità americane di sequestrare, sul suolo europeo, dati personali di cittadini dell’Unione. I nuovi “poteri” accordati al Parlamento trovano la loro ragione d’essere nella legittimazione dei trasferimenti di sovranità dell’UE agli USA.

Questa posizione ha il merito di essere trasparente, di presentare il Trattato, non come un testo costituzionale interno all’Unione, ma come un atto d’integrazione dell’UE in un’entità sopranazionale sotto la sovranità statunitense.

Questo nuovo accordo che permette alle dogane statunitensi di catturare, sul suolo europeo e senza alcuna reciprocità, dati personali dei cittadini dell’Unione, rappresenta un nuovo passo nell’esercizio della sovranità diretta delle istituzioni statunitensi sulle popolazioni europee.

1. « Gli scambi finanziari sotto controllo USA », Eurasia N° 1 2009, Gennaio/Marzo

Jean-Claude Paye, sociologo, autore de La fine dello Stato di diritto, manifestolibri. 

Contributi pubblicati in Eurasia: Spazio aereo e giurisdizione statunitense (nr. 4/2007, pp. 109-113), Gli scambi finanziari sotto controllo USA (nr. 1/2009, pp. 109-120).

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